Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 22-09-2011) 17-10-2011, n. 37492 Violenza sessuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 13 gennaio 2011, la Corte d’Appello di Campobasso riformava parzialmente la decisione in data 8 luglio 2010 con la quale, a seguito di giudizio abbreviato, il G.I.P. di quella città condannava S.N. per i reati di violenza sessuale e maltrattamenti in famiglia, accogliendo l’impugnazione del Procuratore Generale ed applicando, conseguentemente, le pene accessorie di cui all’art. 609 nonies c.p., comma 1, nn. 1, 2 e 3 e comma 2, confermando nel resto l’impugnata sentenza.

Il predetto era accusato di aver partecipato ad una violenza sessuale di gruppo nei confronti della minore G.V., nata nel (OMISSIS) e affetta da ritardo mentale, concretatosi in un rapporto sessuale a tre al quale partecipava anche il padre della stessa, separatamente giudicato; di aver consumato altri rapporti sessuali con la minore in altre due occasioni pagando, in un caso, la prestazione sessuale ottenuta al padre della giovane; di aver intrattenuto plurimi rapporti sessuali, consistiti dapprima in baci profondi e, successivamente, in rapporti completi anche per via anale, con la cognata V.A., nata nel (OMISSIS), fin da quando la stessa era infraquattordicenne, inducendo la stessa al compimento di tali atti mediante pressione psicologica e violenza fisica; di avere, infine, sottoposto a maltrattamenti consistiti in ingiurie, minacce, percosse ed ingiustificate sofferenze fisiche e morali la moglie V.A. ed i figli minori S.O.P. e S.C..

Avverso tale decisione lo S. proponeva ricorso per cassazione.

Con un primo motivo di ricorso deduceva la violazione di legge ed il vizio di motivazione rilevando, con riferimento al reato di cui al capo A) della rubrica, che la Corte territoriale aveva travisato il contenuto della perizia psichiatrica cui era stata sottoposta la minore G.V., giungendo all’erronea conclusione che le condizioni psichiche della predetta gli fossero ben note mentre, al contrario, il perito aveva evidenziato che lo stato di disagio psichico non era facilmente percepibile in ambito esterno a quello familiare.

Osservava, inoltre, che i giudici del gravame avevano erroneamente valutato le menzionate risultanze peritali, escludendo aprioristicamente il consenso ai rapporti sessuali da parte della G., nonostante il perito avesse evidenziato come la stessa fosse adusa ad utilizzare la sessualità come mezzo per ottenere attenzioni e conferme della propria identità femminile ed avevano, inoltre, completamente trascurato la rilevanza di una lettera che la predetta gli aveva inviato e dalla quale poteva, ancora una volta, ricavarsi la sussistenza di un pieno e consapevole consenso ai rapporti sessuali.

Tale consenso, aggiungeva, assumeva rilevanza ai fini della qualificazione giuridica della condotta in considerazione del fatto che all’epoca della vicenda la minore aveva già compiuto i sedici anni d’età e che la mancanza di qualsivoglia costrizione rendeva lecito anche il rapporto sessuale a tre.

Nondimeno, osservava, il consenso prestato assumeva rilievo anche con riferimento all’imputazione sub b), a nulla rilevando l’eventuale corresponsione di denaro al padre della giovane, poichè tale aspetto, in assenza peraltro di specifiche contestazioni in materia di induzione o sfruttamento della prostituzione, configurava una mera connotazione, sebbene negativa, della condotta.

Con riferimento al reato di cui al capo c) della rubrica e concernente i rapporti sessuali intrattenuti con la cognata, osservava che non risultava che i baci fossero stati dati con violenza o contro il volere della vittima, mentre i rapporti sessuali completi erano stati consumati quando la giovane aveva ormai compiuto gli anni quattordici, cosicchè il primo episodio andava diversamente inquadrato nella fattispecie di cui all’art. 609 quater c.p., mentre gli altri eventi dovevano essere collocati nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 609 bis c.p..

Aggiungeva, inoltre, che la persona offesa non era risultata pienamente attendibile ed il suo racconto era connotato da numerose contraddizioni, mentre i riscontri esterni si risolvevano, sostanzialmente, in dichiarazioni de re lato.

Il reato di maltrattamenti in famiglia, infine, era stato ritenuto sussistente nonostante la presenza di materiale probatorio di segno diametralmente opposto.

Osservava, a tale proposito, che V.M., moglie dell’imputalo, nel corso del giudizio abbreviato aveva fortemente ridimensionato le accuse nei confronti del marito formulate in denuncia e contestava la rilevanza attribuita alle altre testimonianze, ancora una volta concretatesi in dichiarazioni de relato.

