Cass. pen. Sez. feriale, Sent., (ud. 06-09-2011) 17-10-2011, n. 37504Intercettazioni telefoniche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Catanzaro ha ribadito la responsabilità, affermata con sentenza resa in data 1 giugno 2010 dal Tribunale di Crotone, di A. F., B.F., C.G., G.C. e N.G. per il delitto loro contestato di associazione a delinquere di stampo mafioso (capo A della originaria epigrafe), nonchè del G. ed il N. dei delitti di detenzione ai fini di spaccio di sostanza stupefacente, di cui ai capi D ed E; ne ha confermato altresì il trattamento sanzionatorio.

2. Ricorrono i menzionati imputati deducendo specifici motivi; prima di procedere all’esame delle singole posizioni, è da dare atto che tutti i ricorrenti hanno riproposto le medesime questioni procedurali, che possono, pertanto, essere congiuntamente esposte, stante la sostanziale sovrapponibilità dei temi trattati.

In primo luogo, è ribadita, sotto il profilo della violazione di legge, l’eccezione di illegittimità dei decreti con cui il PM ha disposto la utilizzazione di impianti esterni a quelli in dotazione dell’ufficio di Procura per la captazione di conversazioni svoltesi nella autovetture in uso a due degli imputati (il B. ed il G.) con conseguente non utilizzabilità delle acquisizioni. E ciò per un duplice ordine di ragioni: a) difetto di adeguata motivazione sulle ragioni di urgenza e sulla inidoneità ed insufficienza degli impianti, dimostrate dalla inesistenza di operazioni di polizia originate dall’ascolto e dalla mancata concreta indicazione della impossibilità o incompatibilità di utilizzo degli speciali impianti GPS nei locali interni alla Procura; b) l’essere stato il decreto che disponeva la intercettazione originato da una informativa anonima, che dava indicazioni sull’omicidio di un certo Br. e le conseguenti intercettazioni necessarie alle indagini.

Tutti i ricorrenti osservano come la motivazioni adottate dalla Corte sono meramente ripetitive di quelle di primo grado e pertanto non adeguate.

Medesimo vizio sia sotto il profilo della violazione di legge che della inadeguatezza delle argomentazioni che costituiscono l’impianto della decisione riguardano la identificazione delle voci degli ascoltati; secondo gli imputati, in specie per il G. ed il N., era necessario l’espletamento di una perizia fonica, che è stata invece dalla Corte non ammessa in relazione ad un profilo di completezza delle identificazioni, non considerando che al di là della affermazione, secondo una modalità empirica, che gli investigatori conoscessero le voci degli ascoltati, vi erano in atti elementi di segno contrario che imponevano di dubitare della esattezza dei risultati, infatti, non erano state annotate e riconosciute tutte le voci di coloro che erano stati registrati, ma solo quelle degli imputatati, alcuni dei quali non erano, però, per pregresse indagini o frequentazioni di ambienti criminali, di certo conosciuti; mancavano i servizi di osservazione, sicchè non era non desumibile in modo univoco la partecipazione alle conversazioni dei proprietari delle autovetture, ove erano installate le microspie, ponendosi al riguardo ipotesi alternative, come pure non era esaustiva per l’identificazione la circostanza che i conversanti usassero i loro nomi di battesimo, stante la molteplicità di individui cui gli stessi di uso comune potevano corrispondere.

Passando all’esame delle singole posizioni, come premessa generale è da dire che tutti i ricorrenti mettono in luce come la Corte abbia sostanzialmente violato il criterio di valutazione della prova, in relazione alle dichiarazioni accusatorie provenienti da imputati di reato connesso e collegato, che erroneamente ha ritenuto offrirsi vicendevolmente riscontro.

Nello specifico, poi, essi deducono:

1. A.F..

Il ricorrente contesta che l’unico elemento a suo carico, costituito dalle propalazioni accusatorie di Bu.Do. non ha alcuna pertinenza, poichè il collaboratore avrebbe riferito di un unico episodio risalente e non certo significativo della appartenenza alla "locale" ossia alla cosca.

In realtà, le circostanze estremamente generiche farebbero riferimento a fatti successivi alla contestazione, che si ferma all’anno 2005.

Si duole ancora del trattamento sanzionatorio, sia perchè sproporzionato sia perchè la Corte non ha motivato, nell’applicare il regime di cui all’art. 81 c.p. sulla scelta di ritenere il fatto odierno più grave rispetto a quelli oggetto di una precedente condanna inflitta dalla sentenza denominata " Galassia". 2. B.F..

Il B. contesta, come già cennato, che egli possa essere individuato come uno dei captati, non essendo mai stato considerato in precedenza soggetto di interesse operativo ed essendo egli sconosciuto alle forze dell’ordine; la motivazione sarebbe manifestamente illogica avendo privilegiato la sua frequentazione sporadica con il G., che rileva essere l’unica acquisizione investigativa.

