Cass. civ. Sez. III, Sent., 29-03-2012, n. 5059 Danno

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p. 1. Nell’aprile del 2001 la Banca Antoniana Popolare Veneta s.c.a.r.l. (poi divenuta Banca Popolare Veneta s.p.a.) conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano l’Avvocato M.P. E. per sentirla condannare al risarcimento dei danni a suo dire sofferti nella misura di allora L. 23.000.000.000 (o in quella che fosse risultata all’esito dell’istruzione) in conseguenza di un fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c., consistito nell’avere la convenuta indotto la Banca Nazionale dell’Agricoltura – società incorporata da quella attrice per fusione – alla concessione di un nuovo affidamento creditizio a R.F.A., coniuge della M. dal 1986 fino alla separazione giudiziale nel 1999, oltre quello di cui il medesimo aveva già precedentemente goduto per L. 12.500.000.000.

L’illecito aquiliano addebitato alla M. veniva individuato nell’avere la medesima occultato l’inesistenza delle azioni di una società, la Milan Mail n. 1 s.p.a., che la M., a suo tempo resasi acquirente delle stesse, aveva costituito in pegno a garanzia dell’ulteriore affidamento creditorio concesso al R., pur essendoLe nota la loro giuridica inesistenza fino dal 1991. p.1.1. La vicenda in fatto che occasionava la domanda si era articolata, per quello che si legge sia nel ricorso, sia nella sentenza di primo grado, riprodotta in copia fotostatica nella sentenza qui impugnata, con le seguenti scansioni:

a) nel lontano 19 giugno 1978 l’assemblea della Milan Mail n. 1 deliberava l’azzeramento del capitale sociale e la sua ricostituzione con aumento fino a L. 2.000.000.000, ma l’11 aprile 1979 veniva dichiarato il fallimento della società;

b) con atto del 29 luglio 1992 R.F.A., al fine dichiarato di riportare in bonis la fallita, della quale deteneva il 90% delle azioni, otteneva dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura un finanziamento di L. 9.000.000.000 a fronte della cessione del credito, di cui sarebbe divenuto titolare nei riguardi della società in ragione dell’operazione di rientro in bonis, con concessione alla Banca della surrogazione nei relativi diritti verso il debitore e patto di retrocessione del credito una volta rimborsato dal finanziamento;

c) nel contempo il R. concedeva in pegno alla Banca, a garanzia del credito della stessa, due certificati azionai della Milan Mail per complessive 1.800.000 azioni;

d) il 30 novembre 1993 il R., nel ricevere un ulteriore affidamento di L. 3.500.000.000 a fronte dell’estensione del pegno;

e) il 19 ottobre 1995 il R. cedeva alla M. 1.200.000.000 azioni della Milan Mail n. 1 (e 600.000 alla Sofinvest s.r.l.);

f) il 21 marzo 1996 la M. (e la detta s.r.l.) estendevano il pegno sino a concorrenza della somma di L. 26.300.000.000 in relazione all’ammontare all’epoca dell’apertura di credito a favore del R. e, quindi, il 31 luglio successivo sino alla concorrenza della somma di L. 30.500.000.000 sempre in relazione alla detta apertura di credito, ed il 17 gennaio 1997 fino a concorrenza di L. 35.500.000.000. g) il 4 maggio 1998, con delibera omologata dal Tribunale di Milano il successivo 16 luglio, l’assemblea della Milan Mail n. 1 dava atto del mancato versamento delle somme dovute in relazione all’aumento di capitale del 1978, revocava la delibera, dava atto che il capitale sociale risultava riportato a 1.000.000 quale era antecedentemente, dava atto che il R. non si poteva considerare socio e disponeva che l’amministratore distruggesse i certificati azionali e ne emettesse di nuovi a nome dei soci effettivi. p.2. Con sentenza n. 9551 del 29 agosto 2005 il Tribunale di Milano accoglieva la domanda risarcitoria e condannava la M. al pagamento in favore della Banca attrice della somma di Euro 11.878.508,68 (corrispondenti a L. 23.000.000.000). p.3. La sentenza veniva appellata dalla M. davanti alla Corte d’Appello di Milano, la quale, nella resistenza della Banca Antoniana Popolare Veneta s.p.a., con sentenza del 1 settembre 2009 rigettava l’appello. p.4. Contro questa sentenza la M. ha proposto ricorso per cassazione contro la Banca Antoniana Popolare Veneta s.p.a..

Al ricorso ha resistito con controricorso la CFT Finanziaria s.p.a. adducendo, al fine di giustificare la propria legittimazione, di essere, in forza di atto notarile del 27 dicembre 2007, società incorporante della Vindex s.r.l., la quale, a sua volta, in data 29 dicembre 2006 aveva acquistato dalla Banca intimata, in forza di atto di cessione pro soluto pubblicato ai sensi dell’art. 58 del T.U.B., l’insieme dei crediti vantati dalla cedente e derivanti o connessi al contratto di scoperto di conto corrente a suo tempo stipulato dal R., nonchè le connesse garanzie nei confronti di garanti, coobbligati e terzi. p.4.1. Con "memoria" depositata il 2 agosto 2011 la CFT Finanziaria s.p.a. si è costituita con due nuovi difensori in sostituzione del precedente, in forza di mandato conferito con scrittura privata autenticata. Tale memoria è stata notificata anche alla Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., quale incorporante la Banca Antonveneta s.p.a.. p.5. Sia la ricorrente, sia la CFT hanno depositato memoria in vista dell’udienza pubblica. p.6. Nella stessa udienza di discussione, inoltre, la Prelios Credit Servicing s.p.a. ha depositato atto notarile con allegati, nel quale si è qualificata come già Pirelli Re Credit Servicing s.p.a., ha dichiarato di agire non in proprio, bensì quale procuratrice della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. "in forza di procura speciale rilasciata da Banca Antonveneta s.p.a. (già Banca Antoniana Popolare Veneta s.p.a.) (….) con atto pubblico 29 novembre 2007 (….)confermata da Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. con atto pubblico di fusione per l’incorporazione di Banca Antonveneta s.p.a.

(…del) 22 dicembre 2008", ed ha conferito mandato a due difensori agli effetti di cui all’art. 370, primo comma, ultima parte e, quindi, per la partecipazione alla discussione nella pubblica udienza. L’atto è stato depositato da uno dei due difensori, nominati disgiuntivamente.

Motivi della decisione

p.1. Preliminarmente è necessario soffermarsi sulla ammissibilità o meno dell’ingresso nel presente giudizio di legittimità della CFT Finanziaria s.p.a.

Avendo la medesima dedotto – per la verità in modo implicito – come situazione che l’avrebbe ad esso legittimato una fattispecie di verificatasi successione a titolo particolare ai sensi dell’art. 111 c.p.c. nella posizione attiva oggetto del presente giudizio, cioè nella titolarità attiva del credito di risarcimento danni a suo tempo fatto valere dalla Banca intimata, il suo ingresso in un processo in cui non era parte in senso formale nel grado precedente deve considerarsi come un intervento e precisamente un intervento di un terzo che, per avere acquistato la posizione giuridica attiva oggetto del giudizio si trova in una situazione di dipendenza non già ai sensi dell’art. 105 c.p.c., comma 2, ma perchè il comma 3, art. 111 espressamente lo assoggetta all’esito del giudizio fra le parti originarie in quanto è succeduto nella situazione giuridica oggetto del processo di una di esse. p.1.1. Il Collegio non ignora che nella giurisprudenza della Corte è prevalente l’orientamento secondo cui nel giudizio di legittimità "il successore a titolo particolare nel diritto controverso può ben impugnare per cassazione la sentenza di merito, entro i termini di decadenza, ma non può intervenire nel giudizio di legittimità, mancando una espressa previsione normativa riguardante la disciplina di quell’autonoma fase processuale, che consenta al terzo la partecipazione al giudizio con facoltà di esplicare difese, assumendo una veste atipica rispetto alle parti necessarie, che hanno partecipato al giudizio di merito" (Cass. n. 11375 del 2010;

successivamente: Cass. n. 7986 del 2011; in precedenza: Cass. n. 10215 del 2007; n. 11322 del 2005; n. 6610 del 1988).

Viceversa, a favore dell’ammissibilità dell’intervento si è pronunciata Cass. n. 10958 del 2005, in un caso nel quale il ricorso era stato proposto dalla parte originaria che aveva trasferito il diritto controverso e l’acquirente, cioè il successore a titolo particolare, era intervenuto depositando memoria adesiva al contenuto del ricorso (Nella specie, trattavasi del deposito di una memoria illustrativa del ricorso – qualificata dalla Corte di Cassazione come intervento – da parte di una banca, la quale era subentrata, in quanto conferitaria dell’azienda bancaria di altro istituto di credito, parte del giudizio e ricorrente per cassazione, nel contenzioso attivo e passivo relativo ai rapporti bancali correnti del dante causa, tra cui quello oggetto di controversia).

Nella motivazione questa decisione ha osservato quanto segue: "Questa Corte ha più volte affermato che è inammissibile l’intervento volontario del terzo in sede di giudizio per Cassazione, mancando, in proposito, una espressa previsione normativa, e riferendosi l’art. 105 codice di rito esclusivamente al giudizio di cognizione di primo grado (da ultimo Sez. 5, 7.7.2004, n. 12448, rv. 574250). Tale condivisibile principio non può peraltro applicarsi all’intervento adesivo, potendosi osservare da un lato che l’art. 105 c.p.c. è inserito nel libro primo del codice, che si riferisce alle disposizioni sul processo in generale e non soltanto al giudizio di primo grado, e dall’altro che non pare risolutiva, di fronte all’ampia portata del principio affermato dall’art. 105, la mancata espressa previsione dell’intervento adesivo tra le disposizioni che regolano il giudizio di Cassazione, anche in ragione del fatto che il legislatore non ha previsto per il giudizio di Cassazione una norma limitativa analoga a quella dettata, per il giudizio d’appello, dall’art. 344 c.p.c.". p.1.2. Il Collegio ritiene che l’ammissibilità dell’intervento del successore a titolo particolare nel diritto controverso nel giudizio di legittimità introdotto contro il suo dante causa dall’altra parte debba ritenersi configurabile al di là della questione della riconducibilità della figura del successore a quella del terzo titolare di un rapporto dipendente cui allude l’art. 105 c.p.c., comma 2, oppure – come pare doversi preferire – ad una figura particolare di intervento, disciplinata dalla norma che alla successione nel diritto controverso espressamente si riferisce, cioè l’art. 111 c.p.c..

L’ammissibilità anche nel giudizio di legittimità deve ritenersi come portato sia della previsione generale della possibilità dell’intervento o della chiamata in causa senza limitazioni, sia come implicazione necessaria della stessa legittimazione all’impugnazione della sentenza emessa o confronto del dante causa, riconosciuta al successore.

