Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 29-03-2012, n. 5085 Assegno di invalidità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 30-6-2005 D.A. conveniva in giudizio il Ministero dell’Economia e delle Finanze, la Regione Abruzzo e l’INPS, per ottenere il riconoscimento della propria invalidità civile e del diritto all’assegno di invalidità L. n. 118 del 1971, ex art. 13 a decorrere dalla domanda amministrativa del 18-12-2003, con la condanna al pagamento della prestazione oltre accessori.

L’INPS e il Ministero si costituivano resistendo alla domanda.

La Regione Abruzzo rimaneva contumace.

Il Giudice del lavoro del Tribunale di Pescara, con sentenza n. 2689/2006, rigettava la domanda, rilevando che, sulla scorta delle risultanze della CTU e dei chiarimenti, la D. poteva ritenersi invalida civile nella misura dell’80% con decorrenza dal 1- 8-2005, e cioè dopo il compimento del 65 anno di età.

La D. proponeva appello e la Corte d’Appello, dopo aver rinnovato la CTU e dopo aver disposto l’acquisizione delle prove in ordine ai requisiti socio-economici, respingeva l’appello per la mancata prova del requisito della incollocabilità.

Per la cassazione di tale sentenza la D. ha proposto ricorso con un unico motivo.

L’INPS ha resistito con controricorso.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la Regione Abruzzo sono rimasti intimati.

Motivi della decisione

Con l’unico motivo la ricorrente, che aveva 64 anni all’epoca della domanda amministrativa, sostiene che non era più iscrivibile nelle liste per il collocamento nemmeno ai sensi della L. n. 68 del 1999, applicabile ratione temporis, e ciò in base al corretto coordinamento dell’art. 1 della cit. legge, del D.P.R. n. 333 del 2000, art. 1 e del D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 1 e successive modificazioni.

In particolare la ricorrente rileva che, sebbene la L. n. 68 del 1999 faccia riferimento alle persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche. psichiche o sensoriali", il D.P.R. n. 333 del 2000, art. 1 si riferisce alle persone disabili "che abbiano compiuto i quindici anni di età e che non abbiano raggiunto l’età pensionabile prevista dall’ordinamento per il settore pubblico e per il settore privato", di guisa che, all’epoca della domanda amministrativa del 18-12-2003, l’età pensionabile per le donne (ex tabella A allegata al D.Lgs. n. 503 del 1992 come sostituita dalla L. 724 del 1994, art. 11) restava fissata al compimento del 60 anno di età.

La D., quindi, al riguardo richiama la pronuncia di questa Corte del 19-10-2009 n. 22113, e deduce che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che essa ricorrente fosse tenuta a dimostrare la propria incollocabilità fino a 65 anni, laddove, invece, all’uopo era sufficiente la prova dello stato di effettiva disoccupazione o non occupazione, anche mediante presunzioni.

Osserva il Collegio che sulla questione – con riguardo al regime anteriore a quello del nuovo testo della L. n. 118 del 1971, art. 13 introdotto con la L. n. 247 del 2007, art. 1, comma 35, che, tra l’altro, non si riferisce più agli "incollocati al lavoro" bensì agli invalidi "che non svolgono attività lavorativa" (v. anche il successivo comma 36 che ha abrogato la L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 249) – Cass. 4-6-2009 n. 12916 ha enunciato il principio secondo cui "in materia di diritto all’assegno mensile di invalidità, nella vigenza della L. n. 68 del 1999, deve ritenersi incollocato al lavoro l’invalido che, uomo o donna, essendo in età lavorativa per non avere ancora compiuto il sessantacinquesimo anno di età ed essendo iscritto (o avendo presentato domanda d’iscrizione) nell’elenco dei disabili di cui alla L. n. 68 del 1999, non abbia conseguito un’occupazione in mansioni compatibili".

Al contrario, Cass. 19-10-2009 n. 22113 (richiamata dalla ricorrente), ha affermato che "ai fini del riconoscimento dell’assegno di invalidità civile, le donne invalide ultrasessantenni ed infrasessantacinquenni, che non hanno più diritto ad essere iscritte nelle liste speciali di collocamento per aver raggiunto l’età pensionabile, possono dimostrare il requisito dell’incollocamento al lavoro, richiesto per l’erogazione delle relative prestazioni, provando, con gli ordinari mezzi di prova, ivi comprese le presunzioni, lo stato di effettiva disoccupazione o di non occupazione".

In particolare la prima pronuncia, premesso che nella vigenza della precedente normativa (L. n. 482 del 1968) la giurisprudenza di questa Corte aveva ritenuto che per "incollocato", ai sensi della L. n. 118 del 1971, art. 13 doveva intendersi colui che avesse adempiuto l’onere di un comportamento teso al fine del "collocamento" e, ciò nonostante, fosse rimasto inoccupato, cosicchè tale comportamento si sostanziava nell’attivazione dei meccanismi previsti dalla citata L. n. 482 del 1968 e, quindi, nell’iscrizione (o nella domanda d’iscrizione) nelle liste speciali, "essendo rimaste identiche le finalità a cui tende la prescrizione dell’incollocazione al lavoro quale requisito per il conseguimento dell’assegno di invalidità", ha affermato, anche nella nuova disciplina di cui alla L. n. 68 del 1999, la necessità dell’iscrizione (o quanto meno della domanda di iscrizione) dell’invalido nell’elenco speciale (art. 8 della detta legge).

