Cass. civ. Sez. III, Sent., 29-03-2012, n. 5055

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- D.A. citò in giudizio, dinanzi al Tribunale di Roma, l’A.P.I. – Anonima Petroli Italiana S.P.A., con la quale assumeva di avere stipulato un comodato gratuito decennale per l’uso di un impianto di distribuzione di carburanti – dal quale deduceva di essere receduto anticipatamente – per sentire condannare la convenuta, previo accertamento della legittimità del recesso, al risarcimento dei danni subiti per mancati ricavi negli anni successivi al recesso fino alla scadenza contrattuale, nonchè per le perdite da malfunzionamento degli impianti e per erogazioni incontrollate, ed ancora per la perdita del trattamento di fine rapporto contrattuale; chiese inoltre la condanna della convenuta al pagamento del prezzo pattuito per l’impianto di autolavaggio con accessori, che assumeva di aver installato previo consenso della concedente, o comunque dell’indennizzo degli stessi quali accessori non separabili e relativi miglioramenti, al rimborso del 50% di altre spese che assumeva di aver anticipato nell’interesse della concedente ed al pagamento dell’aumento contrattuale sul prezzo dei carburanti spettantegli a decorrere dal 1 luglio 1996.

Si costituì in giudizio l’API s.p.a. e resistette a tutte le domande; chiese, comunque, per l’eventuale ipotesi di accoglimento delle domande, di poter chiamare in giudizio, per esserne garantita, la s.r.l. Maser e la s.r.l. M.S. & S., nelle rispettive qualità di venditrice e di manutentrice dei dispositivi di automazione dell’erogazione di carburanti installati nell’impianto concesso al D.. La convenuta propose inoltre domanda riconvenzionale per essere, previo accertamento dell’inadempimento del D. di proseguire la gestione fino alla scadenza contrattuale, risarcita del danno derivato dall’anticipato rilascio dell’impianto.

Autorizzata la chiamata in causa, si costituirono le società chiamate e resistettero alla domanda dell’API. 2.- Il Tribunale di Roma, con sentenza del 5 febbraio 2003, accolse la domanda dell’attore per la sola restituzione della cauzione contrattuale e per aumento contrattuale della quota sul prezzo dei carburanti; rigettò le altre domande risarcitorie, non ritenendo legittimo il ricorso alla clausola risolutiva espressa; quanto alla domanda di pagamento del prezzo ovvero dell’indennizzo per i pretesi miglioramenti ed addizioni, il Tribunale escluse il diritto del comodatario al rimborso delle spese straordinarie non necessarie nè urgenti ed escluse altresì il diritto al rimborso del prezzo, negando l’esistenza di accordi contrattuali per l’acquisto dell’impianto. Il Tribunale rigettò inoltre la domanda riconvenzionale dell’API, per mancanza di prova sul danno, e per il pagamento della penale, avendo il D. tempestivamente restituito l’impianto. Le spese del primo grado vennero compensate.

3.- Proposto appello principale da parte del D. ed appello incidentale da parte dell’API, la Corte d’Appello di Roma, con sentenza pubblicata il 10 settembre 2009, ha così statuito:

a) in parziale riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato legittimo il recesso esercitato in data 14.11.1996 da D.A. dal contratto di comodato 11.12.1989 e, per l’effetto, ha condannato la comodante s.p.a. API al risarcimento del danno in favore dell’attore, liquidato complessivamente in Euro 68.217,84, oltre rivalutazione monetaria (25,576% della base capitale) per Euro 17.447,89, oltre interessi al tasso medio del 3,5% annuo dal 1.7.1998 al saldo sulla somma di Euro 82.941,79;

b) ha confermato nel resto l’impugnata sentenza;

c) ha condannato la s.p.a. API a rifondere all’appellante principale le spese di entrambi i gradi.

4.- Avverso la sentenza della Corte d’Appello propone ricorso per cassazione l’api – anonima petroli S.p.A., a mezzo di sei motivi.

Si difende con controricorso D.A., che propone altresì ricorso incidentale affidato ad un motivo.