3. C.G..

Il ricorrente avanza rilievi sulla attendibilità e rilevanza del Bu., identici a quelli sollevati dall’ A.; sottolinea che il suo nome di battesimo, comune e diffuso, non può bastare alla identificazioni e contesta che le conversazioni abbia un contenuto criminale rilevante; la corte non ha poi risolto le evidenti ambiguità interpretative dei dialoghi.

Tutti e tre i detti ricorrenti, che si sono avvalsi di un unico difensore, deducono ancora congiuntamente che non ricorre l’aggravante di cui all’art. 416 bis c.p., comma 4, posto che non è sufficiente la disponibilità di armi a favore dei consociati come affermato dai giudici di merito, che non hanno tenuto conto delle assoluzioni sulle specifiche imputazioni in tema di porto e detenzione. Ancora il C. e l’ A. si dolgono della immotivata negazione delle generiche.

4. G.C..

Ha interposto gravame a mezzo del difensore e personalmente; i due ricorsi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto trattano i medesimi temi: in particolare, in ordine al delitto associativo, è riproposta la eccezione di improcedibilità, dato che il processo attuale, per un tratto della condotta che si è dispiegata dal 2001 al 2005 coincide naturalisticamente con quella contestata in altro processo, ancora non definito, relativa alla medesima locale per un minor periodo intermedio; seguendo le indicazioni delle sezioni unite di questa corte, espresse con la pronuncia n.34655 del 28 giugno 2005, la sentenza è da annullare con rinvio.

Ancora viene reiterata la eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni del collaboratore Co., che non era stato assistito, benchè indagato, da difensore, a nulla rilevando, come ritenuto dai giudici di merito che gli avesse reso dichiarazioni spontanee; nel merito le accuse mosse dagli imputati di reato connesso vengono esaminate per mettere in evidenza la loro irrilevanza e genericità e quindi il difetto valutazione della prova che viene anche definita vacuità probatoria; rileva che per lo più si tratta di dichiarazioni de relato di cui non c’è riscontro; nega che egli abbia mai avuto disponibilità di armi, con conseguente esclusione della aggravante per la associazione; sottolinea la mancata individuazione del suo ruolo di organizzatore, contraddetta peraltro dalle emergenze contrarie che attestavano le sue difficoltà sia economiche sia di relazione all’interno del clan. Contesta anche che in base dati probatori raccolti, la Corte abbia adeguatamente spiegato come egli abbia avuto un ruolo nella contestata vicenda di spaccio di droga ed anzi le circostanze emergenti imponevano il riconoscimento di un uso personale.

Deduce che il calcolo della pena è errato, perchè è stato tenuto conto del minimo edittale introdotto da legge successiva i fatti in suo disfavore, ed inoltre si è operato un cumulo materiale tra le decisioni, che va rivisto.

5. N.G..

Al pari del G., si duole della ipervalutazione sia delle propalazioni del Bu. sia delle intercettazioni, avendo la Corte valorizzato la sua mera vanteria di essere nella cosca da 35 anni, senza tuttavia dare adeguata motivazione in ordine al mantenimento della qualità di associato, nonostante la detenzione subita. Rileva che non è stato individuato il suo ruolo nella vicenda di cui al capo D relativa alla droga, essendo egli un personaggio marginale e al più dedito al consumo.

Lamenta che il giudice di appello non poteva rimettere a quello dell’esecuzione la chiesta applicazione del concorso formale;

infatti, sostiene che era doveroso pronunciarsi, in considerazione del fatto che il giudice di prime cure non si era avveduto che la pena più grave su cui calcolare l’aumento ex art. 81 c.p., non era quella relativa al presente procedimento, ma quella in precedenza determinata in misura maggiore con altro provvedimento di unificazione; ancora si duole della eccessività e sproporzione della sanzione.

CONSIDERATO IN DIRITTO I ricorsi sono da rigettare, ad eccezione di quello proposto da N.G., limitatamente all’omessa pronuncia sulla richiesta continuazione, con il consequenziale rinvio al giudice di merito, che procederà, in diversa composizione, al nuovo giudizio.

1. La eccezione in materia di intercettazione, sollevata da tutti gli imputati non ha pregio.

Nel caso in esame, è stata ritenuta sussistente ed adeguata la motivazione enunciata nel provvedimento del PM che ha autorizzato che le intercettazioni venissero eseguite, mediante le apposite apparecchiature installate in locali esterni alla Procura, facendo esplicito richiamo sia alla peculiarità delle captazioni, da eseguirsi su vetture in movimento, che, pertanto, dovevano per motivi tecnici essere utilizzate su mezzi attrezzati in modo specifico a seguire quelli intercettati ed a captare le conversazioni, sia alla inesistenza presso i locali in dotazione dello ufficio inquirente di un numero sufficiente di postazioni da destinare ai militari in ascolto, sia alla idoneità dei detti ambienti ad allocare un schermo satellitare, necessario per la localizzazione, sia infine alla necessità di garantire l’intervento, e quindi la disponibilità immediata del personale di P.G., non altrimenti assicurabile.

