Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 25-02-2011) 14-10-2011, n. 37044 Aggravanti comuni aggravamento delle conseguenze del delitto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 23.2.2010 la Corte di Assise di Appello di Milano confermava la decisione della Corte di primo grado che aveva condannato P.D. alla pena dell’ergastolo per il reato di omicidio volontario, premeditato ed aggravato dal numero delle persone (in concorso con altre persone alcune delle quali già giudicate e condannate), per avere cagionato, quale mandante, la morte di M.U., attinto in varie parti del corpo da colpi di arma da fuoco l'(OMISSIS).

2. Il M., che all’epoca lavorava come educatore al carcere di Opera, era deceduto mentre si trovava alla guida della sua auto a seguito di un agguato materialmente eseguito da S.A. e C.A. che si erano affiancati all’auto della vittima a bordo di una moto ed avevano esploso numerosi colpi di arma da fuoco.

2.2. Nelle sentenze di primo e secondo grado si da atto che per l’omicidio sono già stati condannati P.A. (fratello dell’imputato), T.F., C.A. e S. A..

La responsabilità dell’imputato, che all’epoca del fatto si trovava in stato di detenzione, quale mandante dell’omicidio, veniva fondata essenzialmente sulle circostanze riferite da collaboratori di giustizia – alcuni dei quali coimputati per il medesimo fatto – nonchè su altri elementi di fatto, tratti dall’esame di testimoni e dalla documentazione acquisita, che confortavano il racconto dei collaboratori e l’interesse del P. alla determinazione di uccidere il M..

La sentenza impugnata – richiamando la decisione di primo grado – esaminava:

a) le dichiarazioni di C.A. (esecutore materiale dell’omicidio, poi divenuto collaboratore) che riferiva di essere a conoscenza del fatto, per averlo appreso da P.A., che la morte del M., programmata da P.A. e T. F., era stata voluta da P.D. che aveva avuto dei problemi con la vittima nel carcere dove questi faceva l’educatore;

b) le dichiarazioni di D.G.E. che, pur non avendo avuto alcun ruolo nell’omicidio, era stato messo a conoscenza delle circostanze del fatto e delle ragioni da P.A., da Ca.Vi. e, successivamente durante la detenzione a Cuneo, direttamente dall’imputato;

c) le dichiarazioni di S.A., altro esecutore materiale, ritenuto inattendibile allorchè aveva affermato che l’iniziativa era stata di P.A. e che in carcere l’imputato gli aveva detto di non aver condiviso l’omicidio organizzato dal fratello;

d) le dichiarazioni di F.V., altro collaboratore, che riferiva di avere appreso da altri ed, in specie, dallo S. – al quale aveva fornito una moto per l’agguato – del programma di uccidere l’educatore, del movente e del fatto che fosse stato l’imputato a volerlo; il F. riferiva, altresì, della discussione avuta successivamente con lo S. che gli chiese di ritrattare perchè voleva salvare il P.;

e) le dichiarazioni di c.l. – partecipe di un gruppo dedito alle rapine ed al commercio di stupefacenti riferibile al T. ed allo S. -il quale aveva appreso da quest’ultimo del programma di uccidere un educatore che aveva creato problemi a P.D.; anche il c. aveva riferito che lo S., pur attribuendo a P.D. il mandato dell’omicidio, aveva sostenuto che bisognava accusare P. A. e S.D. e di tanto aveva cercato di convincere il F.;

f) le dichiarazioni di Pa.Sa. – collaboratore, partecipe di un gruppo criminale collegato anche a P.A. – che pure aveva appreso dallo S. che l’omicidio era stato deciso da P.A. perchè il M. non aveva fatto un favore ad una persona detenuta vicina al predetto P.;

g) le dichiarazioni di Mo.Gi., Ma.An. e p.s. che riferivano esclusivamente su quanto era accaduto nel carcere di Alessandria, dove lo S., secondo i predetti, aveva cercato di far ritrattare alcune dichiarazioni tra le quali quelle relative all’omicidio in oggetto;

h) i riscontri alle dichiarazioni di C. e D.G. tra cui: gli avvenuti colloqui in carcere tra l’imputato ed il fratello A. nel periodo in cui fu eseguito il programma omicidiario;

l’accertata circostanza che l’imputato ed il D.G. erano detenuti nel 2003 nel carcere di Cuneo e le dichiarazioni del direttore pro tempore dell’istituto in ordine alla possibilità che il D.G. potesse aver interloquito con l’imputato sebbene fossero entrambi in regime di cui all’art. 41-bis Ord. Pen..

2.3. La Corte di assise di appello, condividendo in gran parte le valutazioni del primo giudice in ordine alla attendibilità dei collaboratori – anche avuto riguardo alle dichiarazioni dello S. in ragione della accertata attività di depistaggio quanto alla riferibilità dell’omicidio all’imputato – contraddice le argomentazioni difensive, poste a fondamento dei motivi di appello, e conferma la statuizione di responsabilità del P..