Sotto il primo aspetto, se la successione ha riguardato il diritto controverso dal lato attivo e la sentenza impugnata in cassazione abbia dato ragione al dante causa, deve ritenersi che la controparte convenuta, nel proporre il ricorso per cassazione, ove abbia notizia della successione, possa "chiamare" in causa il terzo notificando anche a lui il ricorso per cassazione oltre che al dante causa.

Per converso, se detta parte, o per sua scelta, o per ignoranza del fenomeno successorio, proponga il ricorso solo nei riguardi del dante causa, come accaduto nella specie, deve ritenersi che il successore possa intervenire nel processo di cassazione, ove ne abbia conoscenza.

La mancanza di una previsione di un simile intervento nella disciplina del processo di cassazione si spiega perchè l’intera disciplina della vicenda della successione nel diritto controverso è regolata dalla norma dell’art. 111 c.p.c., che, quale norma generale contenuta nelle disposizioni del libro primo del c.p.c. deve trovare applicazione anche al giudizio di cassazione, in mancanza di indici contrari alla sua compatibilità con la sua logica.

Tali indici contrari mancano sub specie di indici espressi, a differenza di quanto si evince, invece, per la disciplina dell’intervento volontario di cui all’art. 105 c.p.c., riguardo al quale l’esclusione dell’intervento in sede di legittimità si spiega come implicazione del fatto che nel giudizio di appello il legislatore ha espressamente limitato ad una sola figura l’ammissibilità dell’intervento ai sensi dell’art. 105 c.p.c. (art. 344 c.p.c.), così mostrando di considerare applicabile al solo giudizio di primo grado la normativa di cui all’art. 105 c.p.c..

Indici contrari mancano anche sotto il profilo di una ontologica incompatibilità dell’intervento del successore con la logica del giudizio di cassazione.

Si potrebbe, invero, pensare che, dovendo il successore dimostrare la propria posizione di successore nel processo di cassazione tale dimostrazione non potrebbe essere fornita, perchè l’art. 372 c.p.c. non ammette la produzione di nuovi documenti e non v’è possibilità di svolgimento di un’istruzione. Ma l’obiezione è superabile osservando che la posizione dell’interveniente successore va considerata come quella del dante causa, che, intimato dal ricorso, vi debba resistere: l’art. 372 lo ammette a depositare i documenti che riguardano l’ammissibilità del controricorso e, pertanto, la stessa facoltà, abbia o non abbia l’intimato dante causa resistito al ricorso, deve riconoscersi al successore che voglia intervenire facendo valere detta qualità. In sostanza, egli può essere ammesso a depositare i documenti comprovanti la sua qualità e, quindi la successione, perchè essi afferiscono all’ammissibilità del suo ingresso nel processo non diversamente da quelli che dovrebbero evidenziare l’ammissibilità di un controricorso. p.1.3. Va, a questo punto, considerato che nella specie l’intervento è avvenuto con un atto denominato controricorso, che è stato, tuttavia, notificato soltanto alla ricorrente.

Sotto tale profilo l’intervento della CFT non ha rispettato in modo completo la forma che il procedimento di cassazione prevede per la costituzione nel giudizio di legittimità, salvo il caso di cui all’ultima parte dell’art. 370 c.p.c., comma 1 (che, però, riguarda soltanto la parte già entrata nel giudizio di cassazione perchè destinataria della proposizione del ricorso), cioè la notificazione di un atto alla controparte ed il successivo suo deposito.

Poichè l’intervento del terzo comporta la deduzione di tale posizione nei confronti di entrambe le parti principiali, cioè sia del ricorrente che dell’intimato il necessario rispetto del principio del contraddittorio comporta che l’atto debba essere notificato all’una ed all’altra.

Si rileva che recentemente per la forma dell’intervento nel giudizio di cassazione del successore a titolo universale si è così statuito: "Nel caso di morte della parte durante il giudizio di legittimità, avvenuta dopo la sua costituzione in giudizio mediante deposito del ricorso o del controricorso, il successore ha facoltà di intervenire nel giudizio, con un atto avente natura sostanziale di atto di intervento (nel quale può essere rilasciata la procura a difensore iscritto nell’albo speciale) che deve essere notificato alla controparte, in vista dell’assicurazione del contraddittorio sulla nuova manifestata legittimazione, non potendo l’intervento detto aver luogo con il mero deposito di un atto nella cancelleria della S.C. e stante l’esigenza di assicurare a tale atto una forma simile a quella del ricorso e del controricorso. Tuttavia, la nullità derivante dall’omissione della notificazione è sanata se le controparti costituite accettino il contraddittorio senza eccezioni." (Cass. n. 7441 del 2011).

Nella fattispecie che si giudica trattandosi di intervento del successore a titolo particolare nel diritto controverso, l’atto doveva notificarsi a tutte e due le parti principali.

Non essendosi costituito il soggetto intimato l’omessa notificazione nei suoi riguardi non risulta in alcun modo accettata.

Nè può considerarsi accettata dal soggetto che quale mandatario del soggetto intimato si è costituito in udienza, perchè, come si vedrà di seguito, la sua costituzione dovrà dichiararsi inammissibile.

Nemmeno è possibile immaginare che all’omessa notificazione si debba rimediare con un ordine di notificazione, se del caso considerando la situazione determinata dall’intervento come riconducibile analogicamente lato sensu all’art. 331 c.p.c., cioè ad una sorta di litisconsorzio necessario processuale determinato dal fatto che l’intervento si svolge in confronto di entrambe le parti originarie.

L’art. 331 c.p.c. è, infatti, norma che concerne l’esercizio del diritto di impugnazione e che, dunque, non si può estendere all’intervento nel processo altrui. p.1.4. Il "controricorso" della CFT Finanziaria, che pure sarebbe stato ammissibile quale atto di intervento consentito ai sensi dell’art. 111 c.p.c. anche nel giudizio di legittimità, deve, dunque, ritenersi inammissibile in quanto non notificato a tutte le parti originarie del giudizio di legittimità. Ciò alla stregua del seguente principio di diritto: "Nel processo di cassazione è ammissibile l’intervento del soggetto che sa succeduto a titolo particolare nel diritto controverso nel corso del giudizio di merito.

Esso deve avvenire con atto notificato alle parti principali.

L’omissione della notifica ad una di esse lo rende inammissibile, salvo che la parte cui l’atto non è stato notificato accetti di contraddire".

Inammissibile è, di conseguenza, anche la memoria presentata dalla CFT. p.1.5. La legittimità della partecipazione al giudizio della CFT è stata contestata dalla M. nella sua memoria quanto alla sussistenza della sua successione nella situazione giuridica controversa, ma la questione resta a questo punto assorbita. p.1.6. Prima, però, di tale contestazione la ricorrente nella memoria ha sollevato un’ulteriore questione che afferisce alla pretesa necessità di disporre l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c. nei confronti della Banca Monte dei Paschi di Siena, quale successore a titolo universale per fusione mediante incorporazione, della Banca Antonveneta s.p.a., nei cui riguardi è stato proposto il ricorso.

Con la sua memoria ex art. 378 c.p.c., l’Avvocato M. ha, infatti, allegato atto notarile del 22 dicembre 2008 (assciitamente prodotto ai sensi dell’art. 372 c.p.c.) dal quale risulta che la Banca Antonveneta s.p.a. si è fusa per incorporazione nella Banca Monte dei Paschi di Siena. L’evento risulta essersi verificato nel corso del giudizio di appello senza comunicazione alla controparte.

Ora, nella memoria, dopo essersi argomentato che la notificazione del ricorso alla Banca Antonveneta s.p.a. nonostante l’intervenuta incorporazione della stessa da parte del Monte dei Paschi di Siena sarebbe stata legittima alla stregua di Cass. n. 19509 del 2010 (in quanto la verificazione dell’incorporazione era stata sottaciuta nel giudizio di appello), si sostiene innanzitutto che solo il Monte dei Paschi di Siena sarebbe il soggetto legittimato a partecipare al giudizio quale successore a titolo universale della Banca Antonveneta ed all’uopo, facendosi riferimento ad altri atti sempre prodotti ai sensi dell’art. 372 c.p.c., ci si preoccupa di dimostrare che legittimata passivamente al ricorso non potrebbe essere l’attuale Banca Antonveneta s.p.a., soggetto che assunse tale denominazione dopo essere stato denominato Nuova Banca Antonveneta s.p.a., immediatamente dopo il verificarsi – sempre con atto notarile del 22 dicembre 2008, ma produttivo di effetti un minuto dopo quello dispositivo della fusione della Banca Antoniana Popolare Veneta nel Monte dei Paschi – del conferimento ad essa del ramo d’azienda facente capo alla Banca incorporata. Per effetto di tale conferimento, cui peraltro, sarebbe rimasto estraneo il credito oggetto di giudizio, si sarebbe verificata, infatti, sostiene la ricorrente, una successione a titolo particolare e non a titolo universale, onde il soggetto legittimato passivo al ricorso quale successore universale della vecchia Banca Antoniana Popolare Veneta continuerebbe ad essere la Banca Monte dei Paschi di Siena, nei cui riguardi nella memoria si è chiesta l’integrazione del contraddittorio. Infatti, sostiene la ricorrente, la nuova Banca Antonveneta s.p.a., che ha assunto tale denominazione dopo essersi denominata Nuova Banca Antonveneta s.p.a,, non coinciderebbe in alcun modo con la vecchia Banca Antoniana Popolare Veneta s.p.a. denominata in forma abbreviata Banca Antonveneta s.p.a., atteso che essa si sarebbe estinta per effetto della incorporazione nel Monte dei Paschi di Siena, che solo dopo la fusione avrebbe conferito il relativo ramo d’azienda alla diversa e precostituita Nuova Banca Antonveneta s.p.a.

Ciò, evidentemente, viene dedotto nella supposizione che il presente processo di impugnazione, pur essendosi costituita mediante l’intervento la società che nel corso del giudizio di appello sarebbe succeduta a titolo particolare dal lato attivo, debba comunque svolgersi anche nel contraddittorio del soggetto dante causa di detta società e, quindi, del suo successore a titolo universale (sulla questione della necessaria presenza nel giudizio di impugnazione dell’alienante del diritto controverso e dell’acquirente, si veda Cass. n. 2707 del 2005). p.1.6.1. Ora, con le richiamate allegazioni la M. svolge delle enunciazioni che si collocano del tutto al di fuori della logica del contenuto della memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., perchè esse si risolvono nella deduzione del tutto nuova che il legittimato passivo all’impugnazione sarebbe stato individuato erroneamente dalla stessa ricorrente, cioè senza considerare la vicenda dell’incorporazione della Banca Antonveneta s.p.a. nel Monte dei Paschi di Siena.