La Corte, secondo l’assunto dei ricorrenti, avrebbe male interpretato dette motivazioni carenti e contraddittorie e avrebbe avvallato una inammissibile operazione di integrazione delle ragioni del decreto, contenuta nella pronuncia di primo grado, che si era rifatta ad una notoria quanto apodittica insufficienza degli impianti della Procura.

Le censure, peraltro meramente ripetitive di quelle enunciate in appello, non possono trovare accoglimento.

Come hanno, infatti, puntualmente sottolineato i giudici a quibus, la motivazione della non idoneità degli impianti interni, posta a base dei provvedimenti del pubblico ministero, si presenta – in concreto – più che adeguata, in rapporto, anche, allo specifico tenore della richiesta della polizia giudiziaria cui lo stesso pubblico ministero ha – del tutto legittimamente, alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Corte – fatto rinvio, considerata, da un lato, la natura e la finalità degli accertamenti che solo le intercettazioni potevano assecondare, e, dall’altro, la ineludibile esigenza di immediatezza nell’approntare i rimedi di polizia. Si trattava infatti di attività di indagini in corso, concernente la pressione sul territorio, con i consequenziali delitti, quali estorsioni, cessione di sostanze di stupefacenti, danneggiamenti, esercitata dal gruppo criminale, affiliato alla ‘ndrangheta della Provincia di Crotone. Tutte le circostanze enunciate attestavano, in concreto, la inadeguatezza degli impianti e la loro insufficienza, e pertanto integravano il presupposto con idonea esplicazione per la disposta deroga.

Ad identica sorte vanno incontro i rinnovati rilievi che i ricorrenti muovono in ordine alla sussistenza del presupposto della eccezionale urgenza ed alla congruità della motivazione dei provvedimenti.

Premesso che è costante l’assunto secondo il quale è pienamente legittima, in parte qua, la motivazione per relationem (cfr., ex multis, Cass., Sez. un., 26 novembre 2003, Gatto), si è pure sottolineato che l’esistenza delle "eccezionali ragioni di urgenza" richieste dall’art. 268 c.p.p., comma 3, per l’impiego di apparecchiature diverse da quelle installate presso la procura della Repubblica, può anche essere motivata per implicito, come si verifica allorquando essa sia desumibile dal riferimento alla attività criminosa in corso (Cass., Sez. 1A, 3 febbraio 2005, p.m. in proc. Gallace). Come ripetutamente affermato da questa Corte, almeno a partire dalla sentenza emessa dalla Sesta sezione alla c.c. del 17 novembre 2004, ric. Gancitano, qualora, ricorrendo un caso di "urgenza", le operazioni di intercettazione devono essere avviate immediatamente, abilitandosi il pubblico ministero a disporle senza che si possa attendere il provvedimento autorizzativi del giudice, sussistono evidentemente anche le "eccezionali ragioni di urgenza" considerate come presupposto legittimante l’utilizzo di impianti in dotazione della polizia giudiziaria, posto che sia riscontrata la insufficienza o inidoneità di quelli installati nella Procura della Repubblica (v. in questo senso, tra le ultime, Cass. sez. 6A, c.c. 11 aprile 2005, Borrenti). Va dunque – e conclusivamente -richiamato l’orientamento secondo il quale i "casi di urgenza" che abilitano il pubblico ministero, a norma dell’art. 267 c.p.p., comma 2, ad emettere il decreto di intercettazione di conversazioni o comunicazioni, comprendono, di norma, le "eccezionali ragioni di urgenza" che legittimano, ai sensi dell’art. 268 c.p.p., comma 3, l’esecuzione delle operazioni mediante impianti in dotazione della polizia giudiziaria, qualora quelli installati nella procura della Repubblica risultino insufficienti o inidonei. Ne consegue che la motivazione circa la sussistenza della urgenza di cui all’art. 267 c.p.p., comma 2, assorbe quella circa il ricorrere delle "eccezionali ragioni di urgenza" ex art. 268 c.p.p., comma 3, ove le ragioni addotte ai fini della esigenza di attivare immediatamente le operazioni di intercettazione appaiano incompatibili sia con la normale procedura che prevede la sequenza richiesta – autorizzazione – esecuzione, stabilita, in via ordinaria, dall’art. 267 c.p.p., comma 1, sia con l’attesa del realizzarsi di una condizione di sufficienza o idoneità degli impianti installati presso la procura della Repubblica. Ne consegue, dunque, che, se il decreto di urgenza del pubblico ministero è convalidato dal giudice, non può più farsi questione della sussistenza dei requisiti di urgenza ai fini sia dell’art. 267 c.p.p., comma 2, sia dell’art. 268 c.p.p., comma 3, (Cass., Sez. 6A, 19 maggio 2005, Roveto).