Nella sentenza impugnata, che ripercorre ampiamente la decisione di primo grado, si rileva come, alla luce delle dichiarazioni dei collaboratori D.G. e C., pur non essendoci prova diretta del mandato omicidiario da parte dell’imputato, il movente è esclusivamente riferibile allo stesso e nessuno dei coimputati condannati aveva una ragione diversa cui riferire l’omicidio.

Inoltre, doveva tenersi conto del ruolo di vertice dell’imputato che escludeva che il fratello potesse commettere l’omicidio senza il suo assenso.

Quanto alla valutazione di attendibilità dei dichiaranti C. e D.G. – ribadito che entrambi sono stati ritenuti attendibili in altro procedimento – la Corte di appello evidenzia l’irrilevanza del fatto che il C. avesse errato nell’indicazione del carcere in cui erano avvenuti gli incontri tra il P. ed il fratello A., posto che, comunque, risultava accertato che nel periodo in cui avvenne l’omicidio i due fratelli effettuavano i colloqui.

Rileva, altresì, che non può costituire un vulnus delle dichiarazioni rese dal C. nel procedimento la circostanza che gli sia stata riconosciuta la seminfermità di mente nel lontano 1975 e nel 1999, atteso che era stato chiarito che la stessa fondava su documentazione falsa utilizzata in più occasioni.

In ordine all’attendibilità del D.G. – evidenziata la rilevanza delle circostanze riferite dal collaboratore perchè apprese direttamente dall’imputato – la Corte territoriale rileva lo scarso pregio dei contrari argomenti difensivi, richiamando la valutazione del primo giudice in ordine alla spontaneità delle dichiarazioni ed all’assenza di motivi di rancore nei confronti del P., nonchè, in ordine alla contestata possibilità che il collaboratore avesse potuto incontrare Ca.Vi., all’epoca latitante in Francia, ed avesse potuto comunicare ed avere le confidenze di P.A. e P.D..

Nella sentenza impugnata vengono, altresì, contraddetti gli argomenti difensivi in ordine alle valutazioni sulle dichiarazioni dello S. – che aveva posto in essere un’azione di depistaggio al fine di coprire l’imputato – e, di conseguenza, sulle dichiarazioni di tutti coloro che avevano appreso dal predetto le circostanze riferite. La Corte di merito precisa che andava ritenuta l’attendibilità della ricostruzione del fatto storico operata dallo S., mentre non potevano che essere inattendibili le dichiarazioni in ordine al ruolo svolto da P.D.. In ogni caso, dalle convergenti dichiarazioni di più collaboratori risultava l’azione di depistaggio svolta dallo S. che voleva indurre a ritrattare per escludere l’imputato dalla responsabilità per l’omicidio del M..

Quanto alle ordinanze sull’ammissione delle prove impugnate ed alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, la Corte di assise di appello ritiene corretti ed adeguatamente motivati i provvedimenti istruttori del primo giudice ed afferma la mancanza di necessità delle attività cui era finalizzata la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria, volte in sostanza a contraddire l’attendibilità dei dichiaranti C. e D.G. già ampiamente valutata anche alla luce delle deduzioni difensive.

In ordine al mancato riconoscimento della circostanze attenuanti generiche la Corte di appello rileva che, anche a voler prescindere dal comportamento di chiusura tenuto dall’imputato nel processo, dette circostanze non erano compatibili con la gravità del fatto commesso e con i precedenti risultanti a carico del P..

3. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo dei difensori di fiducia Avv. Ambra Giovine e Avv. Alfredo Gaito, con atti distinti, deducendo quanto di seguito.

3.1. Si denuncia, in primo luogo, la violazione dell’art. 238-bis c.p.p. con riferimento alla affermata indubbia rilevanza delle valutazioni della sentenza di condanna degli altri imputati per l’omicidio del M. nella quale si afferma il ruolo di mandante di P.D.; tanto in violazione dei principi che regolano la valutazione della sentenza acquisita e delle regole del contraddittorio.

3.2. Il ricorrente lamenta l’erronea applicazione della legge penale ed il vizio di motivazione in relazione alla valutazione della prova della responsabilità sotto distinti profili.

3.2.1. Si denuncia la violazione di legge, il travisamento del fatto ed il vizio di motivazione in ordine alla mancanza di prova diretta del conferimento del mandato omicidiario al quale nessuno dei dichiaranti ha assistito. Nella sentenza impugnata – in contrasto con i principi di affermati dalle S.U. n. 45276, 30.10.2003, Andreotti – si sovrappone il movente al mandato omicidiario, peraltro, in presenza di un movente-interesse da un lato smentito e dall’altro non esclusivo.