Con un secondo motivo di ricorso deduceva il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento alla quantificazione della pena, ritenuta eccessiva, non avendo la Corte territoriale considerato la minima rilevanza della condotta posta in essere nell’ambito della contestata violenza di gruppo nè la contenuta, se non del tutto insussistente, lesione della sfera sessuale delle vittime dei reati, le quali risultavano già iniziate alle pratiche sessuali ed aduse al coito.

Aggiungeva che mancava, nella sentenza impugnata, un’adeguata considerazione del comportamento collaborativo tenuto, della non particolare gravità della condotta e dell’assenza di precedenti penali che avrebbe consentito una maggiore riduzione della pena a seguito della concessione delle attenuanti generiche ed una diversa utilizzazione dei criteri direttivi di cui all’art. 133 c.p..

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

Occorre preliminarmente osservare, con riferimento al primo motivo di ricorso, che lo stesso si risolve nella proposizione di una lettura alternativa, in senso più favorevole all’imputato, delle risultanze processuali poste a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità e, comunque, nella rinnovata prospettazione di questioni già illustrate nei motivi di appello ed adeguatamente esaminate dai giudici del gravame.

Invero il ricorrente pone in primo luogo l’accento sulla validità del consenso prestato da G.V. ai rapporti sessuali di cui trattano i capi a) e b) della rubrica ed afferma che la perizia sulle condizioni psichiche della minore sarebbe stata travisata dai giudici del merito.

Tali considerazioni vengono svolte estrapolando brani dell’elaborato peritale, il cui contenuto viene poi utilizzato per evidenziare l’errore di valutazione in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale.

Va però rilevato, a tale proposito, che i giudici del gravame hanno chiaramente espresso un giudizio positivo circa la correttezza delle conclusioni tratte dal giudice di prime cure dagli esiti degli accertamenti medici (oltre alla perizia in contestazione, erano agli atti una consulenza di una neuropsichiatra e documentazione della ASL di Campobasso) osservando anche che le condizioni in cui versava la minore erano ben note al ricorrente, il quale aveva spontaneamente ammesso di conoscere da anni la giovane e la sua famiglia e per una serie di altre circostanze, indicate nel dettaglio, dalle quali emergeva inequivocabilmente una evidente dipendenza psicologica ed emotiva della giovane dal padre.

E’ dunque evidente che oggetto di valutazione da parte della Corte territoriale non è soltanto la perizia medica, ma anche un insieme di dati fattuali opportunamente valorizzati.

Il percorso valutativo eseguito dai giudici del merito appare sorretto, sotto tale profilo, da adeguata motivazione immune da vizi logici e del tutto coerente e, come tale, insindacabile in sede di legittimità.

Vengono infatti compiutamente indicate le ragioni per le quali deve escludersi il consenso attraverso l’indicazione dei singoli dati probatori, peraltro già considerati dal giudice di prime cure, alla luce delle doglianze contenute nell’atto di gravame ed indicati i motivi che rendono non rilevante il contenuto della "lettera d’amore" indirizzata dalla G. al ricorrente.

La Corte territoriale risulta, inoltre, aver fatto buon uso dei principi di diritto enucleati dalla giurisprudenza di questa Corte.

A tale proposito va ricordato che deve riconoscersi la possibilità, anche per le persone in condizioni di inferiorità fisica o psichica, di un autodeterminarsi al compimento di un atto sessuale quando la decisione sia consapevole e non consegua all’induzione o abuso delle condizioni di menomazione, ancorchè dipendenti da fattori ambientali tali da incidere negativamente sulla volontà e sulla libertà sessuale della vittima, sì da determinare in quest’ultima un’assente o diminuita capacità di resistenza agli stimoli esterni (così Sez. 3, n. 15910, 16 aprile 2009).

Inoltre, in più occasioni, nel fissare i principi in tema di violenza sessuale in danno di persona che si trovi in stato di inferiorità psichica o fisica, si è ulteriormente precisato che il legislatore ha voluto assicurare anche a tali soggetti una sfera di estrinsecazione della loro individualità, anche sotto il profilo sessuale, purchè manifestata in un clima di assoluta libertà e, conseguentemente, ha inteso punire soltanto le condotte consistenti nell’induzione all’atto sessuale mediante abuso delle suddette condizioni di inferiorità (Sez. 3, n. 20766, 3 giugno 2010; Sez. 3, n. 35878, 1 ottobre 2007; Sez. 4, n. 14141, 5 aprile 2007; Sez. 3, n. 3971, 7 settembre 2005; Sez. 3, n. 2646, 27 gennaio 2004; Sez. 3, n. 47453, 11 dicembre 2003; Sez. 3, n. 11541,11 ottobre 1999) L’induzione si realizza quando, con un’opera di persuasione spesso sottile o subdola, l’agente spinge o convince il "partner" a sottostare ad atti che diversamente non avrebbe compiuto.