La stessa sentenza ha, poi, osservato che la L. n. 68 del 1999, art. 1, comma 1 che non prevede più il limite dei cinquantacinque anni ai fini dell’iscrizione nell’elenco speciale, "non fa riferimento all’età pensionabile (diversificata tra gli uomini e le donne secondo quanto indicato nella tabella A allegata al D.Lgs. n. 503 del 1992) bensì all’età lavorativa, che i precetti costituzionali di cui all’art. 3 Cost. e all’art. 37 Cost., comma 1, non consentono di regolare per la donna in modo difforme da quello previsto per gli uomini, e che, giusta il disposto del D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 1, comma 2, deve ritenersi fissata, per entrambi i sessi, a 65 anni".

La seconda pronuncia, partendo dalla medesima premessa del principio affermato da Cass. S.U. n. 203 del 1992 e successive e considerando altresì che tale principio, presupponendo la giuridica possibilità di iscrizione nelle dette liste, è stato ritenuto da questa Corte non utilizzabile con riguardo ai soggetti per i quali tale iscrizione è preclusa per il superamento del cinquantacinquesimo anno di età, ha rilevato che con la L. n. 68 del 1999 tale limite è stato abolito, in quanto la legge stessa si applica "alle persone in età lavorativa affette da..".

La stessa sentenza ha poi rilevato che il D.P.R. n. 333 del 2000, regolamento di esecuzione della detta legge ha stabilito che "possono ottenere l’iscrizione negli elenchi del collocamento obbligatorio le persone disabili, di cui alla L. 12 marzo 1999, n. 68, art. 1, che abbiano compiuto i quindici anni e che non abbiano raggiunto l’età pensionabile prevista dall’ordinamento, rispettivamente per il settore pubblico e per il settore privato" ed ha ritenuto che, nonostante le difficoltà derivanti dal "quadro assai composito e diversificato di accesso ai trattamenti pensionistici", il riferimento all’età pensionabile, contenuto nel D.P.R. citato, non potesse "comunque ignorare la differenziazione generale tra uomini e donne tuttora vigente".

Da tanto la medesima pronuncia ha tratto la conclusione che, con il raggiungimento dell’età pensionabile, le donne invalide ultrasessantenni ed infrasessantacinquenni, non potendo in effetti iscriversi nelle liste speciali di collocamento, ben potessero, ai fini del diritto all’assegno mensile di invalidità, dimostrare il solo stato di effettiva disoccupazione o non occupazione, con gli ordinari mezzi di prova, comprese le presunzioni.

Orbene, seppure tale seconda interpretazione appaia più coerente con la iscrizione dell’invalido nell’elenco speciale come disciplinata dal D.P.R. n. 333 del 2000, ritiene il Collegio che sia comunque da preferire la prima interpretazione, alla quale il Collegio stesso intende dare continuità.

In particolare, in primo luogo, va considerato che non può sottovalutarsi l’elemento letterale ("significato proprio delle parole secondo la connessione di esse" ex art. 12 preleggi) contenuto nella norma di legge, che con riguardo alle "persone", senza distinzione di sorta, "affette da…", fa riferimento al concetto di "età lavorativa" (che va "intesa come età oltre la quale si può essere licenziati ad nutum" v. Cass. 8-7-2004 n. 12640) e non a quello di "età pensionabile".

In tal senso rilevante è quindi il richiamo, fatto da Cass. 12916/2009 al limite di età (di 65 anni) previsto, per tutti (uomini e donne), dal D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 1, comma 2 in base al quale, in combinato disposto con la L. n. 407 del 1990, art. 6 "sia i lavoratori che le lavoratrici, ferme restando la identica età lavorativa e la diversa età pensionabile, sono licenziabili ad nutum ove abbiano conseguito (o abbiano richiesto) la liquidazione della pensione di vecchiaia", "per la quale risulta coerentemente prescritto il requisito della "cessazione del rapporto di lavoro"" (v. Cass. n. 12640/2004 cit.).

Peraltro risulta certamente conforme allo spirito della L. n. 68 del 1999 la previsione di un riferimento generalizzato all’"età lavorativa" uguale per tutti i soggetti protetti.

In tale quadro interpretativo, infine, il Collegio rileva che non può attribuirsi alcun rilievo al diverso riferimento ("età pensionabile") espresso nel D.P.R. n. 333 del 2000, emanato ai sensi della L. n. 68 del 1999, art. 20 citata, trattandosi comunque di regolamento di esecuzione, che "può contenere soltanto norme secondarie o secundum legem, derivabili per via d’interpretazione e di deduzione dalle norme primarie poste dalla legge, oppure anche norme praeter legem, di carattere complementare o integrativo, ma mai norme contra legem" (cfr. Cass. 2-7-1983 n. 4452).

Pertanto va enunciato il seguente principio: "con riguardo al regime anteriore a quello del nuovo testo della L. n. 118 del 1971, art. 13 introdotto con la L. n. 247 del 2007, art. 1, comma 35 in materia di diritto all’assegno mensile di invalidità, nella vigenza della L. n. 68 del 1999, deve ritenersi incollocato al lavoro l’invalido che, uomo o donna, essendo in età lavorativa per non avere ancora compiuto il sessantacinquesimo anno di età ed essendo iscritto (o avendo presentato domanda d’iscrizione) nell’elenco dei disabili di cui alla L. n. 68 del 1999, non abbia conseguito un’occupazione in mansioni compatibili".

Il ricorso va così respinto e, in considerazione del contrasto giurisprudenziale di cui sopra, ricorrono giusti motivi per compensare le spese con l’INPS. Nulla per le spese nei confronti degli altri intimati che non hanno svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese nei confronti dell’INPS. Così deciso in Roma, il 16 febbraio 2012.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *