Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-05-2011) 14-10-2011, n. 37045 Aggravanti comuni danno rilevante

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- Con sentenza resa il 29 marzo 2010 la Corte di Assise di Appello di Torino confermava la sentenza 29 giugno 2006 con la quale la Corte di Assise di Novara aveva assolto, per non aver commesso il fatto, P.E. e Pi.Da. dal delitto di cui all’art. 112 c.p., art. 61 c.p., n. 5, art. 575 c.p., art. 577 c.p., n. 4 in relazione alle circostanze di cui ai numeri 1 e 4 dell’art. 61 c.p., perchè in concorso tra loro e con altre persone non identificate, in numero non inferiore a cinque, aggredendo in (OMISSIS), F.B.A. con percosse, calci, colpi di bastone e altri corpi contundenti, provocavano allo stesso gravissime lesioni in varie parti del corpo e del capo, dalle quali conseguiva, il (OMISSIS) presso l’ospedale degli Infermi di Biella, la morte dell’aggredito.

Verso le ore 3,40 del mattino del 24 febbraio 2002 una ambulanza del Servizio 118, allertata da due telefonate anonime, si reca presso i portici di Piazza Vittorio di Biella ove rinviene F.B. A. riverso a terra, lo conduce al pronto soccorso dell’ospedale dove gli vengono riscontrate delle ferite al volto e al capo con fuoriuscite di sangue e numerose altre ferite nel resto del corpo. Il ferito è vigile, compatibilmente con la sua condizione di alcolista cronico, e non pare in gravi condizioni, pertanto è trattenuto in osservazione e dopo le ore 8,00 viene sottoposto ad altri accertamenti dai quali emerge una frattura della volta cranica con presenza di un ematoma temporo-occipitale; alle successive ore 16,00 il F.B. alzatosi dal letto perde coscienza ed entra in coma, condizione nella quale permane sino al decesso avvenuto il 18 marzo successivo. Il successivo esame autoptico stabilisce che la morte è conseguita ad insufficienza respiratoria acuta causata dal complesso traumatico al capo ove è rilevata, dai consulenti incaricati, la presenza di vari punti focali di emorragia epi e sotto durale che è evoluta fino all’erniazione intracranica di porzioni encefaliche, viene rilevata anche la frattura del piastrone sterno- costale all’ultima costa destra all’inserzione sternale. L’avvenuta sutura delle fratture craniche rende difficile l’indicazione degli strumenti usati per infliggere le lesioni, anche se, secondo i consulenti, le stesse per la loro caratteristica lineare, la profondità e la diastasi, inducono a ritenere che siano state cagionate con strumenti a superficie battente estesa, tipo bastone, usati per infliggere colpi, almeno quattro, con particolare forza.

Le indagini (iniziate il 25 febbraio, non portano al rinvenimento di bastoni e altri corpi contundenti nella zona dell’aggressione e nelle vicinanze di essa; vengono sequestrati coperte, i vestiti intrisi di sangue della vittima, repertate ed analizzate tracce ematiche e i successivi accertamenti si concludono nel senso che tutte le tracce biologiche rilevate si riferiscono alla sola vittima.

Le ipotesi investigative iniziali non raggiungono risultati tranne l’identificazione di una guardia giurata, C.S., il quale, in servizio la notte tra il (OMISSIS), riferisce di aver notato, verso le 23,00 sotto i portici ove stava di solito, il F.B. e anche un individuo, dell’età di 28/30 anni, seduto sugli scalini del negozio Chicco di via (OMISSIS) con una bottiglia in mano; aveva poi rivisto alle ore 2,00/2,30 la stessa persona nel medesimo luogo ed era stato colpito dallo sguardo e dal comportamento allucinato dello stesso.

Le indagini si indirizzano verso gli odierni imputati dopo che una lettera anonima indica alla Questura che l’aggressione era stata il completamento di altra, precedente, ai danni della stessa vittima.

Sulla scorta del contenuto delle intercettazioni ambientali delle conversazioni tra i due imputati e la fidanzata del P., D.L., mentre gli stessi si trovavano, il 2 agosto 2002, presso la Questura, viene identificato Ca.Ni., che la guardia giurata C. riconosce come l’individuo dal lui visto due volte vicino al negozio Chicco di via (OMISSIS) la notte tra il (OMISSIS). Il Ca. è convocato dagli inquirenti assieme a Pi.Da. e i loro colloqui vengono registrati e filmati; successivamente viene emessa nei suoi confronti ordinanza di custodia cautelare per il delitto di omicidio in danno del F. B. e all’atto della notifica viene intercettato il suo colloquio con un funzionario di polizia.

