Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-03-2012, n. 4973 Regolamento di condominio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1) La controversia concerne il diritto di F.D.L. e di P.N. R.G. di esercitare un’attività commerciale con destinazione bar gelateria nel condominio sito in (OMISSIS).

Nel (OMISSIS) G.G., proprietario dell’unità immobiliare sita al (OMISSIS) e destinata, a suo dire, a bar ristorante, evocava in giudizio i suddetti, quali eredi di P.N.A., proprietario del magazzino sito al numero 90, chiedendo che fossero condannati a far cessare l’illegittima destinazione lamentata.

G. invocava il rispetto della clausola del regolamento condominiale, predisposto dall’originario unico costruttore del compendio immobiliare, secondo la quale i magazzini ubicati a ponente della gradinata di accesso al parco comunale non avrebbero potuto "essere destinati a caffè bar fino a quando il locale ubicato a levante della gradinata" avesse conservato tale destinazione.

Nel costituirsi F.D.L., che si qualificava usufruttuaria del bene e P.N. deducevano: a) che il mutamento di destinazione d’uso era stato autorizzato dalla maggioranza dei condomini ex art. 6 del regolamento; che l’attore aveva adibito il locale non più a caffè bar, ma a ristorante pizzeria; c) che la clausola integrava un patto di non concorrenza inefficace oltre il quinquennio dalla sua stipulazione; d) che non vi era, allo stato, possibilità di sviamento di clientela.

La domanda veniva respinta il 2/10/2002 dal tribunale di Sanremo, che accoglieva il rilievo sub c).

La decisione di rigetto veniva confermata il 19/12/2 005 dalla Corte di appello di Genova, la quale rilevava che, al di là della natura della clausola, risultava decisiva la circostanza che era intervenuto un mutamento di fatto della destinazione del locale dell’appellante, adibito originariamente a caffè bar.

1-1) La corte territoriale riteneva irrilevante il rilievo del G. secondo il quale la licenza di pubblico esercizio prevedeva comunque l’attività di bar.

La Corte osservava che, essendo attualmente ivi svolta l’attività di ristorante pizzeria, e non quella di bar, si doveva credere: a) o che l’appellante svolgesse quest’ultima attività e avesse modificato la licenza stessa, senza però produrre il nuovo documento in causa;

ovvero, b) che svolgesse la nuova attività in contrasto con l’oggetto della licenza, situazione questa che in ogni caso faceva perdere effetto alla clausola che inibiva agli altri locali di esercitare l’attività di caffè o bar.

In mancanza di chiarimento, la Corte d’appello riteneva provato il mutamento di destinazione d’uso e quindi il verificarsi della condizione sospensiva.

1.2) G.G. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 28 marzo 2006, sulla base di tre motivi illustrati da memoria.

Gli appellati hanno resistito con controricorso.

Motivi della decisione

2) Con il primo motivo il G. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2721, 2727, 2729 c.c., del D.M. 28 aprile 1976 e D.M. 4 agosto 1988, n. 375, art. 32 – art. 116 c.p.c. e art. 111 Cost., e vizi di motivazione.

Dopo aver ricostruito l’attività istruttoria svolta in causa, con un primo profilo di censura parte ricorrente espone che nel giudizio di tribunale i convenuti avevano chiesto prova testimoniale per dimostrare che il locale G. era adibito solo a ristorante pizzeria, prova ritenuta inammissibile dal tribunale, in quanto contrastante con le risultanze documentali. Aggiunge che detta ordinanza non era stata reclamata, nè era stata oggetto di richiesta di revoca in sede di conclusioni.

Il rilievo è inconferente: premesso che il reclamo sull’ammissibilità delle prove testimoniali (art. 178, comma 2) era stato all’epoca soppresso dalla L. n. 353 del 1990 con decorrenza dal 30 aprile 1995, va ribadito che la mancata ammissione di prove testimoniali non impedisce tuttavia una valutazione delle risultanze disponibili conforme a quella che le prove testimoniali intendevano sostenere, giacchè preclude soltanto l’acquisizione delle prove testimoniali stesse, ma non vincola i giudici dei due gradi di merito quanto alla valutazione degli atti acquisiti.

2.1) Errata è anche l’interpretazione dell’art. 2729 c.c., proposta in ricorso. La difesa del G., dopo aver ricordato che ai sensi della norma citata le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni, sostiene che la Corte d’appella ha indebitamente adoperato lo strumento presuntivo, sebbene la prova testimoniale fosse stata ritenuta inammissibile.

