Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 16-11-2011, n. 854 Competenza esclusiva del giudice amministrativo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1) – Con bando in data 23 ottobre 2001, la Provincia regionale di Messina indiceva un pubblico incanto per l’aggiudicazione dei lavori necessari per il completamento dell’IPSIA di Barcellona Pozzo di Gotto, per un importo complessivo di Lire 5.760.000.000 (importo a base d’asta Lire 4.513.223.924 pari a Euro 2.330.885,64).

L’appalto era aggiudicato, in data 3.12.2001, all’A.T.I. R.I. s.r.l. – G.P.M. s.r.l.

L’aggiudicazione era impugnata, anche con motivi aggiunti, da diversi controinteressati, tra cui la Ingg. SOFI s.r.l. Costruzioni generali.

Con sentenza n. 746 del 24 marzo 2004, in accoglimento dei motivi aggiunti, il T.A.R. per la Sicilia, sezione staccata di Catania, annullava l’aggiudicazione provvisoria della gara alla ditta St.Gi.

Con nota del 23 aprile 2004, la Ingg. Sofi, notificava alla Provincia di Messina la predetta sentenza, invitandola ad aggiudicare la gara.

La Provincia comunicava che in data 26 maggio 2004 aveva disposto la sospensione dei lavori.

Con nota del 5 agosto 2004, la società SOFI chiedeva di conoscere se "la Direzione dei lavori aveva provveduto a ordinare alla ditta St. la sospensione dei lavori".

Con nota del 21 giugno 2005, l’Amministrazione invitava la società a prendere in consegna i lavori alla data del 27 giugno 2005, ma la Ingg. Sofi faceva presente di non potere accettare la consegna dei lavori, "non essendo stati formalizzati i termini del subentro nell’esecuzione dei lavori".

Non avendo ricevuto alcun riscontro da parte dell’Amministrazione, la Ingg. Sofi, in data 17 ottobre 2005, sollecitava la definizione delle condizioni contrattuali ritenute essenziali, ma l’Amministrazione si limitava a convocare la società per la consegna dei lavori.

La Ingg. Sofi, pur presenziando alla convocazione del 25 ottobre 2005, non sottoscriveva alcun verbale, avendo peraltro verificato che l’impresa St. non aveva ancora sgomberato il cantiere.

Con atto di diffida e messa in mora notificato il 6 dicembre 2005, la società diffidava l’Amministrazione a conformarsi al giudicato formatosi sulla sentenza n. 746/2004, provvedendo alle attività necessarie per consentire il suo sub-ingresso nell’esecuzione dell’appalto, "in particolare procedendo alla stipula del relativo contratto di appalto e alla conseguente consegna dei lavori, alle condizioni ritenute indispensabili per la proficua e utile prosecuzione dei lavori rimanenti siccome indicate nella nota della scrivente del 24.6.2005 e riconosciute dall’ingegnere capo dei lavori con nota dell’1.8.2005".

Con nota n. 12768 del 13 marzo 2006, la Provincia chiedeva all’impresa la produzione della documentazione richiesta per procedere alla stipula del contratto, avvertendo che qualora non avesse provveduto agli adempimenti richiesti nell’intimato termine, sarebbe stata disposta in suo danno la decadenza dall’aggiudicazione.

Con nota del 22 marzo 2006, la società insisteva nelle proprie richieste, chiedendo la rimodulazione del contratto in considerazione dell’illegittima esecuzione di parte dei lavori ad opera di altra ditta.

Perdurando il comportamento dell’Amministrazione diretto a impedire l’esecuzione dei lavori con l’inserimento nel contratto delle clausole richieste, la società Sofi adiva il T.A.R., chiedendo il risarcimento dei danni per equivalente.

In particolare, la società ricorrente chiedeva il risarcimento del lucro cessante nella misura del 10% della base d’asta ridotto in relazione al ribasso offerto in sede di gara.

L’Amministrazione intimata si costituiva in giudizio e, dopo avere esposto la propria ricostruzione dei fatti, sostenendo che era stata la ricorrente, nonostante i ripetuti inviti, a rifiutarsi di sottoscrivere il contratto, eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e il rigetto del ricorso finalizzato a "invertire le responsabilità esistenti per il mancato completamento dei lavori".

2) – Con sentenza 3827 del 27 settembre 2010, il giudice adito, disattesa l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, accoglieva il ricorso limitatamente alla liquidazione del danno per equivalente conseguente all’esecuzione dei lavori da parte della ditta St.

Ad avviso di detto giudice, risultava infondata la pretesa a un integrale risarcimento del danno, poiché a far data dal 13 marzo 2006, la società ricorrente, pur essendo stata invitata più volte a sottoscrivere il contratto si era rifiutata di sottoscriverlo, reputando antieconomica l’esecuzione della parte residua dei lavori.

Quanto al danno risarcibile a titolo di lucro cessante, il T.A.R. lo riduceva al 5%, avendo ritenuto che l’impresa non avesse dato dimostrazione della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell’appalto. Il T.A.R. respingeva, altresì, la richiesta del risarcimento del danno derivante da perdita di chance e di mancate referenze.

3) – La società ricorrente ha proposto appello contro la summenzionata sentenza.

4) – Resiste all’appello l’Amministrazione provinciale di Messina, la quale, oltre a contrastare i motivi di appello, ha proposto appello incidentale.

5) – Alla pubblica udienza del 6 aprile 2011, l’appello è passato in decisione.

Motivi della decisione

1) Va esaminato in via prioritaria l’appello incidentale proposto dall’Amministrazione provinciale di Messina, perché, ove risultasse fondato, renderebbe l’appello principale improcedibile per carenza d’interesse.

1.1. Con il primo motivo di appello, l’Amministrazione ha riproposto l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

A suo avviso, per ammissione diretta della ricorrente, la domanda di risarcimento danno si fonderebbe su un (presunto) comportamento che l’Amministrazione avrebbe posto in essere successivamente all’aggiudicazione dell’appalto, avvenuta in ottemperanza del "decisum" giudiziale.

L’equivoco in cui incorre volutamente la ditta Sofi risiederebbe nell’affermazione che nessuna aggiudicazione dell’appalto sarebbe intervenuta all’esito del contenzioso conclusosi in suo favore, ma ciò non corrisponderebbe al vero.

In ogni caso, a voler ricondurre la fattispecie in esame a una (non riconosciuta) posizione giuridica vantata da parte ricorrente, il petitum formale del presente giudizio si concreterebbe, semmai, in una situazione di diritto soggettivo, più in particolare, nel diritto alla stipula del contratto susseguente all’aggiudicazione.

Ciò posto, l’Amministrazione ha osservato che, per giurisprudenza pacifica, in tema di appalti, l’art. 6, comma 1, legge n. 205 del 2000 e l’art. 33, comma 2, D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (come sostituito dall’art. 7 della stessa legge n. 205) hanno inteso circoscrivere la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alla fase di evidenza pubblica di scelta del contraente, che si conclude con l’aggiudicazione definitiva, escludendo invece la fase successiva, anche quella intercorrente tra detta aggiudicazione e la stipulazione del contratto.

Il motivo di appello è infondato.

Con ordinanza n. 9322 del 19 aprile 2007, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato il principio che, nel sistema normativo conseguente alla legge 21 luglio 2000 n. 205, la tutela giurisdizionale risarcitoria contro l’agire illegittimo della P.A. spetta al giudice ordinario solo quando costituisca reazione alla lesione di diritti incomprimibili, come la salute o l’integrità personale o quando il danno sia provato da illegittimo o mancato esercizio di poteri ordinari a tutela del privato o in caso di occupazione usurpativa; mentre, nei casi in cui la posizione soggettiva del privato si presenti come connessa a un provvedimento amministrativo, anche in precedenza annullato, la tutela risarcitoria va chiesta al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, in quanto ricade nella disciplina dell’art. 35, comma 4, D.Lgs. n. 80 del 1998 e successive modificazioni (cfr., pure, C.d.S., A. P., 21 novembre 2008, n. 12).

Va, altresì, richiamato l’orientamento giurisprudenziale più recente in base al quale "…la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo anche in ordine alla sorte del contratto a seguito dell’annullamento a monte, ricavabile dall’unicità e inscindibilità del rapporto tra atto a monte e contratto a valle, sottoposto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, è stata da ultimo confermata da Cass. SS.UU., ord. 10 febbraio 2010, n. 2906, per poi essere espressamente recepita, sul versante normativo, dall’art. 245-ter del codice dei contratti pubblici, introdotto dal D.Lgs. n. 53/2010 e, da ultimo, dall’art. 133, comma 1, lett. e, n. 1, del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo n. 104/2010 (C.d.S., Sez. VI, 15 giugno 2010, n. 3759). 1.2. L’Amministrazione appellata ha, poi, sostenuto che la determinazione del quantum asseritamente spettante alla Ditta Ingg. Sofi, in relazione ai lavori svolti dalla precedente aggiudicataria, è, comunque, errata in quanto il T.A.R. ha preso in considerazione l’intero importo dei lavori eseguito dall’impresa St., originaria aggiudicataria, omettendo di considerare che fino all’esito del giudizio di merito definito con la sentenza n. 746 del 2004, l’esecuzione dei lavori da parte della ditta originariamente non poteva considerarsi illecita.