L’abuso, a sua volta, si verifica quando le condizioni di menomazione sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona che, versando in situazione di difficoltà, viene ad essere ridotta al rango di un mezzo per il soddisfacimento della sessualità altrui.

Da ciò consegue il dovere del giudice di espletare un’indagine adeguata per verificare se l’agente abbia avuto la consapevolezza non soltanto delle minorate condizioni del soggetto passivo, ma anche di abusarne per fini sessuali.

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha posto in luce, come si è già detto, non soltanto le condizioni di disagio psichico certificato dai medici, ma anche il particolare contesto familiare entro il quale la vicenda si era sviluppata e, segnatamente, il perverso rapporto che il genitore, separatamente giudicato per i medesimi fatti, aveva instaurato con la figlia con la quale divideva il letto matrimoniale, consumava rapporti sessuali e che faceva prostituire.

Tale rapporto è stato correttamente ritenuto dai giudici del gravame come determinante, perchè caratterizzato da uno stato di soggezione e dipendenza psicologica che impediva certamente alla vittima una autonoma e libera gestione della propria sessualità e che, anzi, l’aveva irreparabilmente compromessa, come dimostrato dai disordinati rapporti che la stessa intratteneva con l’altro sesso e che il ricorrente indica, invece, come sintomo evidente di disinibizione.

Doveva quindi necessariamente escludersi che una minore, affetta da ritardo mentale, seppure lieve, in tale contesto di degrado, peraltro immediatamente percepibile, potesse validamente esprimere il proprio consenso al compimento di un rapporto a tre con il padre ed un conoscente adulto e, in altre occasioni, con quest’ultimo soltanto.

Era peraltro evidente che una condizione di tale soggezione, sebbene indotta dal padre della vittima, non poteva essere ignorato dall’adulto che, insieme a quest’ultimo, ebbe a partecipare ad una rapporto sessuale del genere.

Non a caso la Corte territoriale, nell’illustrare le proprie considerazioni, cita anche un precedente giurisprudenziale nel quale si evidenziava che la condizione di inferiorità psichica della vittima al momento del fatto prescinde da fenomeni di patologia mentale, in quanto è sufficiente ad integrarla la circostanza che il soggetto passivo versi in condizioni intellettive e spirituali di minore resistenza all’altrui opera di coazione psicologica o suggestioni, anche se dovute ad un limitato processo evolutivo mentale e culturale, ma con esclusione di ogni causa propriamente morbosa (Sez. 3, n. 38261, 17 ottobre 2007).

Non vi è stata dunque, alla base della decisione dalla Corte d’appello, la considerazione esclusiva della certificata patologia della minore, avendo i giudici valutato il complesso delle condizioni in cui ella versava, pervenendo ad un giudizio negativo circa la spontaneità del consenso palesemente viziato dalla strumentalizzazione della sua posizione di inferiorità.

Parimenti corrette appaiono le conclusioni cui i giudici del merito sono pervenuti con riferimento agli episodi delittuosi in danno di V.A., cognata del ricorrente.

Anche in questo caso la Corte territoriale giunge ad una decisione del tutto immune da censure.

Viene infatti riconosciuta la sussistenza del reato, rilevando la natura dei baci, dati alla predetta quando non aveva compiuto gli anni quattordici, tale da connotarli inequivocabilmente come atti sessuali (cfr. Sez. 3, n. 25112, 2 Iuglio2007) e la costrizione che connotava i successivi rapporti completi, come riferito dalla stessa persona offesa, la quale ha raccontato di rapporti anali e dolorosi, di essere stata presa con la forza, di atteggiamenti violenti e minacciosi del ricorrente e del tentativo di sottrarsi al coito simulando le mestruazioni.

La Corte ha considerato la spontaneità e coerenza delle dichiarazioni rese e la loro collocazione temporale, chiarendo anche la corretta valutazione da attribuirsi alla mancata imputazione della moglie del ricorrente, che risultava essere a conoscenza della condotta posta in essere dal marito nei confronti della sorella.