Si tratta di un’allegazione che non è in alcun modo funzionale a dimostrare l’ammissibilità del ricorso, posto che, per un verso la situazione di incorporazione non risulta emersa all’atto della notificazione del ricorso, che venne effettuata al difensore costituito per l’Antonveneta nel giudizio di appello e da lui ricevuta, per altro verso essa non risulta nemmeno dedotta (salva la precisazione di cui si dirà di seguito) dalla parte che è intervenuta nel presente processo di legittimità quale successore ai sensi dell’art. 111 e che, peraltro, lo ha fatto con il ministero dello stesso difensore dell’Antonveneta nel giudizio di appello.

Semmai si tratta di un’allegazione che, in modo contrario all’interesse della stessa M., evidenzierebbe un possibile problema inerente l’esatta individuazione della destinataria del ricorso e, di riflesso, della stessa sua notificazione.

Inoltre, seguendo per un momento l’idea della M. che l’incorporazione della Banca Antonveneta nel Monte dei Paschi abbia determinato un fenomeno di successione per estinzione della prima, posto che in sede di esercizio del diritto di impugnazione la parte che esercita tale diritto è tenuta ad accertarsi che il soggetto contro il quale il giudizio deciso dalla sentenza impugnata non sia stato interessato da fenomeni che ne abbiano determinato l’estinzione e la successione di altro soggetto (Cass. sez. un. n. 15783 del 2005) si dovrebbe rilevare che nella memoria non si dice alcunchè sul se l’evento della incorporazione che vi si descrive fosse stato conoscibile o meno (tramite l’iscrizione nel registro delle imprese o aliundè) al momento della proposizione del ricorso ovvero.

In realtà, l’idea che è sottesa alla prospettazione della M., cioè che per effetto dell’incorporazione de qua si sia verificata una successione a titolo universale, non ha fondamento.

L’inesistenza della pretesa successione a titolo universale emerge perchè – in ragione della data dell’incorporazione – è applicabile la disciplina dell’art. 2504-bis nel testo attualmente vigente ed entrato in vigore il 1 gennaio 2004.

In dipendenza di tale applicazione è rilevante il seguente principio di diritto: "A seguito della nuova formulazione dell’art. 2504 bis cod. civ., introdotta per effetto del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 (in vigore a decorrere dal 1 gennaio 2004), in base al cui primo comma la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali anteriori alla fusione, la fusione configura una vicenda meramente evolutivo-modificativa del medesimo soggetto giuridico (allo stesso modo di quanto avviene con la trasformazione), senza la produzione di alcun effetto successorio ed estintivo, con la conseguenza che essa, implicando ora anche la continuità nei rapporti processuali, non comporta più, a norma degli artt. 110, 299 e 300 cod. proc. civ., interruzione del processo in cui sia parte una società partecipante, per l’appunto, ad una fusione. (Nella specie, la S.C., alla stregua del principio enunciato, ha rigettato l’eccezione della società assicuratrice resistente che aveva eccepito l’inammissibilità del ricorso per cassazione per essere stato lo stesso notificato, nella vigenza del nuovo art. 2504 bis cod. civ., alla società assicuratrice convenuta nel grado di merito quando ormai era estinta perchè incorporata successivamente per fusione da altra società)".

(Cass. n. 14526 del 2006; principio in precedenza affermato da Cass. sez. un. n. 2637 del 2006 ed avallato da Cass. sez. un. n. 19509 del 2010 (si veda la seconda proposizione del paragrafo n. 2 della motivazione).

Ne deriva che, poichè la fusione di società per incorporazione verificatasi sotto il vigore dell’attuale testo dell’art. 2504-bis da luogo ad una vicenda evolutivo-modificativa del medesimo soggetto giuridico (allo stesso modo di quanto avviene con la sua trasformazione), senza che si produca alcun effetto successorio ed estintivo del soggetto incorporato, sia allorchè l’evento si sia verificato prima della sentenza impugnata, sia allorchè si sia verificato nella pendenza del termine di impugnazione deve ritenersi che l’esercizio del diritto di impugnazione – a meno che l’evento non sia stato portato a conoscenza della controparte o durante lo svolgimento processuale o tramite la notificazione della sentenza e la sua dichiarazione con una diversa elezione di domicilio ai sensi dell’art. 330 c.p.c., comma 1, – avviene correttamente indirizzando l’impugnazione al soggetto incorporato e, quindi, se egli si era costituito, presso il procuratore ai sensi dell’art. 170 c.p.c. Se il soggetto incorporato sia stato contumace, occorrerà invece fare riferimento all’art. 330, u.c., ed in quel caso, essendo a parte che esercita il diritto di impugnazione onerata di individuare la sede del soggetto cui indirizzare la notificazione potrà accadere che, se dell’incorporazione sia stata fatta la pubblicità nel registro delle imprese, chi esercita il diritto di impugnazione venga a trovarsi nella condizione di conoscere l’evento e, quindi, di dover indirizzare l’impugnazione all’incorporante presso la sua sede.

Nel caso di specie, poichè la Banca Antonveneta era costituita nel giudizio di appello e l’evento della incorporazione non venne dichiarato dal suo difensore con l’eventuale indicazione di un nuovo domicilio, correttamente e ritualmente il ricorso è stato notificato all’ente incorporato presso quel difensore e nel domicilio a lui riferibile ai sensi dell’art. 170 c.p.c..

Il contraddittorio risulta, dunque, ritualmente instaurato e non v’è alcuna integrazione ai sensi dell’art. 331 c.p.c. da effettuare e nemmeno alcun problema di ritualità della notificazione della impugnazione di cui ci si debba fare carico. E ciò senza che occorra considerare il rilievo – ove ammissibile – della costituzione all’udienza pubblica di un mandatario della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a..

Le allegazioni della M. in ordine alla rilevanza dell’incorporazione ed alle sue conseguenze sul presente ordine processuale sarebbero, dunque, prive di fondamento. p.1.6.2. Come s’è già adombrato esse sono, però, preliminarmente da considerare inammissibili perchè prospettanti questioni del tutto al di fuori dei limiti assegnati al potere della parte di dedurre con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

E’, infatti, principio consolidato che "Nel giudizio civile di legittimità, con le memorie di cui all’art. 378 cod. proc. civ., destinate esclusivamente ad illustrare e chiarire le ragioni già compiutamente svolte con l’atto di costituzione ed a confutare le tesi avversarie, non è possibile specificare od integrare, ampliandolo, il contenuto delle originarie argomentazioni che non fossero state adeguatamente prospettate o sviluppate con il detto atto introduttivo, e tanto meno, per dedurre nuove eccezioni o sollevare nuove questioni di dibattito, diversamente violandosi il diritto di difesa della controparte in considerazione dell’esigenza per quest’ultima di valersi di un congnio termine per esercitare la facoltà di replica." (ex multis, così Cass. sez. un. n. 11097 del 2006).

Nè potrebbe sostenersi che i limiti individuati da tale principio nella specie non sarebbero dovuti valere vertendosi in tema di questione rilevabile anche d’ufficio da questa stessa Corte: è sufficiente osservare che una cosa è l’ammissibilità del rilievo da parte della Corte di una questione rilevabile d’ufficio, tanto più se afferente alla stessa ritualità del processo di cassazione, altra è l’introduzione nel processo di legittimità della circostanza fattuale che evidenzi giuridicamente la questione. Nel processo di cassazione non si possono introdurre nuovi fatti pur rilevanti ai fini della ritualità del processo se la situazione concernente tale ritualità che li rende rilevanti non sia emergente dalla sentenza impugnata e dagli atti di costituzione delle parti, cioè dal ricorso e dal controricorso: è questo il senso implicito nella previsione dell’art. 372 c.p.c. che ammette la produzione di nuovi documenti e, quindi, della rappresentazione dei fatti che vi sono documentati, se riguardano la nullità della sentenza impugnata o l’ammissibilità del ricorso o del controricorso. In tanto il documento e, quindi, il fatto che esso rappresenta può essere introdotto nel processo di cassazione, in quanto sia funzionale alla discussione sulla nullità della sentenza o sull’ammissibilità o inammissibilità del ricorso o del controricorso e, quindi, a condizione che tali questioni siano già emerse dalla sentenza e da detti atti. Il nuovo documento e, quindi, il fatto che esso rappresenta, deve, cioè servire ai fini della decisione su una questione di nullità della sentenza impugnata o di ammissibilità/inammissibilità del ricorso o del controricorso che risulti già emersa nel processo di cassazione. Se una simile questione non sia emersa ammettere la produzione di documenti e, quindi, l’introduzione dei fatti che vi sono rappresentati, per porre una questione del tutto nuova equivarrebbe a riaprire i termini per le allegazioni che dovevano farsi già con gli atti introduttivi delle difese e ciò in modo del tutto contrario alla previsione dello svolgimento di essi, cioè del ricorso e del controricorso, con contenuti e termini prescritti a pena di inammissibilità. p.1.6.3. Va, a questo punto considerata, tuttavia, un’ulteriore questione, per valutare se la sua soluzione possa, pur nell’ottica appena enunciata e, quindi, nonostante il principio appena enunciato, rendere rituali le allegazioni della M. circa la vicenda dell’incorporazione.

Tale questione discende dalla circostanza che il fatto della incorporazione venne introdotto seppure anodinamente dal soggetto che è intervenuto nel processo come successore a titolo particolare, cioè la CFT Finanziaria s.p.a., là dove essa ebbe a depositare in data 2 agosto 2011 la "memoria" con la quale allegava di avere nominato due nuovi difensori in sostituzione del precedente, tramite allegata scrittura privata autenticata. Tale memoria, infatti, venne notificata, unitamente ai documenti (nel rispetto dell’art. 372 c.p.c.) oltre che alla M. alla Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. (presso la sua sede), in qualità di incorporante la Banca Antonveneta s.p.a.: questa circostanza non risulta indicata nella memoria, ma emerge dalla relativa relata di notificazione della stessa e degli atti con essa prodotti. Peraltro, essa non viene in alcun modo collocata temporalmente, per cui il lettore della relata acclusa alla memoria non è posto in alcun modo in grado di percepire se l’incorporazione sia avvenuta prima della proposizione del ricorso o durante la pendenza del giudizio di cassazione.

Ebbene è da domandarsi se l’introduzione di quel fatto con quella memoria possa avere determinato l’insorgenza in modo rituale di un’eventuale questione ad esso connessa, cioè della questione della legittimità o meno della proposizione e della notificazione del ricorso alla società incorporata.

La risposta dev’essere negativa per l’assoluta incertezza del rilievo della indicata incorporazione in quel senso, attesa la mancanza di collocazione temporale dell’evento. Poichè tale collocazione difettava non emergeva in alcun modo l’insorgenza della questione poco sopra indicata. Se, poi, l’evento fosse stato collocato temporalmente l’allegazione sarebbe stata irrituale: invero, la deduzione della incorporazione sarebbe stata possibile fin dal controricorso, dato che l’incorporazione si era verificata nel giudizio di appello e, dunque, non poteva essere consentita, ammesso che la notificazione potesse considerarsi come un’allegazione implicita, con la memoria e ciò nuovamente per i limiti delle memorie di cui all’art. 378 c.p.c.. Non solo: quella che la CFT chiama memoria non avrebbe potuto depositarsi come atto contenente allegazioni e, quindi, come memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.:

non essendo stata ancora fissata l’udienza pubblica non poteva depositarsi memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.. Essa poteva valere ed in effetti lo fu solo come atto esplicativo del deposto degli atti giustificativi del nuovo ministero e segnatamente della procura.