Infatti, rileva il ricorrente, è indimostrato che il movente fosse esclusivamente riferibile all’imputato, posto che trattandosi del venir meno dei favori della vittima nonostante fosse stata pagata per questo, quantomeno anche il fratello A. aveva analogo interesse, avendo procurato il danaro a tanto destinato. Ed anzi, l’imputato non aveva ragione di dolersi del comportamento degli educatori del carcere di Opera perchè aveva ottenuto una relazione positiva anche dopo la violazione al permesso nell’89; la cronologia della detenzione dell’imputato – contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito – non conforta le ragioni del movente. Duplice, quindi, il vizio logico sul punto della motivazione della sentenza impugnata.

Inoltre, si sottolinea (anche nei motivi nuovi di cui all’atto depositato il 29.12.2010) la non univocità del movente indicato dai dichiaranti, atteso che emergevano almeno due distinte causali che, comunque, erano state indicate in maniera molto diversa, non soltanto dal C. e dal D.G., ma anche dal F., dal Pa. e dal c..

3.2.2. Viziato è, ad avviso del ricorrente, il corredo motivazionale in ordine alla attendibilità del D.G. e del C..

La intrinseca inattendibilità del D.G. doveva essere ricondotta a più circostanze: l’appartenenza ad una fazione (quella dei Co.) avversa a quella del P. che escludeva che potesse avere le confidenze di questi; la latitanza in Francia del Ca. all’epoca in cui avrebbe appreso da questi la circostanza che era stato il P. a volere l’omicidio del M.; le modalità di tempo e di luogo con le quali aveva appreso dal ricorrente la circostanza riferita. In ordine a dette incongruenze, introdotte dalla difesa nell’atto di impugnazione, la Corte ha motivato in maniera lacunosa ed illogica.

3.2.3. La "scarsa attendibilità" del C., rileva il ricorrente, è rappresentata: dal fatto che riferisce de relato;

dalla circostanza che indica un movente completamente diverso da quello riferito dagli altri dichiaranti; dalla indicazione di circostanze rivelatesi errate (es. su luogo dei colloqui in carcere all’epoca del fatto tra Imputato ed il fratello A.).

Secondo il ricorrente la valutazione in ordine alla scarsa attendibilità del C. ha condotto all’assoluzione nell’altro processo del R. e del Mu., coimputati nell’omicidio del M..

Inoltre, è stata processualmente accertata la sua incapacità di intendere e di volere e, comunque, una patologia psichica (1974 riutilizzata 1999). Sul punto, ad avviso del ricorrente, la Corte di appello ha travisato il fatto in quanto l’elaborato peritale non fu redatto sulla base di documenti falsi, bensì all’esito di una effettiva attività svolta dal perito che ben sapeva della falsità di alcuni certificati.

3.2.4. Quanto alla valutazione delle dichiarazioni di S. si rileva che la intrinseca inattendibilità ritenuta dalla Corte mina in radice la rilevanza delle altre dichiarazioni che hanno come unica fonte lo S. e non hanno neppure ulteriori riscontri, nè possono riscontrarsi vicendevolmente non avendo autonoma fonte.

3.3. Con un ulteriore motivo di ricorso si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione per manifesta illogicità in ordine alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e alla mancata assunzione delle prove a discarico (chieste in primo e secondo grado), finalizzate a vagliare compiutamente la attendibilità dei dichiaranti C. e D.G.. In specie:

l’esame di Ca.Vi., volto a verificare l’effettiva possibilità di avere appreso dal P. le notizie sull’omicidio e di averle riferite al D.G.; l’esame dei responsabili dei Servizi di intelligence di cui aveva parlato il C. a proposito delle ragioni di risentimento del P. verso la vittima; l’esame del direttore e della polizia penitenziaria del carcere di Cuneo, al fine di verificare la possibilità del contatto tra il D.G. ed il P.; la perizia grafica sul biglietto prodotto dal D. G. al fine di confortare i rapporti con la famiglia P.;

l’acquisizione di un fax proveniente dal Ca..

Ad avviso del ricorrente, dette richieste istruttorie sono state rigettate sulla base di un indebito giudizio sui prevedibili risultati e, quindi, sulla irrilevanza della prova richiesta, in violazione degli artt. 190, 495 e 603 c.p.p., art. 606 c.p.p., lett. d) e con artt. 24 e 111 Cost. e dell’art. 6 della CEDU. 3.4. Infine, il ricorrente si duole dell’ingiustificato diniego delle circostanze attenuanti generiche.

3.5. Con la memoria depositata il 14.1.2011 il ricorrente rileva che dagli atti acquisiti al processo, in specie dalla nota in data 20.3.2006 trasmessa dalla casa circondariale di Cuneo con relativo certificato di detenzione, risulta che P.D. era stato ristretto presso detto istituto sino al 21.6.2003. Tale circostanza risulta, quindi, inconciliabile con quanto dichiarato dal D. G. secondo il quale P.D. gli aveva detto dell’omicidio del M. nel carcere di Cuneo nell’ottobre 2003.