Nè può convenirsi con i ricorrenti che la corte di merito abbia illogicamente giustificato il provvedimento del PM, giacchè il giudice di appello ha, con proprio iter argomentativo, risposto alle doglianze avanzate, con esatto richiamo ai principi espressi da questa corte, verificandone In concreto la operatività, enucleando il punto centrale e decisivo della motivazione dei provvedimenti del PM; avverso tale pronuncia i ricorrenti rinnovano le medesime lagnanze già avanzate in sede di impugnazione, non apportando decisivi argomenti per il chiesto ribaltamento della pronuncia di utilizzabilita dei risultati delle captazioni. Va, ancora, rilevato al riguardo che non ha pregio lo specifico motivo con cui si deduce che gli atti di indagine in danno del G. siano scaturiti da una segnalazione anonima, giacchè la corte di merito ha precisato come, nel definire il quadro indiziario a carico di costui, necessario per la sussistenza degli indizi ex art. 267 c.p.p., il PM non ha fatto riferimento alla indicazione anonima; il G., infatti, per come riportato nel decreto, era già, e da tempo, indiziato, in base ad accertamenti tecnici eseguiti dal consulente della Procura ed alle indicazioni desunte da precedenti giurisdizionali passati in giudicato, di avere avuto un ruolo quale appartenente alla "locale" mafiosa in un grave fatto di sangue; la utilizzazione della fonte anonima, come messo in evidenza dalla corte, era stata limitata alla sola indicazione del numero di targa della auto, in quel momento in suo possesso, sicchè non aveva incidenza sui gravi indizi, preesistenti alla per così dire soffiata che consentiva un allargamento delle investigazioni. Peraltro, anche avverso tale passo della decisione, i ricorsi non si confrontano mantenendo ferme le posizioni enunciate in appello, che come rilevato sono state adeguatamente confutate.

Quanto, poi, alla denuncia di irragionevolezza della decisione di rigetto di una perizia fonica, collegata alla susseguente lagnanza di inesatto o dubbioso riconoscimento delle voci, è da ribadire che la perizia è un mezzo rimesso al prudente apprezzamento del giudice, insindacabile nella misura in cui sia stata esclusa la necessità con adeguato ragionamento,come appunto avvenuto nel caso in esame.

La Corte si è diffusa sul punto, con motivazione logica, escludendone la necessità, dato che i mezzi empirici adottati avevano assicurato risultati certi sulla partecipazione dei ricorrenti ai colloqui. Il ragionamento inferenziale è corretto, in quanto basato su dati certi iniziali – appartenenza delle autovetture agli indagati e sicuro uso delle stesse da parte di costoro – cui si sono affiancati elementi di conferma e riscontro, quali la conoscenza delle voci da parte degli investigatori, l’uso tra i conversanti dei nomi personali o dei soprannomi, la visione diretta delle frequentazioni tra gli indagati, che hanno indotto, secondo un prudente apprezzamento di fatto, non sindacabile in questa sede, a risultati che rendevano superfluo il chiesto accertamento.

Nelle impugnazioni, i ricorrenti non hanno opposto – dialetticamente – dati contrari a quelli valutati in sentenza, ma solo introdotto ipotesi di dubbio, che in questa sede non possono nemmeno essere valutati o perchè, come detto, confliggenti con accertamenti di merito o perchè irrilevanti, quale, ad esempio, la mancata indicazione per alcune conversazioni della partecipazione di altri soggetti diversi dagli attuali imputati, che il giudice distrettuale non ha ritenuto valida proprio per la estraneità di costoro al contesto criminale.

In conclusione, il rigetto dell’eccezione comporta dunque la piena utilizzabilità dei risultati probatori acquisiti con le intercettazioni nei confronti degli imputati.

2. Le singole posizioni.

In via generale, è ancora da osservare che la Corte di Appello legittimamente si è richiamata alla pronuncia di primo grado, giacchè, come è noto, le due pronunce possono integrarsi, finendo con il costituire un unicum inscindibile, purchè il giudice del gravame, pur riferendosi anche per relationem a fatti e dati enunciati in primo grado, li ritenga coerenti con la propria decisione condividendone l’interpretazione datane e rispondendo adeguatamente alle censure che li investono. Tale premessa esclude pertanto quelle doglianze che alcuni dei ricorrenti hanno sotto diverse sfumature sollevato in ordine alla inadeguata esposizione dei dati probatori ed alla ricostruzione delle loro vicende, fermo restando che comunque saranno nel proseguo esaminati i singoli e distinti temi proposti con le rispettive censure.

2.1. A.F..

Contrariamente a quanto sostento in ricorso, risulta dalla sentenza della Corte che a suo carico, oltre alle dichiarazioni dell’imputato di reato connesso, Bu.Do. sono a suo carico altri elementi, indicativi della sua appartenenza alla consorteria calabrese.

Infatti, è agli atti riportata una conversazione intercettata in carcere, avuta con la moglie, nel corso della quale egli descrive come da libero facesse pervenire il denaro, proveniente da delitto, alle famiglie dei detenuti per il necessario supporto, dovuto ai sodali; inoltre, sono menzionate e commentate altre conversazioni, intrattenute con il G., in cui i due tengono i conteggi del denaro raccolto (il ed maniu) da destinare ai detenuti e progettano di incrementare il maniu con una estorsione.