L’API resiste con controricorso a ricorso incidentale. La ricorrente ha anche depositato memoria.

Motivi della decisione

Preliminarmente, i ricorsi vanno riuniti.

1.- Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale vanno trattati congiuntamente in quanto connessi.

Col primo motivo, l’API S.p.A. deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, assumendo che la Corte d’Appello avrebbe deciso su una domanda mai proposta dal D.; che, infatti, quest’ultimo, in primo grado, aveva agito in forza dell’art. 11 e dell’art. 15 del contratto, sul cui combinato disposto aveva fondato l’invocazione dell’operatività della clausola risolutiva espressa; che, invece, in secondo grado, sarebbe stata dichiarata la risoluzione, non per il malfunzionamento dell’impianto, cui sarebbe dovuto accedere un servizio di pronto intervento (ai sensi del menzionato art. 11), ma per il fatto che detto malfunzionamento aveva dato luogo a perdite economiche mai ristorate; che, così statuendo, la Corte d’Appello avrebbe accolto una causa petendi diversa da quella originaria; che la relativa eccezione era stata proposta dalla società appellata con riferimento all’art. 345 cod. proc. civ., ma la Corte non l’avrebbe esaminata così incorrendo nel vizio denunciato.

1.1.- Col secondo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 345 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 perchè, a voler ammettere che l’eccezione fosse stata disattesa, il giudice avrebbe comunque deciso su una domanda nuova, secondo quanto sopra, avendo in particolare deciso nel senso della risoluzione giudiziale del contratto per grave inadempimento piuttosto che per legittimo esercizio del diritto potestativo fissato dall’art. 1456 cod. civ..

2.- Entrambi i motivi sono infondati.

La Corte d’Appello non ha accolto affatto una domanda di risoluzione giudiziale del contratto, che il D. avrebbe inammissibilmente avanzato in secondo grado, ma ha accolto la domanda di dichiarazione della risoluzione del contratto per l’operatività della clausola risolutiva espressa, già proposta dall’attore dinanzi al Tribunale.

Al riguardo, è chiara la sentenza laddove fa espresso riferimento al combinato disposto degli artt. 15 e 11 del contratto, e pone tali previsioni contrattuali a fondamento dell’affermazione per cui esse autorizzavano "il recesso nei casi di ripetuta inosservanza degli obblighi imposti alle parti dall’art. 11, tra gli altri".

Ha, infatti, ritenuto, in primo luogo, fondata la critica dell’appellante alla sentenza di primo grado che aveva stabilito che il malfunzionamento non fosse dovuto a "difetti di installazione" e quindi aveva escluso uno degli inadempimenti rilevanti per la clausola risolutiva espressa (essere cioè le perdite di merci derivate da "difetti di installazione"); ha quindi affermato che "tra i difetti di installazione non possano che essere ricompresi difetti di funzionamento che non sia provato essere causati da un uso anomalo degli impianti stessi …omissis…" ed ha giustificato tale affermazione, che, peraltro, in sè, non è stata nemmeno fatta oggetto di censura; ha inoltre ritenuto sussistente l’usura di organi pure prevista nell’art. 11 e nemmeno tale statuizione è stata censurata.

A completamento delle affermazioni di cui sopra vi è l’altra, per la quale "l’API non ha tempestivamente indennizzato, nonostante le espresse richieste con intimazione di eventuale recesso …le perdite subite per effetto di tali difetti di funzionamento …omissis…":

orbene, contrariamente a quanto sembra assumere la ricorrente, il giudice di secondo grado non ha valutato tale comportamento dell’API sotto il profilo della gravità dell’inadempimento ai sensi e per gli effetti dell’art. 1455 cod. civ.; esso è stato, invece, collegato alla previsione negoziale delle condotte che, contemplate dall’art. 11 del contratto, ed in relazione all’art. 1456 c.c., comma 1, avrebbero consentito l’esercizio della facoltà di cui al comma secondo dello stesso art. 1456 cod. civ., prevista espressamente dall’art. 15. Ed, in ragione di tale ultima valutazione, e di quella di cui sopra, concernente la causa delle perdite non indennizzate, la Corte ha concluso per l’accoglimento della richiesta di dichiarazione della risoluzione del contratto per clausola risolutiva espressa.