Motivi della decisione

Ad avviso del Collegio, i motivi di ricorso proposti da P. D. non sono fondati.

1. La responsabilità di P.D. per l’omicidio di M.U. con il ruolo di mandante, è stata fondata dai giudici di merito sulle dichiarazioni dei collaboratori D.G. E. e C.A.. Il primo aveva appreso dallo stesso ricorrente del suo coinvolgimento nell’omicidio, nonchè dal fratello P.A. e da Ca.Vi., pregiudicato legato al ricorrente; il C., dal canto suo aveva partecipato all’esecuzione materiale su incarico di P.A. ed aveva saputo da questi della volontà del fratello detenuto di porre in essere l’azione delittuosa.

Le dichiarazioni dei predetti – tratte da fonti autonome e nel caso del D.G. direttamente dall’imputato – sono state valutate alla luce di ulteriori circostanze di fatto emerse nel processo che hanno consentito alle Corti di merito di affermarne l’affidabilità, la sostanziale convergenza e l’ulteriore riscontro, anche sulla base di argomenti logici, in conformità con le regole di giudizio dettate dall’art. 192 c.p.p.. Sotto tale profilo sono stati, quindi, valutati gli elementi di prova relativi al movente, o meglio all’interesse di P.D. all’azione omicidiaria, rilevando (p. 49-51) che, pur non essendoci prova diretta del mandato omicidiario da parte dell’imputato, il movente è esclusivamente riferibile allo stesso e nessuno dei coimputati condannati per il fatto aveva una ragione diversa cui riferire l’omicidio. E’ stato, altresì, sottolineato come dovesse tenersi conto del ruolo di vertice dell’imputato nel panorama criminale dell’epoca che escludeva che il fratello commettesse l’omicidio senza il suo assenso.

2. Infondate vanno ritenute le censure del ricorrente in ordine alla valutazione dell’attendibilità del C. e del D.G..

Invero, nella sentenza impugnata, che sul punto ripercorre anche la decisione di primo grado quanto alla genesi della collaborazione di entrambi i dichiaranti, vengono esaminati compiutamente tutti gli elementi emersi nel processo, nonchè, le deduzioni difensive per pervenire ad un giudizio di attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni conforme ai canoni ermeneutici consolidati, affermati da questa Corte – che è superfluo qui richiamare – e supportato da un percorso argomentativo che supera il vaglio di legittimità sotto il profilo della logica e della coerenza.

In particolare, ribadito che si tratta di dichiarazioni aventi fonti autonome e, per quel che riguarda il D.G., fonte diretta dell’imputato, è stato evidenziato quanto al C.;

a) l’irrilevanza del fatto che il dichiarante avesse errato nell’indicazione del carcere in cui erano avvenuti gli incontri tra il P. ed il fratello A., posto che comunque risultava accertato che nel periodo in cui avvenne l’omicidio i due fratelli effettuavano i colloqui;

b) la valenza neutra della circostanza riferita dal C. in ordine alla rivendicazione fatta fare da P.A. per depistare le indagini sull’omicidio;

c) l’accertata riconducibilità a documentazione falsa, ormai risalente, della riconosciuta seminfermità di mente nel lontano 1975, poi utilizzata anche successivamente in relazione ad un delitto di omicidio del 1989, cui non era seguito nessun altro accertamento positivo della patologia, come risultava verificato anche nel processo nel quale il C. è stato giudicato per l’omicidio del M. (p. 68). Sul punto, peraltro, deve rilevarsi che il rilevato vizio di travisamento del fatto relativo alla perizia all’epoca effettuata non è neppure autosufficiente in mancanza dell’allegazione della perizia in oggetto.

Quanto al D.G. la Corte territoriale ha rilevato (p. 69) lo scarso pregio dei contrari argomenti difensivi, richiamando la valutazione del primo giudice in ordine alla spontaneità, costanza e coerenza delle dichiarazioni ed all’assenza di motivi di rancore nei confronti del P.. Ha chiarito come la contestazione difensiva relativa al fatto che D.G. non potesse essersi incontrato con Ca.Vi. a Parma perchè questi all’epoca (1989-1990) si trovava in Francia – come il Ca. aveva affermato nelle dichiarazioni acquisite in atti – risulti logicamente contraddetta dal controllo effettuato a Parma nell’agosto ’89 dal quale emerge che il Ca. che si trovava in compagnia dell’imputato rientrato da un permesso; pertanto, il Ca. ben aveva potuto essere in Italia in altre occasioni.

E’ stata evidenziata, inoltre, la stretta e risalente relazione tra il ricorrente ed il Ca., tanto che questi aveva effettuato dei colloqui (ben 16 tra dicembre ’86 e gennaio ’88) con il P. nel carcere di Parma, facendo falsamente risultare di essere un cugino;

ciò consentiva anche di valutare che il Ca. cercava di contraddire il D.G. per scagionare l’amico di lunga data.