In tale contesto, la corte ha osservato che le dichiarazioni del Bu., ancorchè attinenti ad un periodo successivo a quello indicato nella imputazione sono un ulteriore elemento di conferma della ipotesi accusatoria, essendo logico e rispondente a corretta tecnica interpretativa valutare anche fatti successivi che tuttavia circostanziavano la permanenza dell’ A. nel sodalizio anche a distanza di anni.

In altre parole, il giudice distrettuale ha raccordato la tipicità di tali comportamenti, compiuti dall’imputato anche dopo la sua scarcerazione, con quelli precedenti, in forza del principio, espresso, con uniformità di indirizzo, in ordine alla natura permanente del vincolo associativo ed alla immanenza della qualità di associato, ritenendo solo che le dichiarazioni rafforzassero il quadro probatorio relativo ai fatti anteriori, di per sè sufficiente, data la valenza autoaccusatoria del contenuto delle conversazioni, rese con assoluta genuinità e spontaneità: a fronte di tale ricostruzione del compendio e della ragionata lettura dello stesso, l’ A. si limita ad una denuncia di carenze motivazionale, che in realtà introduce solo dei meri dubbi, ricavati da una parziale lettura delle acquisizione ed in definitiva una a sè più favorevole ricostruzione dei fatti, che costituisce una valutazione di merito non sottoponile al vaglio di legittimità. Vale rammentare che il sindacato della corte di legittimità è limitato al controllo della congruità e della logicità della motivazione adottata giudice nella valutazione dei dati probatori e nella individuazione della condotta dell’imputato nel paradigma legale violato, restando estraneo al controllo gli errori che non risultino evidenti dal ragionamento esplicitato.

E’ inammissibile il motivo gradato, concernente la applicazione dell’istituto della continuazione, che è stato introdotto con il presente ricorso e non ha costituito oggetto di gravame innanzi alla corte di merito, così come generico e quindi attinto dal medesimo vizio è quello relativo al trattamento sanzionatorio definito sproporzionato, senza alcuna indicazioni delle ragioni del dissenso.

2.2. B.F..

In danno del ricorrente, è un’ampia e ragionata esposizione delle specifiche condotte che lo stesso ha attuato, che la corte ha esattamente indicato essere rispondenti al paradigma legale della condotta partecipativa.

Egli, infatti, viene applicato dal G., che ha nella struttura associativa una funzione di preminenza, a mansioni di supporto ed al disbrigo di varie incombenze necessarie alla vita associativa. La Corte ha indicato le numerose e significative intercettazioni che io riguardano ed ha messo in luce la natura illecita delle condotte cui gli interlocutori hanno fatto riferimento, come peraltro logicamente desunto da dialoghi svoltisi anche tra i suoi più stretti parenti, preoccupati delle conseguenze del suo coinvolgimento e della sua sudditanza al G..

Il quadro completo in relazione a tutte le risultanze istruttorie e logico in ordine alla loro valutazione è contestato dal B. con argomentazioni di fatto, quali la sua giovane età, la mancata conoscenza da parte dei collaboratori di giustizia e la sua limitata frequentazione del G., che ne escluderebbero la consapevolezza dell’appartenenza alla associazioni; si tratta di connotazioni di merito, la cui rilevanza è stata esclusa dalla la Corte distrettuale in base ad una ragionata analisi del contenuto delle conversazioni, indicativa della sua compenetrazione organica; la motivazione, lungi da essere mancante o contraddittoria, da, dunque, un adeguata risposta al gravame; rispetto ad essa il ricorso oltre ad introdurre questioni di merito, non ha alcuna specificità sul rapporto di particolare confidenza e collaborazione con il G., valorizzato in sentenza e costituente elemento decisivo per la sua inclusione, sicchè oltre tutto è da ravvisare nel gravame anche un profilo di genericità. 2.3 C.G..

I giudici di merito hanno affermato che il ricorrente svolgeva il preciso ruolo di cassiere per conto della ed locale e ciò non soltanto in forza delle dichiarazioni del collaboratore, Bu., ma anche per riscontri offerti e dal contenuto dei dialoghi intercettati. Infatti, nelle conversazioni il C. non solo risulta attivo nella consorteria ma ha proprio lo specifico compito di tenere i conteggi del denaro, insieme al G..

E1, infatti, da osservare che la Corte di Appello, non incorrendo affatto nel denunciato vizio di difetto o illogicità della motivazione, ha individuato, con ragionamento congruente con le risultanze processuali e aderente alla logica, la consapevolezza del C. nella adesione alla organizzazione, oltre alle circostanze di fatto esaminate dalla sentenza di primo grado, che come è noto si salda e si integra con quella di secondo, il punto centrale e risolutivo per la individuazione della partecipazione. E’ stato sottolineato dai giudici di merito che le dichiarazioni a suo carico del Bu. confermavano una consolidata intraneità, poichè anche se la presentazione formale del ricorrente come associato era avvenuta in data posteriore ai fatti per cui è processo, esse si saldavano con una precedente condanna per associazione e attestavano, insieme ai dati intercettativi pertinenti il periodo in contestazione, la permanenza nel ruolo del ricorrente.