Dunque, nessuna – pur infondata – questione afferente alla ritualità della proposizione del ricorso in ragione della incorporazione era entrata nel presente giudizio di legittimità tramite l’attività svolta dall’interveniente con la cennata "memoria". p.1.6.4. Deve, in conclusione, ritenersi inammissibile la questione (comunque gradatamele infondata) sollevata dalla M. con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. circa il rilievo della incorporazione. p.2. Ulteriore questione preliminare che deve a questo punto affrontarsi riguarda la ritualità della costituzione nella pubblica udienza di un soggetto, la Prelios Credit Servicing s.p.a., che quale mandataria del Monte dei Paschi di Siena si è costituito con procura speciale notarile per scrittura privata autenticata tramite una mandataria.

In particolare, nella detta procura la Prelios Credit Servicing s.p.a., dopo avere dichiarato di essere già stata denominata Pirelli Re Credit Servicing s.p.a., ha dichiarato di agire non in proprio, bensì quale procuratrice della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. in forza di una procura speciale rilasciata a suo tempo il 29 novembre 2007 dalla Banca Antonveneta s.p.a. (già Banca Antoniana Popolare Veneta s.p.a.), confermata da Banca Monte dei Pschi di Siena s.p.a. con atto pubblico di fusione per l’incorporazione di Banca Antonveneta s.p.a. del 22 dicembre 2008.

Unitamente a tale procura detto soggetto ha prodotto tre atti, il primo rappresentato da estratto del verbale di consiglio di amministrazione al fine di giustificare i poteri di chi ha rilasciato la procura ad litem, il secondo dalla procura speciale conferente il mandato ad agire rilasciata dalla Banca Antonveneta s.p.a., già Banca Antoniana Popolare Veneta s.p.a. con atto pubblico del 29 novembre 2007 ed il terzo da atto pubblico del 22 dicembre 2008 di fusione per incorporazione della Banca Antonveneta s.p.a. nel Monte dei Paschi di Siena confermativo della procura pregressa.

Parte ricorrente ha contestato in udienza la legittimità di tale costituzione delle relative produzioni. p.2.1. La contestazione è fondata.

Sotto un primo profilo, una volta che si consideri, come s’è argomentato sopra, che l’introduzione formale del ricorso contro la Banca incorporata fu pienamente rituale, si deve considerare che, una volta ricevuta la notificazione del ricorso da quest’ultima, se il soggetto incorporante nel quale essa vedeva continuare la sua soggettività avesse voluto manifestarne la nuova dimensione, bene avrebbe potuto farlo provvedendo a notificare controricorso.

Non avendolo fatto, v’è da domandarsi se in una tale situazione il soggetto incorporante possa beneficare della previsione della seconda parte dell’art. 370 c.p.c., comma 1, che legittima il soggetto intimato con il ricorso per cassazione che non abbia esercitato il contraddicono notificando tempestivo controricorso a partecipare alla discussione nell’udienza, naturalmente tramite difensore munito di procura, che a questo punto dev’essere rilasciata con atto notarile o scrittura privata autenticata.

Il Collegio ritiene che tale possibilità debba negarsi, in quanto siffatta costituzione postula necessariamente un’attività di allegazione della incorporazione, dovendo il soggetto incorporante enunciare necessariamente la relativa vicenda e tanto richiedendo, dunque, un’attività che non si configura soltanto come partecipazione alla discussione e che non risulterebbe giustificata nemmeno come dipendente da una sopravvenienza rispetto alla scadenza del termine per notificare il controricorso.

In secondo luogo, se anche non si ritenesse un ostacolo alla costituzione del soggetto incorporante in udienza, dovendo la sua legittimazione essere documentata tramite la produzione dell’atto di incorporazione, si dovrebbe ritenere necessario che tale atto venga prodotto nel rispetto dell’art. 372 c.p.c., comma 2, cioè previa notificazione del relativo elenco ala controparte o alle controparti costituite.

Nella specie si è, inoltre, costituito un soggetto mandatario del legittimato sostanziale società incorporante e, quindi, l’onere di allegazione ha riguardato pure tale circostanza e l’onere di rispetto dell’art. 372, comma 2, concerneva anche il conferimento del mandato.

Si deve anzi ritenere che la norma dell’art. 370, comma 1, ultima parte, là dove ammette l’intimato che non abbia notificato controricorso o l’abbia notificato tardivamente e, quindi, inammissibilmente, non consenta di ammetterlo ad attività di produzione di documenti pur nel rispetto dell’art. 372 c.p.c. atteso che la norma lo legittima solo a partecipare alla discussione e dev’essere ritenuta di stretta interpretazione (si veda Cass. n. 3054 del 1978, secondo cui "Il resistente che non si e costituito con controricorso può soltanto partecipare alla discussione orale, ma non può produrre documenti nuovi nel giudizio di Cassazione, neppure al fine di fare valere l’inammissibilità del ricorso principale.";

in precedenza Cass. n. 1862 del 1965, secondo cui "il deposito di documenti non e consentito, nemmeno al limitato effetto di dedurre e comprovare l’inammissibilità del ricorso, a chi non abbia depositato controricorso.").

Del resto, s’è già veduto che l’art. 372 c.p.c. consente produzioni nuove relative alla ammissibilità del ricorso o del controricorso se una questione in questo senso sia insorta nel processo di cassazione attraverso gli atti di costituzione tempestiva e sarebbe contradditorio ammetterne l’applicazione ad atti che servono a dimostrare la legittimazione alla costituzione, salvo la procura del difensore. Consegue che, se anche la costituzione – in ipotesi denegata – fosse ammissibile sotto il profilo della attività di allegazione, tale attività non risulterebbe dimostrata, in quanto i documenti prodotti a questo scopo sarebbero da considerare prodotti irritualmente, stante la contestazione svolta in udienza dalla ricorrente.

Soltanto la produzione della procura ad litem effettuata dalla Prelios Credit Servicing s.p.a. sarebbe ammissibile, in quanto è stato già ritenuto che "Per il disposto dell’art. 370 cod. proc. civ. la parte contro la quale è diretto il ricorso per cassazione e che non abbia proposto controricorso, può partecipare alla discussione orale senza che occorra, a tali limitati fini, che la procura speciale al difensore venga previamente notificata al ricorrente." (Cass. n. 875 del 2001). Ma a questo punto essa resterebbe priva di giustificazioni in punto di legittimazione della medesima.

Giusta le considerazioni svolte, la costituzione della Prelios e, quindi, la partecipazione all’udienza di essa come mandataria del Monte dei Paschi di Siena deve, dunque, considerarsi inammissibile e tamquam non esset. p.3. Con il primo motivo di ricorso la M. deduce "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., comma 5)", ma, in realtà la sua illustrazione si articola con una serie di censure che si correlano via via ai motivi di appello che la medesima aveva proposto. p.3.1. Una prima censura si riferisce al primo motivo di appello, che si dice intitolato "del pegno delle azioni" e nel quale si asserisce essere stati svolti "una lunga serie di ragionamenti logici, partendo dal presupposto che la conferma e l’estensione del vincolo pignoratizio sottoscritte dalla (….) non costituissero una novazione, atteso che la garanzia era stata già concessa dal signor R. e la banca la aveva accettata e ritenuta idonea". Si dice, poi, che "partendo da tale presupposto, l’atto di appello aveva cercato di dimostrare, con argomentazioni logico-giuridiche e con il riferimento alla documentazione in atti, diversi punti essenziali per la controversia: a) la mancanza di prove in atti che potessero far ritenere che la attuale ricorrente avesse partecipato alle trattative e che si fosse attivata per far concedere ulteriori finanziamenti al signor R.; b) l’assoluta inesistenza di prove idonee a sostenere la tesi secondo la quale la banca sarebbe stata indotta a concedere i finanziamenti da comportamenti riconducibili all’avv. M., avendo la banca potuto accuratamente valutare e di fatto valutato in precedenza la garanzia offerta; e) la conseguente inesistenza del nesso di causalità tra gli atti sottoscritti dall’avv. M. ed il danno lamentato".

Dopo queste affermazioni l’illustrazione del motivo si sviluppa in questi termini:

aa) si sostiene che la sentenza della Corte meneghina "appare del tutto sprovvista di motivazione nel rigettare, in modo errato e superficiale e senza alcun ragionamento ad esse attinente, le argomentazioni svolte nel primo motivo, perchè si sarebbe limitata ad affermare che il Tribunale ha qualificato le lettere sottoscritte da M. non già alla stregua di atti costitutivi di una nuova garanzia in aggiunta ad un pegno già esistente, ma come (progressive) estensioni di quest’ultimo, come si lege a pag. 6 e 7 della sentenza appellata, e, quindi non le ha qualificate nuove garanzie";

bb) quindi si asserisce che la sentenza di primo grado non avrebbe avuto tale contenuto nelle dette pagine, ma ne avrebbe avuto un altro, onde la Corte territoriale le avrebbe attribuito un contenuto non corrispondente a quello effettivo ed anzi si dice – ma senza alcuna spiegazione – che la stessa cosa avrebbe fatto rispetto all’atto di appello;

cc) si dice, poi, che la sentenza di primo grado aveva omesso "di esprimere in modo esplicito una valutazione giuridica sulla natura degli atti di conferma e di estensione del pegno preesistente, sicchè era legittimo nell’atto di appello approfondire tale problematica", ma, immediatamente di seguito si asserisce testualmente che "tuttavia, non era questo l’argomento che la sentenza di appello avrebbe dovuto contrastare: infatti l’atto di appello non censurava la sentenza di primo grado su tale punto, tendendo solo a chiarire un elemento rimasto oscuro e incerto, in quanto del tutto omesso nella sentenza stessa";

dd) si dice, quindi, che il fatto su cui la sentenza impugnata si sarebbe soffermata, cioè che le estensioni del pegno non fossero novazioni o nuove garanzie, "era la base di partenza per una serie di argomentazioni finalizzate a dimostrare la mancanza del nesso di causalità, argomentazioni sulle quali la Corte nulla dice" e si sostiene "in sintesi" che la Corte non avrebbe fornito "motivazione idonea a dimostrare" come, nonostante la mancanza di valore no vati vo nelle estensioni del pegno, potesse ritenersi sussistente il nesso di causalità ex art. 2043 c.c. "al fine di rigettare l’appello proposto"; di modo che la motivazione della sentenza stessa sarebbe contraddittoria perchè, pur condividendo l’esclusione del carattere no vati vo delle dette estensioni, non avrebbe fornito una "valida motivazione per rigettare tutte le argomentazioni e le deduzioni che l’appellante aveva dedotto quali logiche conseguenze di tale presupposto ed in forza della documentazione in atti". p.3.1.1. La prima censura così illustrata (fino all’inizio della pagina 14 del ricorso) appare inammissibile sotto vari profili.