Il motivo è infondato, perché non tiene conto dell’effetto retroattivo del giudicato di annullamento.

2) Può, quindi, procedersi all’esame dell’appello principale che è fondato nei sensi e limiti che qui di seguito si espongono.

3) Con il primo motivo di appello, l’appellante sostiene che, come denunciato in primo grado e diversamente da come ritenuto dal giudice di prime cure, il ribasso offerto dall’impresa partecipante in sede di gara può ritenersi per la medesima soddisfacente solo se relazionato all’intero importo dei lavori e opere da eseguire (o quanto meno per un importo considerevole, sia pur decurtato della minima parte fatta eventualmente eseguire dall’originaria illegittima aggiudicataria), e considerata, altresì l’esecuzione a breve dall’espletamento della gara, che non comporti dunque, tra l’altro, l’eccessivo aumento del costo di materiali e manodopera.

D’altra parte, non poteva ritenersi che, come rilevato dal giudice di primo grado, l’impresa ricorrente fosse obbligata a eseguire, comunque l’appalto per i lavori residui, senza pretendere una previa rivisitazione concordata delle clausole contrattuali anche mediante l’applicazione del c.d. prezzo chiuso.

Infatti, ove la prestazione diminuita indichi condizioni nuove negli aspetti economici e organizzativi, la stazione appaltante deve tenerne conto ai fini del subentro nel contratto dell’impresa. Il motivo di appello è fondato.

Secondo un diffuso orientamento giurisprudenziale (cfr. C.d.S., sez. VI, 10 novembre 2004, n. 7256 e 25 gennaio 2008, n. 213), spetta al ricorrente la scelta tra il conseguimento degli effetti della tutela demolitorio-conformativa e la tutela risarcitoria, nel caso in cui comunque il bene della vita controverso è ormai conseguibile solo in parte. Infatti, mentre l’interesse originario dell’impresa è indirizzato all’esecuzione dell’appalto per il suo complessivo valore, quale identificato dal bando di gara, la prestazione del servizio per un periodo di limitata durata introduce, invece, condizioni nuove negli aspetti economici e organizzativi, che l’impresa può valutare con la più ampia sfera di autonomia con riguardo sia al diverso impegno di mezzi e attrezzature, sia al mutato livello di remunerazione che ne può conseguire in relazione all’offerta presentata in sede di gara.

Del resto, la possibilità di optare per il risarcimento per equivalente e di rifiutare l’esecuzione, ormai solo parziale del giudicato, deriva anche dall’applicazione del principio di carattere generale, desumibile dall’art. 1181 c.c., secondo cui il creditore può sempre rifiutare l’offerta di un adempimento parziale rispetto all’originaria configurazione del rapporto obbligatorio (a un adempimento parziale è equiparabile la possibilità di consentire l’esecuzione solo parziale del contratto). In conclusione, in relazione a quanto sopra esposto, non può essere condivisa l’affermazione del T.A.R. secondo cui l’impresa appellante avrebbe dovuto sottoscrivere il contratto e, poi, chiedere il risarcimento per il mancato utile conseguente alla parte di lavori illegittimamente non eseguiti, essendo, invece, onere generale di correttezza e buona amministrazione della stazione appaltante, anche al fine di evitare un ulteriore contenzioso, di valutare la richiesta dell’impresa in ordine alla rimodulazione del contratto e di assumere le determinazioni ritenute necessarie.

4) Con il secondo motivo d’appello si sostiene che il T.A.R. ha errato anche nell’individuazione della percentuale forfetaria del mancato guadagno, non già, come indicato dall’impresa Sofi, nel 10% dell’importo a base d’asta, depurato del ribasso offerto in sede di gara. Ad avviso dell’appellante, l’applicazione di detta percentuale del 10% non può essere circoscritta alle ipotesi in cui l’impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l’espletamento di altri servizi.

Tale sentenza sarebbe pertanto, del tutto irragionevole e non conforme a diritto, posto che, a meno di non voler ritenere che l’impresa Sofi fosse tenuta a una "probatio diabolica" – tenuto conto che non ha in concreto reimpiegato in lavori diversi messi e manodopera – non si vede cos’altro la stessa potesse documentare.