Logica e coerente deve ritenersi, pertanto, la valutazione di inattendibilità delle dichiarazioni rese in sede di indagine difensiva da Ca.Vi. (acquisite agli atti con il consenso delle parti ai fini dell’utilizzabilità) inidonee ad inficiare quanto affermato dal D.G. che – come hanno sottolineato i giudici di merito – aveva appreso del coinvolgimento del ricorrente nell’omicidio del M., oltre che dal Ca., anche da P.A. all’epoca del fatto e successivamente direttamente da P.D..

Ancora, a conforto del dichiarante, nella sentenza impugnata si è evidenziato (p. 72) che il D.G. era detenuto presso il carcere di Parma quando il M. faceva l’educatore e – come dallo stesso dichiarato – aveva ottenuto dall’educatore favori in cambio di regali di danaro ed altro, tanto che era stato proprio il D.G. ad indicare al P. la possibilità di rivolgersi al M. per ottenere dei benefici come il lavoro esterno. La Corte territoriale ha rilevato come nel frattempo il M. era stato trasferito ad Opera, a seguito di ispezione ministeriale sulla irregolare gestione del carcere di Parma, ed il P. era stato ammesso al lavoro esterno sulla base della relazione di sintesi fatta in precedenza; tuttavia, nel luglio 1988 con la sostituzione del direttore del carcere al P. era stato revocato il lavoro esterno e lo stesso era stato trasferito al carcere di Augusta per poi essere assegnato ad Opera.

Immune da vizi sotto il profilo logico ed ancorata agli elementi di fatto emersi nel processo è l’affermazione della Corte territoriale (p.77) secondo la quale non sussiste alcuna ragione logica per dubitare della circostanza che il D.G. avesse potuto scambiare informazioni con l’imputato durante la detenzione nel carcere di Cuneo dove entrambi erano ristretti, nonostante il regime particolare al quale erano sottoposti. Ciò anche – come perspicuamente rilevano i giudici di merito – alla luce di quanto affermato in ordine allo stato dei luoghi dal direttore del carcere di Cuneo, in particolare nella missiva del 20.3.2006, in atti, in cui si precisa che "all’epoca di cui trattasi, per come erano strutturati i cortili passeggi destinati a questa categoria, per i detenuti immessi al passeggio negli stessi orari era possibile comunicare tra di loro attraverso le separazioni tra ì cortili; il detenuto P.D. e D.G.E. usufruivano delle ore d’aria negli stessi orari" (p. 86).

Pertanto, risulta priva di pregio e, comunque, non altrimenti valutabile in questa sede la deduzione del ricorrente che prospetta una diversa interpretazione di quanto affermato sul punto dal direttore della casa circondariale di Cuneo, dott. Fo..

Quanto poi alla circostanza rilevata dal ricorrente che dagli atti acquisiti al processo – in specie dalla citata nota in data 20.3.2006 trasmessa dalla casa circondariale di Cuneo con relativo certificato di detenzione – risulta che P.D. era stato ristretto presso detto istituto sino al 21.6.2003, dato inconciliabile con la dichiarazione del D.G. (secondo il quale P.D. gli aveva detto dell’omicidio del M. nel carcere di Cuneo nell’ottobre 2003) deve evidenziarsi che – premesso che la nota allegata dal ricorrente ai fini dell’autosufficienza con la memoria difensiva del 14.1.2011 relativa ai periodi di detenzione reca una data del tutto diversa da quella della nota del 20.3.2006 certamente acquisita agli atti del processo – si tratta di circostanza di fatto, peraltro introdotta soltanto con i motivi nuovi di ricorso (atto dep. il 29.12.2010) e che non ha formato oggetto di censura di appello, la cui rilevanza è riservata alla valutazione di merito.

3. E’ infondata la dedotta violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento alla mancanza della prova, ai fini della affermazione della responsabilità del P., del mandato omicidiario che, rileva il ricorrente, non può essere desunto dal movente o interesse all’omicidio che nella specie, peraltro, non è stato neppure univocamente accertato.

Come è stato ricordato nei motivi di ricorso, "in tema di prova del mandato a commettere omicidio, la causale, pur potendo costituire elemento di conferma del coinvolgimento nel delitto del soggetto interessato all’eliminazione fisica della vittima allorchè converge, per la sua specificità ed esclusività, in una direzione univoca, tuttavia, poichè conserva di per sè un margine di ambiguità, in tanto può fungere da fatto catalizzatore e rafforzativo della valenza probatoria degli elementi positivi di prova della responsabilità, dal quale poter inferire logicamente, sulla base di regole di esperienza consolidate e affidabili, l’esistenza del fatto incerto (cioè la possibilità di ascrivere il crimine al mandante), in quanto, all’esito dell’apprezzamento analitico di ciascuno di essi e nel quadro di una valutazione globale di insieme, gli indizi, anche in virtù della chiave di lettura offerta dal movente, si presentino chiari, precisi e convergenti per la loro univoca significazione;" (S.U. n. 45276, 30/10/2003, Andreotti, rv. 226094).