Il primo è che, come emerge dall’intera sua illustrazione non prospetta vizi della sentenza impugnata relativi alla ricostruzione della cd. quaestio facti come avrebbe dovuto per corrispondere alla sua indicazione come motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

La censura, in realtà, si sostanzia nell’addebitare alla Corte territoriale di non avere esaminato e, quindi, di avere omesso di esaminare, le argomentazioni svolte con il primo motivo di appello per lamentare che, non potendo considerarsi le estensioni del pegno come novazioni o nuove garanzie, non risultava dimostrato il nesso di causalità fra il danno e l’estensione del pegno assentita dalla M..

Il motivo avrebbe dovuto allora prospettare violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 per non avere la Corte territoriale effettivamente esaminato il motivo di appello prospettane le dette argomentazioni (al riguardo va ricordato che "In tema di ricorso per cassazione, la denuncia di un error in indicando, per violazione di norme di diritto sostanziale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, o per vizi della motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, presuppone che il giudice di merito abbia preso in esame la questione prospettatagli e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto, e consente alla parte di chiedere, ed al giudice di legittimità di effettuare, una verifica in ordine alla correttezza giuridica della decisione ed alla sufficienza e logicità della motivazione, sulla base del solo esame della sentenza impugnata; tale censura non può pertanto riguardare l’omessa pronuncia del giudice di secondo grado in ordine ad uno dei motivi dedotti nell’atto di appello, la quale postula la denuncia di un error in procedendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, in riferimento al quale il giudice di legittimità può esaminare anche gli atti del giudizio di merito, essendo giudice anche del fatto, inteso in senso processuale": Cass. n. 24856 del 2006, ex multis; in una logica non dissimile si vedano Cass. n. 12952 del 2007; 25852 del 209). p.3.1.2. Se non fosse già assorbente tale mancanza di corrispondenza dell’illustrazione alla sostanza del motivo per come indicato e, in ipotesi, fosse possibile intendere il motivo nella sua effettività, resterebbe comunque carente l’indicazione della norma violata, che avrebbe dovuto essere l’art. 112 c.p.c.. p.3.1.3. Inoltre, gradatamente (ma sempre superfluamente) la censura si connoterebbe come inammissibile perchè non risulta rispettata la norma dell’art. 366 c.p.c., n. 6 sotto un duplice profilo.

Il primo è che non si è riprodotto il tenore del motivo di appello nel quale sarebbero state riportate le argomentazioni che si assumono non esaminate, mentre, se anche quanto riportato sopra sub a), b) e c) si volesse considerare come una riproduzione riassuntiva indiretta, nonostante l’estrema genericità di quanto vi si asserisce, comunque l’indicazione specifica avrebbe supposto almeno la specificazione della o delle pagine dell’atto di appello, nelle quali l’indiretta riproduzione. In mancanza questa Corte dovrebbe procedere – del tutto inammissibilmente e con l’oggettivo rischio di non trovare ciò cui la ricorrente intendeva riferirsi o di incorrere in fraintendimenti e con inammissibile supplenza agli oneri che il ricorrente in cassazione deve soddisfare nella formulazione del motivo di ricorso – a cercare nell’atto di appello ciò che potrebbe corrispondere a quanto soltanto genericamente indicato dalla ricorrente.

Sotto un secondo aspetto la censura fa riferimento anche a documenti, riguardo ai quali non fornisce l’indicazione specifica sempre ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

Infatti, non riproduce il contenuto della sentenza di primo grado per la parte che interessa e non indica se e dove l’atto sia stato prodotto e sia esaminabile in questa sede (ed all’uopo a nulla vale che la sentenza sia riprodotta nella sentenza impugnata, atteso che l’onere di cui all’art. 366, n. 6 dev’essere assolto a pena di inammissibilità e, quindi, senza che soccorrano altri atti, con il ricorso), nè lo riproduce in modo sufficiente almeno in modo indiretto e sempre fornendo la precisazione sul se e dove esso sia stato prodotto e sia esaminabile in questa sede. In tal modo non rispetta le prescrizioni della consolidata giurisprudenza di questa Corte sull’esegesi della suddetta norma: ex multis Cass. (ord.) n. 22303 del 2008, Cass. sez. un. n. 28547 del 2008 e n. 7161 del 2010).

Inoltre, pur integrando l’illustrazione con l’esposizione del fatto, quanto ad altri atti, quali le estensioni di garanzia, ferma la mancanza di una loro riproduzione diretta od indiretta (salvo la riproduzione di due parti del doc. 4 di controparte alla pagina 4, la prima delle quali parrebbe pertinente), si fornisce l’indicazione della produzione nel fascicolo di primo grado della controparte, ma essa è relativa alla produzione nel giudizio di merito.

Nulla si dice quanto al come si intenda adempiere al requisito di cui all’art. 366, n. 6 riguardo al presente giudizio di legittimità, non precisandosi, i particolare, se si intenda fare riferimento ad essi in quanto prodotti in questa sede dalla controparte, ove costituita.

E nemmeno alcunchè si dice sul se si sia inteso fare riferimento alla presenza del fascicolo della controparte nel fascicolo d’ufficio del giudizio di appello e, quindi, nel presupposto che esso non risultasse ritirato, al suo pervenimento presso questa Corte all’interno del detto fascicolo d’ufficio.

Precisazioni che erano necessarie per adempiere all’onere di cui alla norma in discorso.

Va, poi, considerato, sotto un profilo diverso da quello di cui a detta norma, che la controparte cui si fa riferimento, cioè la Banca che era stata parte nel giudizio di appello, non si è costituita in questa sede. Sicchè, se pure si dovesse intendere che la M. abbia inteso adempiere all’onere di indicazione specifica quanto alla sede in cui essi sarebbero esaminabili in questo giudizio di legittimità nel senso di volersi riferire alla produzione che ne avrebbe potuto fare la controparte, deve considerarsi che tale produzione non è avvenuta.

Poichè, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 la ricorrente era onerata comunque di produrre cautelativamente i documenti presenti nel fascicolo avversario (come ha ribadito Cass. sez. un. n. 22726 del 20011 per il giudizio ordinario, testualmente richiamando il passo motivazionale di Cass. sez. un. n. 28547, secondo cui "se il documento risulti prodotto nelle fasi di merito dalla controparte, è necessario che il ricorrente indichi che il documento è prodotto nel fascicolo del giudizio di merito della controparte e che – cautelativamente e comunque stante l’autonoma previsione dell’art. 369, n. 4 citato, che riferisce l’onere di produzione direttamente al ricorrente, per il caso che quella controparte possa non costituirsi in sede di legittimità o possa costituirsi senza produrre il fascicolo o possa produrlo senza il documento – produca in copia il documento stesso (appunto ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, ed indichi tale modalità di produzione nel ricorso), cosa che è agevolmente possibile se la copia sia stata a suo tempo estratta nelle fasi di merito (o può esserlo fintanto che il fascicolo avversario non sia stato ritirato dinanzi al giudice di merito…."), la censura risulterebbe anche e comunque improcedibile.

Nè potrebbe farsi riferimento alla costituzione della mandataria del Monte dei Paschi di Siena, che è stata dichiarata inammissibile e comunque non era stata e non poteva essere accompagnata dalla produzione dei documenti.

Inoltre, non eviterebbe l’improcedibilità la circostanza che il soggetto intervenuto nel processo, come si legge in calce al suo "controricorso", abbia depositato il "fascicolo dei due precedenti gradi", che all’evidenza non può che essere quello della sua dante causa, che deve averglielo consegnato: l’intervento è stato considerato inammissibile (come aveva, del resto, sostenuto la stessa ricorrente) e, pertanto, no si può tener conto delle produzioni fate dall’interveniente.

Pertanto, in via del tutto gradata la censura sarebbe anche improcedibile. p.3.2. Una seconda censura, che parrebbe sempre riferita ad un omessa motivazione relativa sempre al primo motivo di appello è esposta alle pagine 14-15 del ricorso e concerne la deduzione che si dice fatta con quel motivo circa il rilievo, in punto di esclusione del nesso causale fra l’estensione del pegno ed il preteso danno, del fatto che la Banca avesse considerato adeguata la garanzia prima che le azioni divenissero di proprietà della M.. L’omesso esame avrebbe riguardato anche un "riferimento al doc. 3 del fascicolo di primo contenuto a pag. 5 dell’atto di appello". Tale documento avrebbe attestato alla pagina 1030 che il servizio Gestione Rischi della Banca Nazionale dell’Agricoltura, nella sua nota del 2/12/1996, aveva valutato in precedenza l’immobile di proprietà della Milan Mail n. 1 s.p.a. in L. 135.000.000.000, "sicchè la garanzia era già stata ritenuta ampiamente congrua a prescindere ed indipendentemente dalle ulteriori estensioni del pegno successivamente sottoscritte dall’avv. M.". Dall’esame del detto documento sarebbe emerso "come la Banca Nazionale dell’Agricoltura avesse da tempo elaborato con il signor R. un programma dettagliato e complesso, che prevedeva la trasformazione in mutuo fondiario del debito" e, dunque, "tale documento e tali rilievi escludevano in toto la possibilità di ipotizzare, in capo all’attuale ricorrente, un comportamento idoneo ad indurre la banca ad assumere decisioni già assunte da tempo".

La sentenza d’appello avrebbe omesso di dare risposta sul punto all’atto di appello, con la conseguenza che sarebbe carente di una motivazione "che dimostri con ragionevole certezza e con coerenza la sussistenza di un nesso causale tra l’estensione del pegno e la concessione degli affidamenti". p.3.2.1. Anche questa censura è preliminarmente inammissibile, perchè nuovamente pretende di dedurre quella che sarebbe stata nella sostanza un’omessa pronuncia su motivo di appello come vizio di motivazione, così impingendo nello stesso rilievo svolto a proposto della censura precedente.