In ogni caso sarebbe indubbio che l’onere di provare i fatti estintivi e modificativi del credito spetterebbe semmai alla parte debitrice. Il motivo di appello è infondato.

In adesione al prevalente orientamento giurisprudenziale (cfr., di recente, C.d.S., sez. VI, 21 maggio 2009, n. 3144), il criterio del 10%, se pure è in grado di fondare una presunzione su quello che normalmente è l’utile che una impresa trae dall’esecuzione di un appalto, non può, tuttavia, essere oggetto di applicazione automatica e indifferenziata.

Come pure affermato dalla giurisprudenza (cfr. C.d.S., sez. V, 13 giugno 2008, n. 2967), il criterio del 10%, pur evocato come criterio residuale in una logica equitativa, conduce di regola al risultato che il risarcimento dei danni è per l’imprenditore ben più favorevole dell’impiego del capitale.

In tal modo il ricorrente non ha più interesse a provare in modo puntuale il danno subito, perchè presumibilmente otterrebbe di meno.

In sostanza, il lucro cessante da mancata aggiudicazione può essere risarcito per intero se e in quanto l’impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l’espletamento di altri servizi, mentre, quando tale dimostrazione non sia stata offerta è da ritenere che l’impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa del danno risarcibile.

Si tratta, appunto, di un’applicazione del principio dell’"aliunde perceptum", in base al quale, onde evitare che, a seguito del risarcimento il danneggiato possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovato in assenza dell’illecito, va detratto dall’importo dovuto a titolo risarcitorio, quanto da lui percepito grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione.

Quanto all’onere della prova dell’assenza dell’aliunde perceptum esso grava non sull’Amministrazione, ma sull’impresa.

Tale ripartizione dell’onere probatorio, che ha sollevato in dottrina alcune perplessità (come anche osservato in questa sede dalla difesa dell’appellante, si è sostenuto che l’aliunde perceptum verrebbe in considerazione come fatto impeditivo del diritto al risarcimento del danno e non come fatto costitutivo, con la conseguenza che la relativa prova dovrebbe gravare sulla stazione appaltante e non sul privato), muove, tuttavia, dalla presunzione, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore, (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente un’attività economia organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili.

In sede di quantificazione del danno, pertanto, spetterà all’impresa dimostrare, anche mediante l’esibizione all’Amministrazione di libri contabili, di non aver eseguito, nel periodo che sarebbe stata impegnata dall’appalto in questione, altre attività lucrative incompatibili con quella per la cui mancata esecuzione chiede il risarcimento del danno.

Nella specie, tale prova è mancata, posto che l’impresa appellante si è limitata, anche in questa sede, ad affermare genericamente di non avere in concreto reimpiegato mezzi e manodopera in lavori diversi.

5) L’appellante ha reiterato la richiesta di ottenere il risarcimento anche per altre voci di danno: perdita di migliori chance lavorative, riduzione della S.O.A. nella categoria OG1 della classifica VI, danno emergente in relazione ai costi inutilmente sostenuti per partecipare alla gara, nonché quelle successive, comprensive delle spese giudiziali, sostenute per ottenere l’annullamento dell’illegittima aggiudicazione della gara.

Il Collegio è dell’avviso che siffatta richiesta non possa essere accolta perché non è stata data o comunque non è stata fornita sufficiente dimostrazione del danno subito.

Un discorso a parte va fatto per i costi di partecipazione alla gara. Il Collegio ritiene, infatti, che, nel caso in cui l’impresa ottenga il risarcimento del danno per mancata aggiudicazione (o per la perdita della possibilità di aggiudicazione), non vi sono i presupposti per il risarcimento dei costi stessi, posto che mediante il risarcimento non può farsi conseguire all’impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall’aggiudicazione (così, di recente, C.d.S., sez. VI, 18 marzo 2011, n. 1681).

6) In conclusione, per le suesposte considerazioni, l’appello deve essere accolto nei sensi e limiti sopra indicati e, in tali sensi e limiti, va accolto il ricorso proposto in primo grado dall’appellante.

Circa le spese e gli altri oneri del doppio grado di giudizio, gli stessi, sono posti a carico dell’Amministrazione appellata e, tenuto conto dell’esito della controversia, sono liquidati a favore dell’appellante nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, accoglie l’appello indicato in epigrafe nei sensi e limiti indicati in motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie in parte qua il ricorso originariamente proposto dall’appellante.

Condanna la Provincia di Messina al pagamento in favore dell’appellante delle spese, competenze e onorari di giudizio che liquida complessivamente in Euro 4.000,00 (quattromila/00).

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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