Sulla scorta delle chiamate in correità rese davanti al Pm dal Ca. vengono raggiunti da ordinanza di custodia cautelare Pi.Da. e P.E. e le indagini proseguono con intercettazioni e con diversi interrogatori del Ca., il quale viene anche sentito in sede di incidente probatorio il 20 novembre 2003: processato, quindi, con il rito abbreviato viene condannato alla pena di anni dieci di reclusione per l’omicidio commesso in concorso con gli odierni imputati e, prima che venga celebrato il processo di appello nei suoi confronti, il Ca. muore.

Nei confronti degli odierni imputati viene celebrato processo davanti alla Corte d’assise di Novara la quale, con sentenza in data 29 giugno 2006, ritiene che gli elementi raccolti dal PM e approfonditi in dibattimento non reggono al vaglio di concordanza, precisione e univocità richiesto dal codice di rito per la prova indiziaria, che l’esistenza di spiegazioni alternative a quelle proposte dal PM rispetto a ciascuno degli indizi raccolti rende impossibile procedere alla loro valutazione complessiva che permetta di formare un quadro probatorio non ambiguo ma logico e armonico, quale è richiesto per la condanna; in conseguenza assolve gli imputati per insufficienza e contraddittorietà della prova della commissione del fatto.

L’assoluzione è poi confermata dalla Corte di assise di appello di Torino con la decisione oggetto dell’odierno gravame la quale, compiuta una cospicua attività istruttoria conformemente anche a quanto esposto dal PM nei motivi di appello – eccezione fatta per l’acquisizione della sentenza della Corte di assise di appello di Torino in data 3 marzo 2006 che aveva dichiarato non luogo a procedere per morte del reo nei confronti di Ca.Ni. – valutati tutti gli elementi del compendio probatorio quali: gli elementi oggettivi dell’aggressione, la chiamata in reità e poi in correità di Ca., le intercettazioni ed altri elementi minor significato accusatorio acquisiti al processo, ritiene di condividere le conclusioni del primo giudice. Afferma, infatti, che la chiamata in correità del Ca. non essendo contraddistinta da costanza, coerenza, assenza di pressioni inquinanti e di movente autoassolutorio, non è idonea ad attribuire agli imputati le condotte omicidiarie giudicate. L’inidoneità della prova dichiarativa impedisce che tutti gli elementi estrapolabili dalle intercettazioni e anche gli altri elementi secondari esaminati possano fungere, secondo il paradigma di legge, da riscontro alle accuse nei confronti degli imputati. I contenuti delle intercettazioni e gli altri elementi acquisiti per la loro ambiguità e per le diverse possibili interpretazioni degli stessi non possono essere considerati quali prove autonome a carico degli imputati per cui deve condividersi la decisione dei primi giudici circa l’incompletezza e l’insufficienza delle prove di colpevolezza a carico dei prevenuti.

1.2.- Ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Torino adducendo a ragione mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Evidenzia il PM ricorrente che la sentenza impugnata ha ritenuto sussistenti a carico degli imputati i seguenti elementi principali di prova: -la pronuncia da parte del P. della frase, riportata nella relativa intercettazione e definitivamente accertata nel suo esatto contenuto dal supplemento di perizia:

"abbiamo fatto pulizia tutti e tre quella notte";

– la raccomandazione fatta dal Pi. al Ca.: "non dire com’è morto sennò mi danno il triplo";

– la frase pronunciata dal Ca., di cui alla relativa intercettazione: "ce futtettero";

– l’indicazione venuta dal Pi., e anche dal P., di cui alla relativa intercettazione, del coinvolgimento di un " Ni." che altri non poteva essere che il Ca., in quel momento ancora ignoto alle indagini;

– i riferimenti fatti da Pi. e dalla D. a bastoni usati nell’aggressione e a tracce di sangue;

ha contemporaneamente ritenuto sussistenti anche ulteriori elementi, sia pure di minor significato accusatorio:

– i falsi alibi forniti rispettivamente a P. dalla D. e a Pi. dalla R.;