Inoltre, in disparte la decisività del rilievo di inammissibilità appena svolto, se anche potesse reputarsi assolto l’onere di indicazione specifica del documento cui si fa riferimento, considerando esistente almeno una riproduzione indiretta del suo contenuto ed esistente l’indicazione del se e dove sia stato prodotto nelle fasi di merito ed in questa sede (posto che in calce al ricorso si dice prodotto il fascicolo di parte di primo grado), resterebbe carente l’adempimento dello stesso onere circa la riproduzione del motivo di appello in parte qua, posto che si parla genericamente di "riferimento al doc. 3", con la conseguenza che nuovamente la Corte viene delegata ad individuare che cosa nella citazione in appello, sia pure alla sua pagina 5, potrebbe corrispondere ad esso. p.4. Con una terza censura si critica la sentenza impugnata perchè avrebbe "sbrigativamente "liquidato" il secondo motivo di appello", che si dice intitolato "Dell’induzione a concedere nuovi finanziamenti" e diretto "a dimostrare ancora, sotto altra visuale, la mancanza di nesso causale tra i comportamenti ascrivibili alla ricorrente ed il danno lamentato dalla banca". La parte del motivo di appello cui ci si riferisce, in questo caso, si individua nella pagina 9 della citazione d’appello e se ne fa riproduzione in questi termini: "….l’avv. M. con le citate estensioni del pegno non ha affatto indotto la BNA a concedere altri finanziamenti" "per il semplice motivo che tali ulteriori affidamenti erano già stati concessi prima che fosse prestato l’assenso alla citata estensione del vincolo pignoratizio". Quindi, si dice: 1a) che si richiamava il proprio doc. 3 prodotto nel fascicolo di primo grado, nonchè i docc. 3, 4 e 6 del fascicolo di primo grado di controparte, dai quali si sarebbe testualmente evinto che il pegno veniva esteso per la "attuale apertura di credito accordata al sig. R. (pag. 10 dell’atto di appello)"; 1b) che ancora più oltre nell’atto di appello era stato affermato che "….l’estensione del pegno è addirittura successiva alla concessione degli affidamenti medesimi.

E’ evidente come non sia possibile indurre un soggetto a compiere un atto che lo stesso abbia già autonomamente compiuto (ancora pag. 10 dell’atto di appello)".

Ci si duole che la sentenza impugnata abbia del tutto omesso di motivare in relazione al fatto che l’apertura di credito aveva preceduto l’estensione, sostenendosi che essendo stata la decisione della Banca anteriore e indipendente dall’operato della ricorrente, non poteva essere dipesa da esso. La Corte milanese si sarebbe limitata sul punto ad osservare "che non è seriamente contestabile che l’avere esteso una garanzia – dai 9 miliardi iniziali sino ai 35.500.000.000 finali – comporti una modificazione quantitativa della stessa".

Questa motivazione sul secondo motivo di appello sarebbe soltanto apparente "in quanto non coerente con il contenuto delle argomentazioni proposte", posto che in detto motivo si era dedotto che gli ulteriori affidamenti erano stati già concessi al R. prima dell’estensione del pegno, come sarebbe risultato dagli indicati documenti.

L’estensione del pegno sarebbe stata in realtà "una mera formale giustificazione ex post dell’operato della banca, e quindi, la Corte avrebbe dovuto spiegare per quale ragione rigettava il motivo di appello che tendeva a dimostrare la insussistenza di un comportamento di induzione da parte dell’avv. M. e quindi la insussistenza del nesso di causalità tra l’operato della attuale ricorrente ed il danno". Le estensioni del pegno sarebbero state richieste "a cose fatte, quando cioè gli affidamenti stessi erano già in essere, cioè attuali, cioè accordati, come si legge nei documenti stessi" e tale modus operandi della Banca potrebbe, ad avviso della M., "essere stato connesso a rapporti particolari da tempo instaurati con il dottor R. stesso oppure a mera negligenza e leggerezza della banca medesima, ma (tratterebbesi di) circostanza che, comunque, prescinde da comportamenti riconducibili alla ricorrente e non alla stesa imputabili".

La sentenza impugnata non conterrebbe motivazioni "in merito alla suddetta circostanza di fatto, essenziale e documentalmente provata anche da documenti avversari" ed avrebbe "omesso di svolgere considerazioni idonee a sostenere e motivare il rigetto dell’appello proposto sul punto".

La censura viene, quindi, articolata asserendosi che la motivazione sarebbe carente perchè, per neutralizzare il rilievo del documento 3, avrebbe usato un argomento simile a quello utilizzato dalla sentenza di primo grado, cioè avrebbe messo in dubbio la sua autenticità (pagina 8 della sentenza), così fingendo di ignorare che esso era un verbale di consegna di documentazione con elenco documenti redatto dalla Guardia di Finanza in esecuzione di indagini penali. Inoltre, la sentenza avrebbe ignorato i documenti 4, 5 e 6 della controparte. Essa sarebbe pervenuta, sulla base della svalutazione del doc. 3 e della omessa valutazione dei documenti ora detti, all’affermazione che, non essendo stata accertata la data di concessione del fido, esso poteva essere stato concesso proprio per l’estensione del pegno e che non risultavano elementi per ritenersi che le ulteriori aperture di credito al R. fossero state concesse indipendentemente dalle estensioni di garanzia.

I documenti 4, 5 e 6, dimostrando che l’ampliamento della linea creditoria era stato già concesso, sarebbero stati idonei a dimostrare che la M. aveva agito nel convincimento di estendere la garanzia ad un’operazione già perfezionatasi.

Si deduce, in fine, che la sentenza impugnata, là dove fa riferimento al punto 8 dell’allegato 8 del doc. 3 del fascicolo di primo grado della ricorrente, presenterebbe "ancora una volta una motivazione a dir poco carente: infatti da tale documento si evincerebbe) che la Direzione Centrale autorizzava l’ampliamento dello scoperto in data 30/7/1996 a condizione dell’estensione del pegno", mentre nel doc. 5 avversario risultava che l’ulteriore fido alla data del 31/7/1996 era già stato accordato, senza alcuna precisazione sul se l’estensione del pegno condizionasse la concessione del fido. p.4.1. Anche questa censura è inammissibile, perchè articolata senza l’osservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

Non solo non si riproduce il contenuto del documento n. 3 per la parte o meglio per le parti in cui sarebbe stato rilevante, ivi compreso l’allegato, e non si riproduce il contenuto dei documenti avversali (salvo rinvenire – ma senza alcuna certezza, atteso che non v’è corrispondente attività di allegazione specifica, quello del doc. n. 4 nella frase alla pagina 4 del ricorso, contenuta nell’esposizione del fatto – nella frase "attuale apertura di credito accordata al sig. R.F.A."), ma, inoltre, nuovamente si pongono i problemi di indicazione specifica del se e dove tali ultimi documenti si intendano prodotti in questa sede di legittimità, già indicati a proposito della prima censura al precedente paragrafo 3.1.3.

Si deve, poi, aggiungere, sempre per considerazioni analoghe a quelle colà svolte, che quanto ai documenti avversari la censura sarebbe improcedibile ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.

La censura, ove fosse stata ammissibile e procedibile avrebbe poi dovuto misurarsi con un’ulteriore carenza, cioè la sua mancanza di decisività: atteso che, se pure il significato del rapporto fra il documento n. 3 di sua produzione e quelli della Banca fosse stato quello indicato dalla ricorrente, la censura sarebbe stata carente di decisività, posto che la sentenza impugnata alle pagine 8-9 svolge un discorso del quale non ci fa carico per pervenire al convincimento sul rilievo dell’assenso dato dalla M. all’estensione delle garanzie in funzione dell’estensione della linea creditoria. Ma non è necessario soffermarsi ad argomentare in proposito. p.5. Con una quarta censura si critica la sentenza impugnata per avere omesso (così si dice in apertura di esposizione della censura alla pagina 22 in fine) di motivare circa le considerazioni svolte dalla M. con il terzo motivo di appello, intitolato "Dell’affidamento ingenerato nell’avv. M. dalle risultanze di fatto". Dopo le argomentazioni svolte di seguito, l’illustrazione della censura si chiude in modo riepilogativo adducendo che invece si sarebbe omesso di motivare adeguatamente sulle seguenti circostanze:

a) sull’inerzia del curatore dal fallimento della Milan Mail dopo il parere dubitativo sulla proposta di concordato; b) sul fatto che la proposta di concordato non era stata ritirata dall’avvocato M., ma dalla società proponente; c) sul fatto che il ritiro della proposta non poteva fornire alcuna prova sulla responsabilità della ricorrente; d) sul "fatto che vi era l’attestazione, sul libro soci ricostruito, non solo di R. ma anche dell’altro amministratore e circa il fatto che una sentenza passata in giudicato aveva, seppure incidenter tantum, riconosciuto la qualità di socio in capo a R.F.A.".

Nella pregressa illustrazione, si prospetta che nell’appello: al) quanto alla prima circostanza sub d), che la M. aveva svolto "considerazioni in merito all’affidamento (….) in relazione alla documentazione societaria di cui potè prendere visione, tra cui in particolare il libro soci (doc. 1 fascicolo di primo grado della ricorrente), recante attestazione sottoscritta anche da un altro amministratore e non solo da R.F.A."; b) quanto alla seconda circostanza sub d) che una non meglio precisata sentenza del Tribunale di Milano, nel respingere la domanda di ammissione al passivo della Milan Mail del R. proposta nel presupposto che le dazioni di danaro fossero avvenute in conto capitale, ne aveva riconosciuto la qualità di socio; 1c) quanto all’inerzia del curatore nel far dichiarare la nullità della delibera di aumento del capitale del 1978, che essa si era protratta per cinque anni, pur avendo egli espresso dubbi circa la compagine sociale, il che aveva indotto la ricorrente, nell’estendere il pegno, a ritenere che i rilievi espressi fossero di scarso peso.

L’illustrazione si articola, poi, adducendo che erroneamente la Corte territoriale avrebbe dato rilievo al ritiro della proposta di concordato, attribuendone la responsabilità alla M., che invece era solo il difensore, e non alla parte.

Si fa, quindi, riferimento a documenti nuovamente senza riprodurre il loro contenuto ed indicandoli come prodotti nel fascicolo di primo grado di controparte, tranne quanto al libro soci, che si indica prodotto nel fascicolo di primo grado della ricorrente. p.5.1. Anche tale censura è inammissibile:

1a) sia perchè è contraddittoria, in quanto all’inizio della esposizione si denunciano omissioni di motivazione, mentre alla fine riassuntivamente si fa riferimento a motivazione inadeguata, con ciò restando incomprensibile se si denunci un’omessa motivazione oppure un’insufficienza di motivazione;

1b) perchè, nell’ottica della insufficienza della motivazione, non individua la parte della motivazione della sentenza che sarebbe affetta da essa;

1c) in via preliminare, perchè ricollegando le omissioni ed insufficienze a deduzioni che erano state fatte nel terzo motivo di appello, omette di individuare quest’ultimo, riproducendone il tenore direttamente o almeno riproducendolo indirettamente ed indicando in modo preciso le parti dell’atto di appello in cui l’indiretta riproduzione dovrebbe trovare corrispondenza;

1d) per inosservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6, atteso che fa riferimento a documenti dei quali non fornisce l’indicazione specifica, omettendo di riprodurne il contenuto e talvolta di dire dove risultavano prodotti nel giudizio di merito e se e dove lo siano nel presente giudizio di legittimità (quanto alla sentenza sull’ammissione al passivo), talaltra indicandoli prodotti dalla controparte nel giudizio di rimo grado senza preoccuparsi di dire se e dove lo siano stati nel presente grado.