Essendo questa la domanda già formulata in primo grado, non vi è stata violazione dell’art. 345 cod. proc. civ., denunciata col secondo motivo di ricorso.

Decidendo nel senso sopra esposto la Corte ha mostrato di esaminare la domanda esclusivamente così come dedotta dall’appellante, evidenziando come fosse coincidente con quella già proposta in primo grado, così disattendendo, sia pure implicitamente, l’eccezione sollevata dall’appellata; non sussiste pertanto nemmeno il vizio di omessa pronuncia sull’eccezione di cui al primo motivo di ricorso (cfr., da ultimo, Cass. n. 20311/11, nel senso della configurabilità del vizio soltanto quando manchi completamente il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, tenuto conto delle domande e delle eccezioni delle parti).

3.- Col terzo motivo è dedotto il vizio di erronea ed insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Secondo la ricorrente, la decisione di secondo grado, ove fondata sugli artt. 11 e 15 del contratto, sarebbe viziata perchè non avrebbe tenuto conto del fatto che l’art. 15 avrebbe disciplinato tout court le sole ipotesi in cui fosse il comodante ad avere titolo ad avvalersi della clausola risolutiva espressa e quindi il citato articolo non sarebbe una clausola "ad accesso bilaterale", sicchè si sarebbe dovuta rigettare la domanda del comodatario volta ad avvalersi di una facoltà a lui non riconosciuta dal contratto.

Aggiunge la ricorrente che, comunque, l’art. 15 del contratto non avrebbe previsto affatto, tra le ipotesi di risoluzione espressa, quella del ritardato pagamento dell’indennizzo da parte dell’API per perdite ascrivibili alla medesima, prevedendo soltanto – mediante il rinvio all’art. 11 – che l’API non avrebbe risposto delle perdite delle merci se le stesse non fossero state causate da usura di organi o da difetto di installazione e sempre che fossero stati immediatamente notificati.

La censura è inammissibile sotto entrambi i profili, sia pure per differenti ragioni di inammissibilità. 3.1.- Il primo profilo non risulta essere mai stato oggetto di contestazione da parte della comodante; l’omessa motivazione in punto di operatività (cd. bilaterale ovvero soltanto unilaterale) della clausola dell’art. 15 non risulta riguardare un "fatto controverso" nel giudizio. La ricorrente avrebbe dovuto allegare e dimostrare di avere dedotto già in sede di merito che il comodatario non si sarebbe potuto avvalere della clausola risolutiva espressa, in forza dell’interpretazione del combinato disposto degli artt. 11 e 15, così come soltanto oggi appare sostenuta in ricorso; in mancanza di tale allegazione e dimostrazione, non risultando nemmeno dalla sentenza impugnata che l’API abbia mai contestato il diritto del D. di avvalersi della clausola risolutiva espressa (dal punto di vista soggettivo), la questione è nuova e la sua mancata considerazione non è deducibile come vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5. 3.2.- Il secondo profilo riguarda l’interpretazione che la Corte di merito ha dato al combinato disposto degli artt. 11 e 15 del contratto, sostenendo la ricorrente che – al contrario di quanto ritenuto dal giudice a quo – mancherebbe un vero e proprio collegamento tra le due previsioni contrattuali in quanto la prima si sarebbe dovuta interpretare solo come clausola limitatrice della responsabilità della comodante, non anche come clausola atta a prevedere un’obbligazione da adempiersi con le modalità ivi stabilite, operando in caso di inadempimento la risoluzione di diritto ex art. 1456 cod. civ..