Orbene, la Corte di merito ha fatto corretta applicazione di detti criteri ermeneutici, atteso che, nella specie, l’interesse del P. è stato attentamente esaminato e valutato in quanto elemento utile ai fini del giudizio sull’attendibilità del dichiaranti e sulla circostanza riferita dagli stessi che il ricorrente aveva voluto l’omicidio del M.; il movente, quindi, costituisce elemento di conferma del coinvolgimento nel delitto del ricorrente riferito dai due dichiaranti.

Tanto chiarito, ad avviso del Collegio, la motivazione della sentenza impugnata è immune dai denunciati vizi di manifesta illogicità e contraddittorietà in ordine alla valutazione dell’interesse del P..

Viene, infatti, evidenziato non soltanto come il dato comune delle dichiarazioni di tutti i collaboratori sia l’interesse in proprio dell’imputato all’omicidio (p.65), ma anche l’irrilevanza della mancata convergenza di tutti i dichiaranti sulla specifica causa del risentimento dell’imputato verso la vittima, tenuto conto che si tratta di causali non incompatibili tra loro e, comunque, riferibili alle doglianze del P. per i comportamenti del M. (p.66). A differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, risulta certamente plausibile sotto il profilo logico la ritenuta sussistenza di detto interesse alla luce della circostanze accertate: l’imputato arriva nel carcere di Parma nel novembre 1986 e il M., educatore del carcere, gli viene presentato dal D.G.; il P. ottiene il lavoro esterno nel febbraio 1988 grazie ad una relazione fatta dal M. nel 1987; ad ottobre 1987 il M. viene trasferito ad Opera e nel settembre 1988 anche l’imputato (dopo essere stato ad Augusta) viene trasferito ad Opera dove resterà sino a poco prima dell’omicidio. Il P. durante il periodo in cui è ristretto ad Opera ottiene ancora dei permessi premio fino a quando, nell’agosto 1989, violava le prescrizioni del permesso; quindi, avendo chiesto l’ammissione al lavoro esterno, la relazione dell’educatrice cui era affidato tardava ad arrivare ed il P. insisteva; anche quando fu redatta la relazione l’imputato non ottenne nè il lavoro esterno, nè altri benefici (semilibertà);

riuscirà a riottenere i permessi solo dopo il trasferimento, poco prima dell’omicidio del M., in altro istituto.

La Corte di merito, in coerenza con le circostanze emerse nel processo, ha rilevato che se è vero che la relazione dell’educatore per la quale il P. si era lamentato a causa del ritardo nella redazione aveva contenuto favorevole, nonostante la violazione delle prescrizioni del permesso premio di agosto 1989, tuttavia, al P. erano state rigettate le istanze di semilibertà e di liberazione anticipata e non aveva ottenuto più alcun beneficio.

Tanto, all’evidenza, non può ritenersi censurabile sotto il profilo della logicità e coerenza della valutazione complessiva del movente del P., non contraddetto dalla circostanza che alcuni dei benefici fossero stati negati dal Tribunale di sorveglianza.

Altro elemento di innegabile rilevanza e coerenza logica nella valutazione operata dai giudici di merito è rappresentato dall’evidenziato ruolo carismatico e di indiscussa posizione di vertice nel sodalizio omonimo rivestito dal P.; tanto, hanno affermato le Corti di merito, doveva far escludere che P. A. – al quale il ricorrente attribuisce un interesse quanto meno equivalente – potesse agire senza l’assenso del fratello D. nei confronti dell’educatore che di questi si era occupato.

4. Quanto alla contestazione in ordine alla valutazione delle dichiarazioni dello S. – la cui intrinseca inattendibilità, secondo il ricorrente, mina in radice la rilevanza delle propalazioni di cui è fonte – la Corte di merito, invero, ha precisato che se doveva ritenersi attendibile la ricostruzione del fatto storico, non potevano che essere inattendibili le dichiarazioni dello S. in ordine al ruolo svolto da P.D..

Tanto chiarito, la Corte di appello ha, comunque, evidenziato la rilevanza della azione di depistaggio posta in essere dallo S. che doveva ritenersi accertata – secondo i criteri di valutazione della prova dichiarativa – alla luce della convergenza di una pluralità di dichiarazioni dirette ed autonome sul punto.

F., c., Pa., Mo., Ma. e p. univocamente avevano riferito che lo S. tentava di indurre tutti ad attribuire l’omicidio del M. al solo P.A. per coprire D.. Tale accertata circostanza non può che confortare l’oggetto del depistaggio, ossia il coinvolgimento di P.D. nell’omicidio del M..