Anche nel caso del C., i motivi si limitano a suggerire una diversa valutazione della prova, senza centrare alcun punto di erroneità manifesta o contraddizione, sicchè essi comunque esulano dalla verifica consentita in sede di legittimità. 2. 4 E’ da rigettare il motivo che i sopramenzionati ricorrenti propongono congiuntamente in tema di sussistenza della aggravante consistente nell’avere la associazione la disponibilità di armi e nella destinazione del prezzo, peraltro meramente generico, in quanto attestato su un asserto difetto di prova del possesso delle stesse.

Secondo il consolidato orientamento di questa corte, la circostanza ha natura oggettiva e pertanto deve essere riferite all’attività dell’associazione e non alla condotta del singolo partecipe. (fra tante Cass sez. 6, Sentenza n. 42385 del 15/10/2009).

Nella fattispecie, la Corte ha riconosciuto la ricorrenza della stessa dalle molteplici e convergenti dichiarazioni dei collaboratori in ordine alla esistenza di armi a disposizione del clan e tanto basta, non essendo rilevanti le singole assoluzioni riportate in tema di armi, in quanto relative ad episodi che non incidono sulla disponibilità, nè sulla consapevolezza dell’arsenale in capo a ciascuno degli associati, che per la natura oggettiva della aggravante ne rispondono anche se per colpa lo ignori.

2.5 Infine è da rigettare il motivo proposto congiuntamente da C. ed A. che riguarda le denegate attenuanti generiche, La corte sul punto ha fornito adeguata motivazione, mettendo in rilievo la negativa personalità criminale dei due quale risultante dai precedenti penali, considerati ostativi, della quale il ricorrente hanno opposto una generica lagnanza tendente ad introdurre elementi di merito, sottratti al sindacato di questa corte. Infatti, la graduazione della pena, anche rispetto alla concessione delle attenuanti ed all’eventuale giudizio di bilanciamento, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p. (Cass., sez. 6, 5 dicembre 1991, Lazzari);

ne consegue che nel giudizio di cassazione non si può procedere ad una nuova valutazione della congruità della pena, laddove, come nel caso in esame, il giudice di merito abbia con esaustiva motivazione, argomentato sulle ragioni della sua scelta e sui criteri seguiti.

3. C.C..

E’ infondata la eccezione di improcedibilità della azione penale.

Il principio invocato, di cui alla nota pronuncia di questa Corte a Sezioni Unite, del 28 giugno 2005, n. 34655, Donati, – secondo il quale "non può essere nuovamente promossa l’azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del P.M.", con la conseguenza che "nel procedimento eventualmente duplicato (..), se l’azione penale sia stata esercitata, deve essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità" non si attaglia al caso in esame, anche se per ragioni diverse da quelle adottate dalla corte di merito.

Infatti, la "preclusione determinata dalla consumazione del potere già esercitato dal Pubblico Ministero" opera nelle situazioni di litispendenza relative a procedimenti pendenti avanti a giudici egualmente competenti, affatto ravvisatale nella ipotesi in esame, dato che semmai il processo iniziato precedentemente a questo, non ancora concluso, concerne sì una condotta associativa, ma ha riguardo ad un periodo temporale, individuato in imputazione dal gennaio 2001 al dicembre 2002, minore ed intermedio rispetto alla attuale imputazione, che va dal gennaio 2001 al 2005. Si tratta, pertanto, di imputazioni, in cui non può che individuarsi una parziale sovrapposizione tra le condotte, un rapporto di continenza della seconda rispetto alla prima contestazione, che avrebbe imposto semmai la proposizione della eccezione di improcedibilità dinanzi al quel giudice. Infatti, premesso che la non identità dei periodi temporali di per sè da ragione della non ravvisabilità della litispendenza dinanzi al secondo giudice, che rimane pur sempre investito dei periodi successivi a quello indicato come sovrapponile, è evidente che i due accertamenti non possono raddoppiarsi o duplicarsi, se non per una porzione di condotta, e che tale situazione può trovare logica soluzione, coerente al sistema, o elevando la eccezione nel processo già incoato, relativo ad un minus, e ciò non è stato fatto, o attenendosi ai principi generali in caso di conflitti di giudicato, ossia alla gamma di rimedi che lo stesso ordinamento offre sia in sede di cognizione che di esecuzione, ciascuno dei quali consente di risolvere la sovrapposizione, senza alcuna distonico blocco del processo. Tale invece sarebbe l’effetto che si otterrebbe se si volesse seguire la tesi del ricorrente, posto che la chiesta improcedibilità creerebbe un impasse processuale sulla azione penale, già esercitata per il tutto, a causa di un accertamento su un minus di condotta partecipativa, la cui decisione ovviamente non potrebbe avere alcuna incidenza su tutta l’estensione del fatto.