Orbene, richiamato quanto detto in punto di ratio decidendi della sentenza impugnata ed a completamento di quanto già esposto al precedente punto 2., va evidenziato che il giudice d’appello, ritenuto che il malfunzionamento fosse stato causato da "difetti di installazione" e da "usura degli organi", ha interpretato l’art. 11 – che tali eventualità contempla – nel senso che esse fossero le uniche in ragione delle quali l’API sarebbe stata tenuta a rispondere delle perdite del comodatario (sempre che i difetti fossero stati tempestivamente notificati) e quindi nel senso che vi si prevedesse un obbligo della comodante di intervenire ad evitare le perdite, ponendo rimedio ai difetti di installazione e ad usura degli organi;

comunque, un obbligo di indennizzare le perdite dovute a tali eventualità; pertanto, anche la facoltà del comodatario di avvalersi della clausola risolutiva espressa in caso di violazione dell’uno e dell’altro obbligo.

Ha quindi accertato che questi obblighi erano rimasti, nel caso di specie, inadempiuti. Ha altresì accertato l’esistenza effettiva di perdite che avrebbero dovuto essere indennizzate (e che, di fatto, lo furono, ma soltanto dopo un considerevole lasso di tempo dal recesso).

Si tratta di motivazione completa, più che sufficiente, ed anche logicamente consequenziale, tale quindi che l’interpretazione dell’art. 11, come collegato all’art. 15 del contratto, che ne risulta, non può dirsi, in sè, priva di riscontri logico-giuridici nel ragionamento seguito dal giudice di merito.

Va ribadito che il vizio di motivazione sussiste quando questa non sia idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione, quindi quando l’esame di punti decisivi della controversia sia mancato ovvero sia insufficiente o illogico;

non anche quando si concluda con un’interpretazione delle clausole contrattuali in senso difforme da quello preteso dalla parte ricorrente, poichè non è consentito alla Corte di Cassazione compiere una nuova valutazione, essendo limitato il sindacato di legittimità alla verifica della correttezza logico-formale del ragionamento del giudice di merito (cfr., da ultimo, Cass. n. 27162/09, tra le altre).

Nel caso di specie, la motivazione svolta dalla Corte d’Appello appare congrua e logica, quanto alle premesse ed alle conclusioni raggiunte. Queste, d’altronde, sono giuridicamente ineccepibili, se riferite alla clausola risolutiva espressa come interpretata dalla Corte, poichè, una volta dato il senso di cui sopra al combinato disposto degli artt. 11 e 15 del contratto (senso che, come detto, non può essere più ridiscusso in sede di legittimità), ne è derivato – in seguito agli accertamenti in fatto di cui sopra (accertamenti che, ovviamente, non possono più essere ridiscussi in sede di legittimità) – che l’inadempimento contemplato dalla clausola risolutiva espressa fosse imputabile alla comodante e che fosse di entità tale da rendere legittimo l’esercizio della facoltà da parte del comodatario.

4.- Il quarto motivo del ricorso, col quale è dedotta la violazione dell’art. 1224 cod. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, non è meritevole di accoglimento poichè richiama la giurisprudenza relativa al computo della rivalutazione monetaria nei crediti di valuta, mentre nel caso di specie è stato liquidato un credito di valore, quale è quello risarcitorio; quindi, correttamente il giudice di merito ha rivalutato le somme riconosciute come, a tale titolo, dovute in favore del D..

5.- Il quinto motivo, col quale è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 1223 cod. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, è inammissibile.

La ricorrente censura la sentenza impugnata relativamente alla liquidazione del danno da lucro cessante per non aver tenuto conto, nella determinazione di questo (che la Corte ha calcolato tenendo conto, tra l’altro, della differenza tra il reddito ipoteticamente ricavabile e l’imposizione fiscale), dell’espletamento dell’attività lavorativa del comodatario; secondo la ricorrente, la Corte avrebbe dovuto detrarre dal reddito presumibile anche il valore dell’apporto di lavoro dell’imprenditore individuale.

Non risulta che questa deduzione sia stata svolta nei gradi di merito, malgrado la questione del reddito ricavabile integrante il mancato guadagno, da risarcire al comodatario a seguito del legittimo recesso, abbia formato oggetto del dibattito processuale ed anche di un accertamento peritale. Il giudice d’appello ha fondato le proprie determinazioni sull’esito della consulenza tecnica d’ufficio, rispetto al quale nemmeno risulta che la ricorrente abbia mai specificamente mosso la critica in parola.