5. Alla luce di quanto sin qui esaminato con riferimento alla valutazione delle prove acquisite nel dibattimento ai fini della affermazione della responsabilità del P., si palesa l’infondatezza della denunciata violazione dell’art. 238 -bis c.p.p. ed in specie delle regole di giudizio dettate dalla citata norma per la valutazione della sentenza irrevocabile acquisita e, più in generale, del principio del contraddittorio.

Incontestata la sussistenza dei presupposti per l’acquisibilità ed utilizzabilita della sentenza irrevocabile, è stato, tra l’altro, ricordato dal ricorrente che " l’art. 238-bis c.p.p. si limita a consentire l’acquisizione in dibattimento di sentenze divenute irrevocabili, ma dispone che esse siano valutate a norma dell’art. 187 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3 ai fini della prova del fatto in esse accertato e, ancora più perentoriamente si è statuito che l’acquisizione agli atti del procedimento di sentenze divenute irrevocabili non comporta per il giudice alcun automatismo di recepimento e nell’utilizzazione ai fini decisori dei fatti, nè tanto meno dei giudizi di fatto contenuti nei passaggi argomentativi della motivazione delle sentenze, dovendosi al contrario ritenere che quel giudice conservi integra l’autonomia e la libertà delle operazioni logiche di accertamento e formulazione di giudizio a lui istituzionalmente riservate".

Invero, tutte le corrette argomentazioni di ordine generale trasfuse nei ricorsi quanto alla valenza ed ai limiti della disposizione dell’art. 238-bis cod. proc. pen. non consentono nella fattispecie di rilevare alcuna violazione.

I richiami indicati dal ricorrente della sentenza impugnata (p. 60 e 64) alla decisione divenuta irrevocabile con la quale C. A., P.A. e T.F. sono stati ritenuti colpevoli del medesimo fatto e nella quale veniva affermato che da tutte le dichiarazioni emergeva che la deliberazione dell’omicidio era stata di P.D. ed era stata poi realizzata dal fratello A., all’evidenza, non pregiudicano in alcun modo il rispetto dei ricordati principi.

Come risulta chiaramente da quanto sin qui esaminato, i giudici di primo e di secondo grado hanno operato, con riferimento al coinvolgimento dell’imputato nel fatto per il quale altri soggetti erano già stati giudicati, una nuova ed autonoma valutazione di tutti gli elementi di prova acquisiti nel processo che si è celebrato nei confronti di P.D. nella regolare esplicazione del contraddittorio tra le parti e dell’esercizio del diritto di difesa dell’imputato.

6. Venendo all’esame delle dedotte violazioni di legge e vizi di motivazione in relazione ai principi del diritto alla prova ed, in specie, della prova a discarico, con riferimento sia alle ordinanze istruttorie del giudice di primo grado, sia alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, deve rilevarsi l’infondatezza delle suddette censure.

Va rammentato, In particolare quanto alle prove richieste nel giudizio di primo grado, che "prova decisiva" – ai fini della violazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. d) – "è quella idonea a superare contrasti e conseguenti dubbi emergenti dall’acquisito quadro probatorio, oppure, atta di per sè ad inficiare l’efficacia dimostrativa di altra o altre prove di sicuro segno contrario;

invece, tale non è quella abbisognevole di comparazione con gli elementi già acquisiti, non per negarne l’efficacia dimostrativa, bensì per comportarne un confronto dialettico al fine di effettuare una ulteriore valutazione per quanto oggetto del giudizio" (S. U. n. 17050, 11/04/2006, Maddaloni).

Come è stato affermato, il controllo della Corte di cassazione con riferimento alla citata violazione è rivolto al procedimento di formazione del convincimento del giudice. Al fine di verificare se la controprova avrebbe consentito una valida ricostruzione alternativa, occorrerà porre a confronto da un canto l’ipotesi di ricostruzione sintetizzata nell’imputazione e dall’altro canto il tema della prova di cui si lamenta la mancata acquisizione. Sicchè, la Corte di cassazione deve valutare se la controprova fosse manifestamente superflua, vale a dire se tendesse ad un risultato conoscitivo che palesemente risultasse già acquisito (Sez. 5, n. 1798, 09/11/1998, Stornì, rv. 212518).

In relazione, poi, alle prove richieste nel giudizio di appello, deve essere ribadito che la mancata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio d’appello può costituire violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), solo nel caso di prove sopravvenute o scoperte dopo la sentenza di primo grado ( art. 603 c.p.p., comma 2), mentre negli altri casi può essere prospettato il vizio di motivazione previsto dall’art. 606, lett. e) (Sez. 5, n. 10858, 21/10/1996, Bruzzese, rv. 207067 e succ. conformi). E, d’altro canto, nel giudizio di appello la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, postulando una deroga alla presunzione di completezza della indagine istruttoria svolta in primo grado, ha caratteristica di istituto eccezionale, nel senso che ad essa può farsi ricorso quando appaia assolutamente indispensabile, cioè nel solo caso in cui il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti.