La censura sarebbe anche improcedibile ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, perchè – se pure l’onere di cui all’art. 366, n. 6 si reputasse ipoteticamente assolto per i documenti indicati come prodotti in primo grado nel fascicolo avversario, nel senso che si sia inteso fare affidamento sulla produzione di esso in questo grado – nuovamente avrebbe rilievo la mancata costituzione della parte intimata (nonchè quanto s’è già considerato a proposito della produzione dell’interveniente).

Infine, lo si osserva del tutto superfluamente, argomentare che la rinuncia alla proposta di concordato fu atto di parte, se mai la censura fosse in denegata ipotesi ammissibile, non eliderebbe affatto il rilievo che quale atto di parte fu posto in essere nell’esercizio del ministero dalla M., con la conseguenza che, quindi, il suo oggettivo significato – pur in un ipotetico dissenso dalla linea imposta dalla parte – non poteva che essere percepito. p.6. In chiusura della pagina ventisette del ricorso inizia un’ulteriore censura relativa al fatto che "in relazione al 4^ motivo di appello, intitolato "Della condotta di BNA", la sentenza nulla dice in motivazione". Essa si articola fino alla pagina 33, dove viene riepilogata assumendosi che la Corte milanese avrebbe omesso "di motivare in merito al comportamento di BNA anche con riferimento alla domanda di concordato" e che "omettendo qualsivoglia analisi del medesimo, non ha fornito alcuna motivazione idonea a sostenere che gli affidamenti vennero concessi in conseguenza ed a causa delle esecuzioni del pegno". Tali omissioni di motivazione riguarderebbero circostanze determinanti ai fini della decisione.

Nell’ambito dell’illustrazione della censura, tuttavia, non si individua il tenore del quarto motivo di appello e si svolgono considerazioni senza in alcun modo raccordarle ad esso.

Tali considerazioni, peraltro, non attengono in alcun modo alla ricostruzione della quaestio facti e, quindi, non rispondono alla logica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ma sono di tenore prettamente giuridico, cioè prospettano una quaestio iuris come emerge dalla sottolineatura dell’argomentare che inizia nell’ultima riga della pagina 28 e termina con le prime quattro della pagina 30 ed il cui punto centrale – dopo essersi enunciato che la sentenza impugnata non avrebbe fornito motivazione circa l’inesistenza di una responsabilità per negligenza ed omissione di controllo della Banca nell’accertare e verificare la validità della garanzia sia nel momento in cui venne originariamente concessa dal R. (posto che essa era nulla già allora), sia allorquando la Banca aveva saputo del ritiro della proposta di concordato – è così espresso:

"Se è addebitabile alla banca una responsabilità per colpa per non essere stata diligente nel verificare la validità della garanzia nel momento in cui il pegno venne concesso da R., come è possibile addebitare la responsabilità del danno alla ricorrente che interenne in seguito, quando il pegno era stato già concesso?".

Dopo tale interrogativo si dice che la carenza di motivazione in proposito investirebbe anche il primo motivo di appello, nel quale si erano evidenziato che l’estensione del pegno non aveva rappresentato una novazione.

Quindi, si asserisce che "la sentenza non motiva per giustificare il rigetto dell’appello in relazione al fatto che la garanzia era nulla ab origine, che la banca avrebbe potuto accertarlo fin dall’inizio e non fornisce neppure spiegazione del motivo e del ragionamento giuridico in base al quale, nonostante tali presupposti, abbia ritenuto di addossare ugualmente la responsabilità all’avv. M. ed alla sola avv. M. di tutto quanto accaduto".

Si svolge, di seguito la considerazione – basata sulla proposta di concordato, che viene indicata come doc. 13 del fascicolo di primo grado di controparte e di cui si riproduce una parte – che, emergendo da essa che la Milan Mail sarebbe stata privata dell’immobile di sua proprietà e che essa sarebbe tornata in bonis, ma priva di beni, si evidenziava che la Banca era d’accordo nel consentire tale risultato attraverso un programma concertato con il R., rispetto al quale le estensioni di garanzia non avevano avuto alcun rilievo. Tale circostanza si dice ignorata dalla motivazione della sentenza impugnata. p.6.1. La censura è inammissibile.

Se essa è relativa al fatto che la sentenza impugnata nulla avrebbe detto sul quarto motivo di appello, si sarebbe dovuto articolare ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione al n. 4, art. 360 c.p.c., cioè come denuncia di un error in procedendo rappresentato da omessa pronuncia su un motivo di appello.

Non solo: se fosse possibile intenderla così – sfuggendo alla logica stringente dell’essere il ricorso per cassazione mezzo di impugnazione a motivi tipizzati, la cui individuazione o meglio indicazione (art. 366 c.p.c., n. 4) compete alla parte, quale espressione del suo monopoiio sulla proposizione della domanda di impugnazione sottesa al ricorso – risulterebbe omessa l’individuazione del tenore del quarto motivo di appello, così delegandosi, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, alla Corte del tutto inammissibilmente di cercarlo nel relativo atto.

L’inosservanza dell’art. 366, n. 6 sotto tale profilo concernerebbe la censura anche se essa, al di là della iniziale qualificazione, concernesse vizi di motivazione (dato che si parla di contraddizioni della motivazione e di omessa motivazione) per insufficienza, contraddittorietà od omissioni commesse nell’esaminare il quarto motivo (e se del caso il primo, pure evocato).

Inoltre: in quest’ultima prospettiva mancherebbe totalmente l’individuazione della parte della motivazione della sentenza impugnata da cui risulterebbero le insufficienze, contraddizioni ed omissioni, sicchè la Corte dovrebbe inammissibilmente ricercarla, con il rischio di fraintendimenti.

La censura comunque sarebbe anche improcedibile, perchè la proposta di concordato la si indica come produzione di primo grado n. 13 della controparte, il che pone sempre i problemi in precedenza indicati per tale modo di illustrazione.

In fine il Collegio rileva che l’illustrazione della censura – come del resto confessa la stessa ricorrente alla pagina 28, là dove dice che quanto illustrato "si tradurrà in una violazione di legge, come verrà esposto oltre" (rilievo che si può riferire sia all’esposizione immediatamente successiva, sia addirittura al motivo successivo) – svolge considerazioni che palesano un’erroneità della sentenza impugnata per avere essa commesso un error in indicando di diritto sostanziale, rappresentato dal non aver considerato o l’esistenza di una esclusiva responsabilità degli organi della Banca nella determinazione del danno, o almeno l’esistenza di una corresponsabilità dei medesimi.

In tal modo la sostanza dell’illustrazione finisce per corrispondere alla denuncia di un vizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che, però, andava dedotto e riempito con l’indicazione delle norme di diritto violate. Fermo restando che si sarebbe dovuto precisare come e perchè della questione dell’esistenza della responsabilità esclusiva di quegli organi o di una loro corresponsabilità la Corte territoriale fosse stata investita con uno o più motivi di appello, sì da averla malgiudicata. p.7. A pagina 33 in fine si enuncia un’altra censura assumendosi che "per quanto attiene al 5 motivo di appello, intitolato "Dell’ammontare delle somme erogate da BNA a garanzia delle quali è stato esteso il pegno", la sentenza non fornisce motivazione, per il rigetto dei puntali e dettagliati rilievi contenuti nelle pagine 18, 19 e 20 dell’atto di citazione in appello, nei quali si fa riferimento al doc. 3 fascicolo di primo grado della ricorrente ed al doc. 4 fascicolo di primo grado di controparte". Vengono, poi, evocati il doc. 3, allegato 8, di cui si riproduce un passo, che si dice incontestato e, quindi, parrebbe che il senso della censura sia che la Corte territoriale, pur emergendo che lo scoperto di conto corrente del R. al 21 marzo 1996 era già di L. 17.3000.000.000 non avrebbe ritenuto ridotta la responsabilità della M. in termini corrispondenti. p.7.1. La censura è nuovamente inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, dato che nessuna individuazione del quarto motivo si fa e si pone, dunque, il solito problema relativo al documento n. 3 di controparte.

Inoltre, gradatamente, si lamenta un’omessa pronuncia sul detto motivo, che avrebbe dovuto denunciarsi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 sempre per violazione dell’art. 112 c.p.c.. p.8. A pagina 35 il ricorso censura la motivazione della sentenza impugnata nel passo (testualmente riportato) in cui – dopo avere affermato che "le considerazioni che precedono consentono quindi di ritenere, così come si legge nella sentenza di primo grado, il colpevole comportamento di M. sotto il profilo dell’omessa preventiva verifica del sostanziale valore delle azioni sulle quali consentiva di estendere il pegno e/o dell’omessa messa a conoscenza di tale situazione al creditore pignoratizio al quale attivamente consentiva di estendere il pegno fino alla concorrenza di oltre 35 miliardi" – essa enuncia "che poi l’estensione della garanzia abbia dato causa all’affidamento della banca non appare alla luce delle argomentazioni sub 2 e 3 seriamente discutibile".

Si lamenta che la sentenza, divisa in paragrafi, non contiene alcun paragrafo o punto indicato come "3", sicchè la raggiunta conclusione risulterebbe immotivata. p.8.1. La censura non è fondata.

Effettivamente nella motivazione la sentenza contiene un punto "2)", che inizia in apertura della sua pagina 8 e non si chiude, nel senso che non è seguito da un successivo punto "3)" fino alla chiusura dell’esposizione della motivazione prima del dispositivo, sicchè esso finisce per comprendere anche la parte di motivazione evocata dalla ricorrente, che si legge alla pagina 13.

Tuttavia, la mancanza di un punto "3)" non può valere di per sè ad evidenziare un’omessa motivazione, perchè va verificato se alla formale mancanza di tale punto corrisponda effettivamente l’insussistenza di una motivazione sulla causazione dell’affidamento della Banca, che, peraltro, è riferita non al solo punto "3)", ma anche al punto "2)": già l’esistenza del riferimento a quest’ultimo comporterebbe allora che la deduzione della mancanza di motivazione sul punto si sarebbe dovuta articolare con la dimostrazione che nel punto "2)" l’affermazione della sentenza sull’affidamento della Banca non trova alcun riscontro, sì che la motivazione ne risulti sorretta.

Non solo: tale verifica da comunque un risultato negativo per la ricorrente.

Invero, alla pagina 11 la sentenza scrive, dopo avere ampiamente argomentato sul comportamento tenuto dalla M. quale emergente da una serie di documenti, che "nè può ritenersi che Antonveneta fosse a conoscenza di tale documentazione, per esserle stata già consegnata da R.. Tale affermazione, dedotta in atto di appello, non è infatti supportata da alcuna prova, tale non potendo ritenersi nè i documenti prodotti per la prima volta in appello, sub nn. 6, 7, 8, i quanto nuovi e, quindi, inammissibili, nè la prova orale dedotta sub cap. 10 in atto di appello, perchè ne è stata chiesta l’ammissione per la prima volta in appello".