6.- Col sesto motivo di ricorso è dedotto il vizio di motivazione nella parte in cui la sentenza determina il danno da liquidare.

L’illustrazione del motivo non è coerente con le ragioni esposte nella sentenza.

Vi si dice infatti che la sentenza avrebbe effettuato il calcolo tenendo presente un reddito presunto di lire 50.000.000 per anno per tre anni e vi avrebbe quindi operato una riduzione del 25%, ma sarebbe poi addivenuta ad un risultato errato rispetto a tale calcolo: lire 122.500.000, anzichè lire 112.500.000; vi si aggiunge che addirittura nel dispositivo sarebbe stata indicata una somma ancora diversa, cioè Euro 68.941,79, anzichè Euro 63.136,86. 6.1.- In realtà, la liquidazione è molto più articolata di quanto risulti dal motivo come sopra riportato; essa non è basata soltanto sul calcolo matematico sinteticamente richiamato in ricorso, ma, prendendo le mosse dalla consulenza tecnica d’ufficio, ne rielabora i risultati tenendo presenti diversi fattori di possibile incidenza, al fine di pervenire ad una liquidazione equitativa. Richiamato quanto detto sopra in punto di mancata contestazione dell’elaborato peritale (del quale peraltro nemmeno è fatto cenno nel motivo in parola), si deve aggiungere che neanche l’applicazione dell’art. 1226 cod. civ. è stata censurata in sè dalla ricorrente, nè è stata censurata sotto il profilo dell’individuazione degli elementi di cui il giudice si è avvalso per pervenire al risultato finale di Euro 63.136,86, che ha riconosciuto come danno da lucro cessante.

Risulta altresì dalla sentenza che, oltre alla somma come sopra liquidata, la Corte d’Appello ha liquidato in favore del D. delle altre somme, specificamente quelle già riconosciute come dovute dalla stessa appellante, e, tenendo conto di tali ulteriori somme, è pervenuta all’importo, indicato in dispositivo, di Euro 68.217,84. Questo importo è stato criticato esclusivamente sotto il profilo – rivelatosi non pertinente – della mancata coincidenza con la somma liquidata a titolo di danno da lucro cessante, non avendo la ricorrente censurato il riconoscimento di ulteriori voci di danno, nè – a maggior ragione – l’entità di queste. Non può che concludersi nel senso dell’inammissibilità del motivo.

7.- Con l’unico motivo del ricorso incidentale è denunciato il vizio di motivazione in merito alla domanda svolta dal D. di pagamento del prezzo dell’autolavaggio e degli accessori, che assume aver formato oggetto di una proposta contrattuale di compravendita da lui avanzata nei confronti dell’API e da questa accettata.

La Corte d’Appello, nel confermare il rigetto della domanda di cui alla sentenza di primo grado, ha escluso la prova "dell’esistenza di un accordo vincolante per la vendita delle opere stesse".

Il ricorrente richiede in sede di legittimità una nuova inammissibile valutazione degli elementi di fatto già esaminati in sede di merito per pervenire alla conclusione di cui sopra, raggiunta a seguito della constatazione della mancanza, non solo di una vera e propria proposta contrattuale, ma anche di un’accettazione da parte di soggetto dotato di poteri di rappresentanza dell’API; questa constatazione giunge all’esito di un apprezzamento in fatto di quegli stessi elementi che il ricorso incidentale vorrebbe porre a base di un nuovo esame nel merito. Giova aggiungere che, secondo il ricorrente, la Corte non avrebbe tenuto conto di un (asserito) riconoscimento di controparte circa l’esistenza, quanto meno, di una proposta contrattuale: la deduzione di tutti gli elementi di fatto atti a sorreggere la censura non è rilevante, poichè la sentenza esclude anche l’esistenza dell’accettazione. Il motivo è inammissibile.

8.- Il rigetto di entrambi i ricorsi legittima la compensazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta. Compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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