Un tale risultato, di stasi processuale e quindi abnorme, convince ancor più della non applicabilità dell’invocato istituto, che è strumento diretto ad agevolare e rendere funzionale il procedimento ad evitare inutili duplicazioni in presenza di situazioni relative a procedimenti pendenti avanti a giudici egualmente competenti, che nella specie data la non perfetta coincidenza dei periodi temporali in ogni caso non si potrebbe verificare.

Parimenti non ha fondamento alcuno il secondo motivo, concernente le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Co..

La corte distrettuale ha osservato che costui ha reso dichiarazioni dibattimentali, con la dovuta assistenza, tant’è che nessuna irritualità della sua testimonianza stata rilevata, mentre per quanto riguarda le ammissioni e le accuse esternate in sede di indagini ha rilevato che le dichiarazioni di costui sono state sono state spontanee e perciò il collaboratore non necessitava di assistenza tecnica.

La motivazione dei giudici di merito non può che essere condivisa, essendo esatta la applicazione del principio giuridico, secondo cui alle dichiarazioni spontanee ( art. 350 c.p.p., comma 7) del soggetto indagato non si applicano le disposizioni dell’art. 63 c.p.p., comma 1, e dell’art. 64 c.p.p., giacchè l’una concerne l’esame di persona non imputata o non sottoposta ad indagini e l’altra, attiene all’interrogatorio, atto diverso dalle spontanee dichiarazioni (fra le tante Sentenza n. 34151 del 27/06/2008).

E’ appena il caso di sottolineare, poi, che nessuna violazione del diritto di difesa ha leso la posizione de G., che essendosi il Co. sottoposto a rituale esame in contraddittorio, ha potuto verificare la tenuta delle accuse ed esercitare i suoi diritti di controprova.

Va da sè, poi, che la dedotta inutilizzabilità, legata ad una ipotizzata influenza delle dichiarazioni spontanee sulle contestazioni eseguite in dibattimento, non ha alcuna concreta attinenza al processo ed è meramente generica ed ipotetica, non essendo state indicate quali divergenze abbiano formato oggetto di contestazioni, E peraltro ove esistenti esse apparterebbero al tema della prova, e quindi della critica alla motivazione, secondo i parametri di legittimità di cui all’art. 606 c.p.p..

Quanto poi, alla denunciata inconsistenza della motivazione, con conseguente indicazione degli errori della decisione nella valutazione delle prove dichiarative, è da rilevare che sostanzialmente il i motivi di ricorso si incentrano su osservazioni di puro merito, che tendono ad una rivisitazione delle circostanze di fatto per ricostruire la vicenda in termini opposti a sè confacenti.

Come è noto non è però consentito innanzi al giudice di legittimità ridiscutere le emergenze di fatto e propugnare diverse letture delle stesse, se non in presenza di quei vizi motivazionali sanzionati dall’art. 606 c.p.p., lett. E): detti vizi debbono tuttavia emergere ictu oculi dallo stesso testo della sentenza impugnata; una siffatta condizione per come sopra messo in evidenza non ricorre nel caso in esame, avendo la Corte offerto una plausibile spiegazione delle azioni e dei comportamenti dell’imputato, che regge al vaglio critico.

Invero sia per quanto riguarda il reato associativo che le contestazioni in tema di stupefacente, la corte ha coordinato i dati risultanti dalle intercettazioni ambientali, interpretate con corretta analisi dei significati delle espressioni usate, peraltro esplicite sia in tema di fatti associativi sia in tema di droga, con le propalazione dei collaboratori. Questi infatti erano concordi nell’affermare il ruolo apicale del G., circostanza che emergeva anche dai dialoghi captati, posto che gli interlocutori gli riconoscevano il ruolo di collettore del denaro proveniente dalle estorsioni, di persona in contatto con le "locali" delle zone limitrofe, di gestore della cassa comune al clan, di soggetto deputato a decidere i contributi economici a favore degli associati ristretti in carcere, elementi tutti che secondo la adeguata valutazione dei giudici di merito ne individuavano un ruolo apicale di organizzatore. Anche per la droga, nei due episodi contestati, di cui uno in concorso con l’odierno ricorrente N., la corte ha messo in evidenza come i dialoghi hanno un esplicito riferimento alla droga, per le espressioni usate, attinenti a qualità della "roba", prova della "striscia", passaggi della stessa ad altri soggetti, pagamento di elevati prezzi, indici inequivoci di attività penalmente rilevante, per la destinazione alla vendita, e non significative di esclusivo uso personale. Ciò fa ragione delle censure oggi mosse alla sentenza, che peraltro ripropongono quelle di appello, al cui vaglio la corte non si è sottratta. Per quanto riguarda, poi, la censura sulla sussistenza della aggravante dell’essere la associazione armata, possono richiamarsi le considerazioni svolte in occasione dell’esame delle tre precedenti posizioni; in ogni caso, il G., che non ha opposto diverse e valide obbiezioni, rispetto a quelle già esaminate, per la sua posizione apicale era in concreto nelle condizioni di conoscere la esistenza di un armamentario comune al clan. Non hanno fondamento, infine le censure concernenti la pena, che è stata determinata secondo la più favorevole disciplina anteriore: il giudice di merito non ha ritenuto di applicare il minimo, esprimendo sul punto una valutazione di merito, che la corte ed ha operato un aumento ex art. 81 c.p., contenuto nei limiti indicati in detta norma, sicchè in concreto non si è verificata alcuna violazione di legge.