Questa affermazione, collocata nell’ambito della motivazione pregressa e di quella successiva fino al passo motivazionale in cui si fa riferimento al punto "3)" da conto ampiamente dell’affermazione della Corte milanese di cui alla pagina 13, così palesandosi che il riferimento all’inesistente – sul piano formale – punto "3)" è un mero errore materiale.

La censura in questione è, pertanto, rigettata. p.9. Un’ultima censura compresa nel primo motivo riguarda, in fine la mancanza di motivazione della sentenza sull’esclusione dei capitoli di prova (quale? Per testi, come parrebbe suggerire successivamente il riferimento a prove testimoniali, od anche per interrogatorio formale?) nn. 1, 2, 3, 4, 5 e 6, "tesi ad accertare fatti rilevanti per la decisione". p.9.1. Si tratta di censura manifestamente inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, dato che non solo non si dice dove i capitoli erano stati articolali, ma nemmeno si riproduce il loro contenuto, necessario comunque per apprezzarne la decisività. p.10. Il primo motivo, data l’esistenza di una censura infondata accanto a tutte le altre inammissibili, è, conclusivamente, rigettato. p.11. Con il secondo motivo si deduce cumulativamente "violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3)", ma, in realtà, si svolgono quattro distinti motivi afferenti a pretesi errores in indicando concernenti norme sostanziali. p.11.1. Con un primo motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c." sostenendosi che la Corte territoriale avrebbe violato e disapplicato "quanto previsto all’art. 2043 del codice civile".

Si argomenta che come emergerebbe "dalla esposizione sommaria dei fatti di causa e dagli atti che Codesta Ecc.ma Corte potrà studiare, tutta la questione, da qualunque lato sia esaminata, ruota intorno ad un punto focale e ad un principio giuridico assorbente ed essenziale, espresso dall’art. 2043 c.c.". p.11.1.1. L’aspetto sotto il quale la Corte territoriale avrebbe violato l’art. 2043 riguarderebbe innanzitutto l’esistenza del nesso causale fra il comportamento dell’autore dell’illecito e il danno e nella specie la violazione sarebbe stata commessa dalla sentenza impugnata perchè "le innumerevoli carenze di motivazione sopra evidenziate ed i numerosi contrasti tra le argomentazioni esposte in sentenza ed i documenti agli atti sopra sottolineati dimostrano come non fosse per nulla acclarato e pacifico che la attuale ricorrente avesse valide e fondate ragioni, nel 1996, per effettuare verifiche e controlli spettanti ad altri organi istituzionali, quali in primis gli Organi Fallimentari".

Il motivo in tal modo si risolve in una sorta di rinvio al primo motivo, con invito a scrutinare le argomentazioni ivi svolte sotto il profilo della loro idoneità a supportare un vizio nella sussunzione del comportamento della M. quale comportamento avente efficacia causale del danno.

Ma è palese che in tal modo le argomentazioni sulla inammissibilità di tutte le censure svolte con il primo motivo, nonchè quella relativa all’unica considerata infondata, si trasferiscono automaticamente sul motivo in discorso.

Del resto, si era già in sede di esame di quelle censura avvertito che molte di esse prospettavano quaestiones iuris afferenti proprio al nesso di causalità e non vizi di motivazione.

D’altro canto, a parte la singolarità del rinvio alle deduzioni del primo motivo, alla pagina 39 si evocano nuovamente in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6 il doc. 3 del fascicolo di primo grado della ricorrente e quelli nn. 4, 5 e 6 della controparte.

Il motivo è, dunque, inammissibile, perchè affetto dalle stesse ragioni di inammissibilità enunciate per le varie censure di cui al primo motivo. E, se lo si intende come richiamante anche la censura esaminata sopra sub 8, infondato. p.11.1.2. In secondo luogo il motivo lamenta che erroneamente la causazione del danno sarebbe stata addebitata per intero alla ricorrente pur avendo Essa esteso il pegno sulle azioni solo per il 60% del capitale sociale, essendo avvenuta l’estensione per il 30% da parte della Sofinvest e per il 10% dalla Immobili Nord s.r.l. (come da doc. 1 del fascicolo di primo grado della ricorrente e dai docc. 4, 5 e 6 della controparte).

Il motivo è inammissibile sia perchè viola nuovamente l’art. 366 c.p.c., n. 6, sia perchè pone una questione, quella del dover rispondere la M. eventualmente solo per il danno proporzionato alla parte di capitale cui si riferivano le azioni date in pegno, che non è trattata nella sentenza impugnata e che, pertanto, la ricorrente aveva l’onere di individuare quanto all’entrata nel processo, per cui, se fosse stata un motivo di appello, sarebbe stato necessario identificarlo come tale, nel qual caso sarebbe sussistita un’omessa pronuncia.

La prospettazione giuridica sottesa alla censura, inoltre, se mai fosse stata essa ammissibile, si sarebbe dovuta, inoltre, verosimilmente misurare con il rilievo dell’art. 2055 c.c., che sancisce la responsabilità solidale quando il fatto dannoso è imputabile a più persone, dando rilievo al diversa valore causale dei vari contributi nei rapporti interni. p.11.2. Con un secondo motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione degli artt. 1227 e 2043 c.c.".

L’esposizione di tale motivo inizia con l’asserto che "si è argomentato nell’atto di appello e nel presente ricorso circa una evidente ed incontestabile responsabilità addebitabile ai funzionar della Banca Nazionale dell’Agricoltura, che, per ragioni che non sono oggetto di esame in questa sede ma che possono essere intuibili, omisero di effettuare i doverosi controlli sulla società sottoposta a procedura fallimentare o agirono a prescindere da essi".

Continua, poi, con l’affermazione che "E’ altrettanto chiaro che la banca, avuta notizia del ritiro della fideiussione dal Tribunale per rinuncia alla domanda di concordato, avrebbe dovuto e potuto contattare gli organi fallimentari per avere precisazioni e chiarimenti, atteso che i dati della procedura ed il nome del curatore le erano ben noti (doc. 13 fascicolo di primo grado di controparte). Se la banca neppure in quel momento compì alcuna verifica e non assunse alcuna informazione oppure se, assunte tutte le informazioni possibili, ritenne di procedere ugualmente a continuare ad aumentare l’affidamento concesso al dottor R., non può ceto imputarsi alla ricorrente il danno derivatone".

Se ciò si ritiene, assume la ricorrente, la sentenza avrebbe violato l’art. 1227 c.c..

Se invece, si reputa che, nonostante le informazioni assunte la Banca non potesse prevedere il danno ed evitarlo, la stessa conclusione dovrebbe a sua avviso valere per essa ricorrente, di modo che nuovamente la sentenza impugnata avrebbe argomentato lacunosamente circa l’esistenza della sua responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c.. p.11.2.1. Il motivo è inammissibile perchè non riproduce il contenuto dell’atto di appello quanto alla prospezione con cui era stata svolta la questione che esso pone, mentre, là dove fa rinvio al "presente ricorso", volendo, evidentemente, alludere all’esposizione del primo motivo, impinge nelle valutazioni di inammissibilità (salvo una di infondatezza) riguardo ad esso formulate.

In via diretta viola anche l’art. 366, n. 6 quanto al riferimento aspecifico al documento della controparte.

Va, poi, considerato che l’evocazione dell’art. 1227 c.c. è fatta anche senza specificare se ci si voglia riferire – come pare – al suo primo comma, oppure al suo comma 2.

Il riferimento anodino ad una "responsabilità addebitabile ai funzionari della Banca Nazionale dell’Agricoltura, che, per ragioni che non sono oggetto di esame in questa sede ma che possono essere intuibili omisero di effettuare i doverosi controlli", inoltre, essendo i non meglio indicati funzionari in rapporto di immedesimazione organica con la Banca, parrebbe implicare che essi avrebbero agito "rompendo" dolosamente quel rapporto, nel quale caso – ma lo si osserva ad abundantiam – fermo che la Banca avrebbe potuto e dovuto addebitare il danno anche ad essi, non ne sarebbe stata elisa automaticamente la possibilità di una concorrente responsabilità della M., che comunque sarebbe stata rilevante ai sensi e per gli effetti dell’art. 2055 c.c., che avrebbe disciplinato la situazione.

Il motivo, dunque, se fosse scrutinabile, non varrebbe di per sè a giustificare la cassazione della sentenza impugnata per violazione dell’art. 1227 c.c..

Ove, poi, – ma è sempre rilievo che si svolge superfluamente – vi fosse stato un comportamento soltanto colposo di quei funzionari, nuovamente sarebbe stato rilevante e necessario accertarne l’efficacia causale esclusiva, perchè altrimenti sarebbe stato possibile solo una diminuzione del danno risarcibile ai sensi dell’art. 1227 c.c. (e tale diminuzione sarebbe stata tanto più rilevante se il comportamento della M. fosse stato doloso, lo sarebbe stata meno se fosse stato colposo). p.11.3. Con un terzo motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione dell’art. 124 e segg. L.F. e delle norme e dei principi in tema di concordato fallimentare" e vi viene riproposta sotto forma di violazione di norme di diritto la censura circa il non essere addebitabile alla M. la rinuncia alla domanda di concordato fallimentare, trattandosi di atto della parte e richiedendosi la sottoscrizione della parte, come in effetti era avvenuto.

Erroneamente la sentenza impugnata avrebbe considerato la presentazione dell’atto come difensore quale circostanza confermativa della responsabilità della M..

Il motivo è inammissibile per la violazione dell’art. 366, n. 6.

In ogni caso, è palese che l’utilizzazione dell’argomento da parte della Corte territoriale (cioè il non avere insistito la M. nella richiesta di concordato) è avvenuto senza negare la qualità di difensore dell’Avvocato M. e volendo fare riferimento al significato che essa doveva annettervi in ragione del suo stesso ministero. p.11.4. Con un quarto motivo si denuncia "violazione dell’art. 347 c.p.c.", perchè la Corte territoriale, nel rigettare a suo tempo l’istanza di sospensione dell’esecutività della sentenza di primo grado, lo avrebbe fatto senza che fosse stato acquisito il fascicolo d’ufficio di primo grado. Di ciò la M. si sarebbe lamentata nella conclusionale d’appello.

Il motivo è inammissibile perchè non è dato comprendere come il modus procedendi sulla decisione relativa all’istanza di sospensione dell’esecutività possa essere dedotto come motivo di invalidità della sentenza qui impugnata. p.12. Il ricorso è, conclusivamente rigettato.

Non è luogo a provvedere sulle spese stante l’inammissibilità sia dell’intervento, si della costituzione della mandataria della parte intimata nel ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Dichiara inammissibile l’intervento della CFT Finanziaria s..a. e la costituzione in udienza della Prelios Credit Servicing s.p.a. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 23 gennaio 2012.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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