Trattasi di una lettura fuorviante della norma. l’art. 2729 si riferisce ai casi in cui sia. impossibile ammettere la prova testimoniale ( artt. 2721 e 2722 c.c.), ma non ai casi in cui la prova, in astratto ammissibile, venga negata perchè ritenuta superflua alla luce dei riscontri documentali già disponibili in atti.

2.2) Altro profilo di critica si appunta sull’affermazione della sentenza impugnata secondo cui sarebbe mancata un’espressa contestazione delle risultanze in ordine all’uso come ristorante del locale G.. Parte ricorrente deduce di aver prodotto ulteriore documentazione (contratti di locazione con evidenziata la destinazione del ristorante bar nonchè ulteriore certificazione della licenza con destinazione bar) e rileva di aver contestato in comparsa conclusionale i documenti depositati da parte convenuta.

Pertanto, non sussistendo la mancata contestazione, non sarebbero legittime le inferenze presuntive tratte dai giudici di appello.

Anche questa critica è infondata.

Occorre a questo punto puntualizzare che la questione da decidere concerneva la permanenza dell’uso effettivo dell’immobile G. a bar, al fine di far ritenere sussistente il divieto contrattuale di adibire altro locale, in quel compendio immobiliare, alla medesima attività.

Era ovviamente parte attrice, oggi ricorrente, a dover fornire la prova della sussistenza dei presupposti della domanda, cioè della sussistenza della condizione di fatto che consentiva di mantenere il diritto riconosciutole.

La Corte doveva valutare l’idoneità o meno dei documenti forniti da parte ricorrente ad attestare l’attività svolta, ovvero la maggiore valenza probatoria di quelli prodotti da parte resistente.

In quest’ottica si è posta la sentenza, la quale ha ragionato sulla base di fotografie prodotte in atti e delle risultanze delle "pagine gialle" relative alle denominazioni ed indirizzi dei ristoranti della zona, desumendone l’avvenuto mutamento della destinazione del locale da bar a ristorante pizzeria. L’atteggiamento difensivo di non contestazione della veridicità di quanto rappresentato nelle foto o dei dati inseriti nella pagine gialle non è stato assunto quale prova del fatto, ma è stato valorizzato, a completamento non decisivo degli argomenti utilizzati, solo per confermare la ricostruzione della situazione fattuale. Non rileva pertanto la contestazione indiretta, di tipo argomentativo, offerta con altra documentazione. La Corte d’appello non ha ritenuto affidabile questa documentazione ed è questo il punto su cui doveva appuntarsi la critica.

3) Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e art. 345 c.p.c., "ultrapetizione, nullità della decisione art. 112 c.p.c. – vizi di motivazione.

Vizi di motivazione sono esposti anche nel terzo motivo.

Si tratta di brevi e generiche censure al tessuto della motivazione, che investono la rilevanza della licenza e ipotizzano tra l’altro che vi sia stata la ricerca d’ufficio di fatti costitutivi.

A parte ricorrente duole che i giudici di appello abbiano riflettuto sulla incoerenza tra licenza commerciale e usi della stessa e sulla mancata produzione di una modifica della licenza.

Ciò non configura certamente violazione della "corrispondenza tra chiesto e pronunciato" o di "ricerca d’ufficio dei fatti costitutivi".

Premesso che in ogni caso si sta discutendo non di fatti costitutivi, ma di fatti secondari da cui desumere in via presuntiva la situazione fattuale, era dovere dei giudici, come già si è detto, confrontare la maggiore affidabilità della documentazione proveniente dall’una e dall’altra parte ed era congrue e logico ogni ragionamento relativo alle incertezze che lasciavano documenti quali le licenze e il contratto, idonei a dimostrare autorizzazioni e facoltà, ma non ad attestare che l’attività svolta fosse l’una e non l’altra.

Va qui aggiunto che proprio la mancanza di prova testimoniale circa l’effettività dell’uso rende giustificata la diffidenza con cui è stata valutata dai giudici di appello la documentazione proveniente da chi, secondo il criterio di vicinanza, avrebbe più facilmente potuto e dovuto fornire conoscenze processuale non deduttive ma effettive.

Congruamente sono stati considerati maggiormente credibili i riscontri, più vicini alla realtà fattuale, offerti dai convenuti.

Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla refusione delle spese di lite liquidate in Euro 3.500,00 per onorari, Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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