4. N.G..

I motivi afferenti alla responsabilità non hanno alcun fondamento.

Si tratta infatti di censure meramente ripetitive di quelle già esposte innanzi la Corte, che non si confrontano con gli specifici passi della pronuncia, attestanti l’effettivo inserimento dello stesso nella associazione, ed il suo ruolo attivo, da oltre 35 anni in seno alla stesso, come affermato dal N. stesso in una conversazione intercettata.

Quanto poi alla assenza di riscontri alle dichiarazioni del collaboratore Bu., la sentenza si sofferma sull’inequivoco contenuto auto accusatorio delle conversazioni intercettate in danno del N., che, peraltro, non le contesta se non per rilevarne apoditticamente lacunosità ed irrilevanza.

Nè ha poi rilievo, come correttamente osservato dai giudici di merito, che egli, condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso, con sentenza passata in giudicato, abbia trascorso un lungo periodo di detenzione, coincidente in parte con quello oggetto della odierna imputazione.

E’ principio pacifico, ed ad esso si è richiamata la impugnata sentenza, che in tema di associazione per delinquere, il sopravvenuto stato detentivo di un soggetto non determina la necessaria ed automatica cessazione della partecipazione al sodalizio criminoso di appartenenza, atteso che, in determinati contesti delinquenziali, i periodi di detenzione sono accettati dai sodali come prevedibili eventualità le quali, da un lato, attraverso contatti possibili anche in pendenza di detenzione, non impediscono totalmente la partecipazione alle vicende del gruppo e alla programmazione delle sue attività e, dall’altro, non fanno cessare la disponibilità a riassumere un ruolo attivo non appena venga meno il forzato impedimento. (Sez. 4, Sentenza n. 2893 del 07/12/2005).

Nel caso del N., poi, oltre al difetto di provate condizioni di isolamento, che rendessero oggettivo il distacco, la corte ha posto in rilievo come costui, dopo il 2003, sia stato rimesso in libertà e solo sottoposto a misura di prevenzione, che logicamente non ne impediva affatto la partecipazione alla associazione, e detta circostanza di fatto, adeguatamente esposta, e perciò insindacabile in questa sede, rafforza l’iter decisionale e rende vane le contestazioni.

Così come legata ad una mera rivalutazione in senso a sè favorevole delle conversazioni intercettate, è la censura che riguarda il delitto in materia di stupefacente, laddove invece i giudici di merito hanno posto in evidenza come costui abbia speso le sue energie per l’acquisto di droga al fine di rivenderla, in concorso con il G., alla cui motivazione si rimanda. Del tutto generica e perciò inammissibile è la doglianza relativa all’ipotesi di non rilevanza dell’acquisto per uso personale ed all’invocato uso di gruppo. Di cui non sono neanche enunciati elementi significativi.

E’ fondata la censura relativa alla mancata applicazione dell’istituto della continuazione.

Deve infatti trovare applicazione il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza 19-1-2000, n. 1 Ruzzolino, secondo il quale, una volta che l’imputato abbia formulato uno specifico motivo di gravame sulla mancata applicazione della continuazione, il giudice dell’impugnazione ha l’obbligo di pronunciarsi sul tema di indagine devolutogli, per l’evidente ragione che al principio devolutivo è coessenziale il potere-dovere del giudice del gravame di esaminare e decidere sulle richieste dell’impugnante: sicchè, stante la correlazione tra motivi di impugnazione e ambito della cognizione e della decisione, non è ammissibile che il giudice possa esimersi da tale compito, riservandone la soluzione al giudice dell’esecuzione e possa, così, l’opportunità di esaminare, o non, l’istanza dell’impugnante.

Il giudice distrettuale, invero, ha pronunziato un non liquet, erroneamente rimandando al giudice dell’esecuzione e pertanto sul punto è da pronunciare l’annullamento della pronuncia con rinvio per nuovo giudizio sulla continuazione ad altra sezione della corte distrettuale, che si atterrà al principio ora indicato.

Tutti i ricorrenti, ad eccezione del N., sono infine da condannare al pagamento delle spese processuali ex art. 616 c.p.p..

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di N.G. limitatamente alla continuazione e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro. Rigetta nel resto il ricorso del N.. Rigetta i ricorsi di A. F., B.F., C.G. e G.C. che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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