La decisione, che ancora una volta si presenta assistita da un coerente percorso argomentativo scevro da cedimenti logici, mostra quindi solidità a fronte delle considerazioni svolte in ricorso le quali, ancora una volta, propongono argomenti già sviluppati nell’atto di appello ed una rivisitazione del compendio probatorio in senso più favorevole all’imputato.

Tale particolarità caratterizza anche le doglianze evidenziate con riferimento al reato di maltrattamenti in famiglia, la cui sussistenza è stata riconosciuta dalla Corte territoriale ancora una volta attraverso una ponderata valutazione del dato probatorio e dando motivatamente atto delle ragioni per le quali doveva attribuirsi maggiore credibilità alle dichiarazioni rese dalla moglie del ricorrente in sede di denuncia e non anche alla sostanziale ritrattazione intervenuta nel corso del giudizio.

Si tratta, peraltro, di una scelta non sindacabile in sede di legittimità quando il contenuto della ritrattazione, raffrontato con le precedenti dichiarazioni, sia valutato in base ad esatti criteri logici e di metodo e tale giudizio sia suffragato da una motivazione analitica e completa del convincimento e della scelta operata (Sez. 4, n. 1982, 18 febbraio 1994; Sez. 1, n. 1165, 7 febbraio 1992).

Viene inoltre effettuato un ulteriore riferimento anche a diversi riscontri esterni alle dichiarazioni della donna.

Anche l’infondatezza del secondo motivo di ricorso risulta di macroscopica evidenza.

La pena è stata, infatti, adeguatamente determinata e non si rinviene alcun vizio di motivazione o violazione di legge nelle valutazioni espresse dalla Corte territoriale.

Viene correttamente esclusa la applicabilità della riduzione di pena prevista dall’art. 609 octies c.p., per il partecipante alla violenza di gruppo la cui opera abbia avuto minima importanza per la preparazione o nella esecuzione del reato, attraverso una valutazione del comportamento tenuto dal ricorrente il quale, osservano i giudici di merito, aveva interrotto il rapporto sessuale con la G. dopo che ebbe a parteciparvi anche il padre, per una contingente e sopravvenuta situazione non più rispondente ai suoi desideri sessuali che, evidentemente, non era idoneo a minimamente elidere la obiettiva gravità della condotta posta in essere.

Non meno corretta appare l’esclusione della attenuante di cui all’art. 609 bis c.p., u.c., la quale, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, può essere applicata allorquando vi sia una minima compressione della libertà sessuale della vittima, accertata prendendo in considerazione le modalità esecutive e le circostanze dell’azione attraverso una valutazione globale che comprenda il grado di coartazione esercitato sulla persona offesa, le condizioni fisiche e psichiche della stessa, le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, l’entità della lesione alla libertà sessuale ed il danno arrecato, anche sotto il profilo psichico (Sez. 3, n. 40174, 6 dicembre 2006; n. 1057, 17 gennaio 2007; n. 45604, 6 dicembre 2007).

Della sussistenza di tali circostanze impeditive ha comunque dato conto la Corte, pur a fronte di una inequivocabile ed obiettiva gravità delle condotte già ampiamente illustrata in motivazione.

Non vi è infine, per le medesime ragioni, alcuna violazione degli artt. 62 bis e 133 c.p. che risultano correttamente applicati. La decisione dei giudici del merito, sul punto, appare peraltro sorretta da adeguata motivazione.

E’ appena il caso di ricordare, a tale proposito, che l’esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena e dei criteri di valutazione fissati dall’art. 133 c.p. non richiede al giudice di procedere ad una analitica valutazione di ogni singolo elemento esaminato, ben potendo assolvere adeguatamente all’obbligo di motivazione limitandosi anche ad indicarne solo alcuni o quello ritenuto prevalente (v. Sez. 2, n. 12749, 26 marzo 2008).

Analogamente, per quanto attiene le circostanze attenuanti generiche, la loro concessione presuppone la sussistenza di positivi elementi di giudizio e non costituisce un diritto conseguente alla mancanza di elementi negativi connotanti la personalità del reo, cosicchè deve ritenersi legittimo il diniego operato dal giudice in assenza di dati positivi di valutazione (Sez. 1, n. 3529, 2 novembre 1993; Sez. 6, n. 6724, 3 maggio 1989; Sez. 6, n. 10690, 15 novembre 1985; Sez. 1, n. 4200, 7 maggio 1985).

Nella fattispecie gli elementi considerati sono stati adeguatamente illustrati.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed alla rifusione delle spese del grado alle parti civili che liquida in complessivi Euro 1.500,00 per ciascuna oltre ad accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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