Tanto premesso, deve essere esclusa nella specie la denunciata violazione processuale, atteso che in ordine alle richieste di prova di cui alle ordinanze del giudice del dibattimento di primo grado, impugnate in sede di appello, i giudici di secondo grado hanno valutato e compiutamente motivato (p. 82-84) in ordine alla rilevanza delle prove a discarico richieste dal ricorrente nel rispetto dei principi di cui agli artt. 190 e 495 c.p.p..

Quanto all’esame dei testimoni non ammessi nel giudizio di primo grado finalizzato alla ulteriore verifica dell’attendibilità del C. (appartenenti ai Servizi segreti e alla polizia penitenziaria del carcere di Novara), è stata ribadita la genericità dell’indicazione dei testimoni e, soprattutto, della rilevanza degli stessi ai sensi dell’art. 495 c.p.p.. In ordine agli appartenenti ai Servizi segreti la sentenza impugnata ha evidenziato come non fosse in discussione se il ricorrente avesse o meno effettuato colloqui con i Servizi, quanto se il M. avesse riferito tale circostanza ad un altro detenuto. Quanto all’esame degli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Novara è stata sottolineata, tra l’altro, la scarsa rilevanza di un eventuale litigio avvenuto tra il ricorrente ed il collaboratore C., a fronte di tutti gli elementi di valutazione dell’attendibilità del dichiarante.

Ugualmente deve dirsi in ordine alla valutazione sulla richiesta di esame del comandante della polizia penitenziaria del carcere di Cuneo, finalizzato alla verifica dei possibili contatti in quell’Istituto tra il ricorrente ed il D.G., atteso che sul punto era stata acquisita univoca dichiarazione del direttore pro tempore della casa circondariale. Correttamente è stata ritenuta non determinante ai fini della valutazione di attendibilità del dichiarante la perizia richiesta sul foglio esibito dal D.G. al fine di accreditare le comunicazioni con i componenti della famiglia P..

Quanto alla acquisizione del fax proveniente da Ca.Vi. e all’esame dello stesso, richiesto in sede di rinnovazione di istruttoria dibattimentale, la Corte di merito ha operato una valutazione corretta tenuto conto della avvenuta acquisizione ed utilizzazione di quanto dichiarato dal Ca. in sede di indagini difensive (p. 50 e 70). Come pure, per quel che riguarda il richiesto esame delle persone informate sulla gestione irregolare del carcere di Parma, attesa l’acquista documentazione relativa alle ispezioni ministeriali effettuate all’epoca presso detto istituto.

Pertanto, a differenza di quanto afferma il ricorrente, la sentenza impugnata non ha respinto le censure difensive sulla base della scarsa attendibilità dei risultati prevedibili piuttosto che sulla rilevanza ed utilità delle prove richieste. La Corte di appello, invero, ha valutato la rilevanza ai fini della decisione delle prove richieste alla luce dei risultati come prospettati dalla difesa in relazione alle singole prove; non ha, quindi, espresso un giudizio in termini di rilevanza del risultato possibile della prova, ma sulla rilevanza del tema di prova secondo il risultato prospettato dalla difesa del ricorrente.

Quanto alla richiesta di prove in sede di rinnovazione dell’istruttoria nei giudizio di appello – precisato che non si versa in ipotesi cui all’art. 603 c.p.p., comma 2 – il percorso argomentativo sul punto è specifico, dettagliato ed immune dai vizi denunciati. La sentenza impugnata ha richiamato le suddette valutazioni, trattandosi di richieste in gran parte sovrapponibili a quelle formulate nel giudizio di primo grado.

La Corte ha precisato, inoltre, con argomenti logici non sindacabili in questa sede, sotto il profilo della violazione dell’art. 603 c.p.p., comma 1, la assoluta irrilevanza dell’esame dell’autrice del libro "(OMISSIS)", Z.C., e dell’acquisizione del diario della dott. Mi..

Le censure sul punto sono, pertanto, sotto tutti i profili infondate.

7. Infine, manifestamente infondate sono le doglianze in ordine al diniego, ritenuto ingiustificato, delle circostanze attenuanti generiche.

Nella sentenza impugnata è stato sottolineato come, anche a voler valutare positivamente il comportamento del P. nel processo, le invocate circostanze attenuanti non fossero compatibili con la gravità del fatto commesso e con i precedenti dai quali risulta gravato il ricorrente.

E’ noto che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62-bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purchè non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 6, n. 42688, 24/09/2008, Caridi, rv. 242419). A detti canoni si è attenuta, all’evidenza, la Corte di appello, nè il ricorrente ha indicato elementi oggettivamente valutabili, al di là del corretto comportamento processuale, idonei a contraddire detta valutazione.

8. In conclusione, i ricorsi devono essere rigettati ed il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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