– la prova che anni prima il P. assieme ad altri avesse aggredito la vittima e che 15 giorni prima dell’omicidio P. e Pi. avessero aggredito nuovamente la vittima;

oltre alla circostanza che il teste V. aveva confermato in dibattimento di aver visto P. dopo l’aggressione con una fasciatura al braccio e che il Pi. intercettato aveva detto ai parenti: "se c’ero avrò visto, ma non mi ricordo… Magari potevo esserci". I suddetti elementi di accusa non potevano essere valutati come elementi probatori significativi secondo, la Corte di appello, in presenza di un giudizio di inattendibilità intrinseca della chiamata in correità del Ca.. Ma il giudizio di inattendibilità effettuato è incoerente e illogico in quanto, nel sottoporre a osservazione le dichiarazioni del Ca. i giudici non sono giunti alla conclusione che di per sè stesse esse fossero non conformi al vero ma, piuttosto, che riguardo alla loro attendibilità si ponessero due alternative: una di conformità al vero e l’altra di non conformità. Avendo ritenuto gli elementi di prova sopraindicati come validi, qualora valutati come elementi di riscontro, e riscontrando tali elementi la prima delle due alternative, secondo il paradigma di giudizio dettatosi dalla Corte di appello, l’esito della valutazione di attendibilità avrebbe dovuto essere positivo, e la soluzione contraria alla quale, invece, è pervenuta è manifestamente illogica è incoerente.

Altra censura del PM ricorrente è che la Corte avrebbe dovuto motivare se il giudizio di inattendibilità delle chiamate in correità poteva conciliarsi con l’attendibilità delle dichiarazioni del Ca. di contenuto auto accusatorio, ritenute fondate nel separato giudizio a suo carico, ovvero chiarire se riteneva inattendibile anche la frase con cui questi si era incolpato;

"Picchiatelo, picchiatelo, perchè da fastidio a tutti". In sostanza giudici d’appello dovevano spiegare se tutte le affermazioni del Ca. erano inattendibili o se poteva coesistere un giudizio frazionato: di attendibilità verso se stesso e di inattendibilità nei confronti dei correi.

Altrettanto illogica e contraddittoria è l’affermazione che gli elementi di riscontro delle chiamate in correità, definiti dall’art. 192 c.p.p., comma 3, "elementi di prova che ne confermano l’attendibilità", non sono persuasivi, rapportata alla contemporanea affermazione che, se la chiamata in correità fosse stata attendibile, gli stessi elementi sarebbero stati da considerare, a pieno titolo, elementi di riscontro, cioè elementi di prova che ne confermavano l’attendibilità. Di qui la censura costituita dal fatto che la Corte, che aveva conclusivamente ritenuto che gli elementi di accusa sopraindicati avrebbero potuto costituire validi elementi di riscontro, non ha spiegato anche perchè i suddetti elementi, valutati come prove autonoma, non fossero, invece, idonei da soli a provare la colpevolezza degli imputati, soprattutto se valutati in maniera globale ed unitaria e non in maniera parcellizzata come invece ha fatto la Corte.

.3.- Il Procuratore Generale dott. Vito D’Ambrosio ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato.

Motivi della decisione

Il Ricorso è infondato.

1.- Secondo l’impianto argomentativo della impugnata sentenza, scandito da passaggi consequenziali e logicamente ineccepibili, le dichiarazioni di Ca.Ni. costituiscono l’unica fonte di prova d’accusa rappresentativa nei confronti dei due imputati e, pertanto, di importanza centrale nell’ambito del giudizio.

Rispetto a tali dichiarazioni la Corte territoriale evidenzia come esse siano caratterizzate dal perdurante ondeggiamento delle diverse versioni fornite sino alla fine delle indagini, in ragione non tanto di una confusività costituzionale del soggetto quanto, piuttosto, di un suo atteggiamento strumentale furbesco che si adegua alle proposte di protezione ed aiuto che percepisce promanare dagli investigatori e dalla autorità giudiziaria. Egli, in sostanza, non risponde secondo verità ma sulla base di quel che percepisce utile ai fini della sua posizione processuale, come dimostrato: 1)- dalla spiegazione fornita alla ritrattazione in sede di incidente probatorio circa la sua ammissione di concorso nell’omicidio, giustificata dal non aver compreso bene cosa gli domandava il PM e dal non ricordare ciò che era scritto negli atti; 2) – dalla circostanza accertata che parlò per essersi sentito accusato dal Pi. e dal P., i cui nomi aveva letto nell’ordinanza di custodia cautelare emessa nei suoi confronti e che gli furono indicati quali accusatori sia dal funzionario di polizia che ebbe con lui un colloquio (registrato) all’atto della notifica dell’ordinanza che dal GIP in sede di convalida.

Il Ca., come evidenziato in sentenza con preciso riferimento ai riscontri fattuali emergenti dagli atti del processo, fu sottoposto a spregiudicate pressioni sin dalla prima fase del suo arresto ad opera dell’ufficiale di PG, contestualmente alla notifica dell’ordinanza di custodia cautelare, affinchè accusasse il P. ed il Pi. e, al contempo, ciò facesse senza rendere dichiarazioni autoaccusatorie; pressioni che hanno irrimediabilmente inquinato la genesi stessa della chiamata in reità di Ca. nei confronti degli imputati.

Di qui la inattendibilità delle sue reiterate, ma sempre differenti quanto a particolari e modalità di verificazione dei fatti, chiamate in reità e di quella in correità resa al PM il 4.7.2003.

Giova in proposito ribadire che, ai fini di una corretta valutazione della chiamata in reità e in correità a mente del disposto dell’art. 192 c.p.p., comma 3, il giudice deve in primo luogo sciogliere il problema della credibilità del dichiarante in relazione, tra l’altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio- economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in reità o in correità ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione a rendere dichiarazioni etero ed autoaccusatorie; in secondo luogo deve verificare l’intrinseca consistenza e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; infine egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni. L’esame del giudice deve esser compiuto seguendo l’indicato ordine logico perchè non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata, in reità o in correità, e degli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità, se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sè, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa (SS UU., 21.10.1992, Marino e altro).

Correttamente, pertanto, i giudici di appello hanno, dopo vaglio puntuale ed attento, affermato che la chiamata in reità ed in correità del Ca., a cagione della sua plausibile scaturigine e dei suoi continui mutamenti, non corrisponde ai parametri di spontaneità, coerenza, precisione e costanza che devono essere utilizzati per verificare, con giudizio unitario, la credibilità del dichiarante e l’attendibilità del contenuto delle sue dichiarazioni (cass. Sez. 2, sent. 12.12.2002, n. 15756, PG in proc. Contrada, Rv.

225565). In tal senso appaiono prive di rilievo le censure del PM impugnante laddove evidenziano come illogica e carente la argomentazione dei giudici di appello che non affronterebbero il tema della possibilità o meno della coesistenza della attendibilità delle dichiarazioni autoincolpanti con l’inattendibilità della chiamata in correità.

Nè può condividersi l’assunto, sotteso nell’argomentare del PM ricorrente, che nel dubbio sul significato della prova questo debba ridondare a discapito degli imputati essendo, al contrario, criterio corretto, conforme al complessivo sistema dell’ordinamento e ai principi costituzionali, che se due ipotesi sono egualmente sostenibili, se due significati possono parimenti essere attribuiti ad un dato, deve privilegiarsi quello più favorevole all’imputato, che può essere accantonato solo ove risulti inconciliabile con altri univoci elementi di segno opposto.

E che gli altri elementi raccolti in giudizio non siano univoci e tali da integrare di per sè stessi, anche globalmente considerati, validi elementi di prova è ampiamente e congruamente motivato nella sentenza impugnata.

Il materiale costituito dalle intercettazioni è dettagliatamente esaminato e vagliato sia nelle sue singole componenti che nella portata complessiva e la Corte di appello, con ciò confermando il giudizio dei giudici di primo grado, ne inferisce, con valutazione di merito non sindacabile in questa sede perchè condotta secondo i canoni della consequenzialità e della logica, che detto materiale non costituisce compendio probatorio sicuro ed affidabile, autonomo rispetto alla chiamata in correità del Ca., sul quale fondare la decisione di un giudizio di colpevolezza degli imputati.

Quanto, poi, all’autonoma valenza di prova che i riscontri alle chiamate in correità dovrebbero avere, secondo il ragionamento del PM ricorrente, deve essere ribadito che qualora la chiamata in reità o in correità non avesse bisogno di riscontri essa sarebbe da sola prova compiuta; se i riscontri, viceversa, avessero piena ed integrale valenza di prova non vi sarebbe necessità di ricercare e ricostruire il rilievo probatorio della chiamata quando questa sia parziale o non completamente attendibile.

E’ quindi, sul punto, doveroso evidenziare che ci si trova in presenza di una decisione conforme in primo e secondo grado e che – per quanto nei motivi di ricorso il termine non venga adoperato e non si evochi expressis verbis il travisamento della prova- nell’ipotesi di doppia pronunzia conforme il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, attraverso il ricorso ai vizi di motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), – anche come modificato con L. 20 febbraio 2006, n. 46 – salva l’ipotesi in cui il giudice d’appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice e, comunque, il dato probatorio che si assume travisato od omesso deve avere carattere di decisività, non essendo possibile da parte del giudice di legittimità una rivalutazione complessiva delle prove che sconfinerebbe nel merito (ex plurimis Cass., Sez. 4, sent. 3.2.2009, n. 19710, Rv. 243636).

Nel caso di specie la Corte di assise di appello ha sostanzialmente riesaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto ai giudici di primo grado e, dopo avere preso atto delle censure del PM appellante, è giunto alla medesima conclusione circa incompletezza e l’insufficienza delle prove di colpevolezza a carico degli imputati.

Ne consegue che il ricorso in quanto infondato deve essere rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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