T.A.R. Lazio Roma Sez. II ter, Sent., 16-11-2011, n. 8915

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con l’istanza di cui al prot. n. CC/24506 del 25.7.2009 la società N. s.r.l. ha chiesto al Comune di Roma il rilascio dell’autorizzazione all’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande ai sensi dell’articolo 10 della l.r. n. 21 del 2006.

Con la determinazione dirigenziale n. 1040 del 5.10.2009 il comune ha denegato il richiesto rilascio dell’autorizzazione motivando sulla base del divieto assoluto operante fino all’adozione dei criteri comunali di cui all’articolo 25 della detta l.r. n. 21 del 2006.

Con la sentenza della sezione n. 11623/2009 del 24.11.2009 è stato accolto il ricorso proposto dalla società avverso il detto diniego ed il detto diniego è stato conseguentemente annullato; la sentenza è stata notificata a cura della società all’amministrazione comunale in data 28.12.2009.

Nelle more la società, con la nota di cui al prot. n. CC/5348 dell’11.2.2010, ha comunicato l’inizio dell’attività di somministrazione e, pertanto, alla data del 22.2.2010, ai sensi della l.r. n. 21 del 2006, si sarebbe formato il silenzio assenso sull’istanza.

La deliberazione n. 35 del 2010 è stata pubblicata all’albo pretorio in data 29.3.2010 ed è entrata in vigore alla data dell’8.4.2010 ai sensi dell’articolo 134 del T.U.E.L..

Con istanza del 4.6.2010 la ricorrente società ha diffidato il comune alla formalizzazione del silenzio assenso formatosi sulla propria istanza; tuttavia, con la nota di cui al prot. n. 21873 del 21.6.2010 il comune ha notificato all’interessata l’avvio del procedimento di annullamento di ufficio del silenzio assenso e la società ricorrente ha presentato le proprie osservazioni in data 9.7.2010.

Infine con la determinazione dirigenziale n. 800 del 26.7.2010, di cui al prot. n. 25837, comunicata con la nota di cui al prot. n. 28174, l’amministrazione ha provveduto al definitivo annullamento del silenzio assenso illegittimamente formatosi per l’autorizzazione all’apertura dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande nei locali di cui trattasi siti in Roma via dei Volsci n. 67.

La determinazione è motivata sulla base del combinato disposto degli articoli 10, comma 4, e 11 della deliberazione n. 35 del 2010, concernenti il divieto di rilascio di nuove autorizzazioni nel quartiere di San Lorenzo, norme da ritenersi in linea con il disposto di cui all’articolo 64 del D. Lgs. n. 59 del 2010 di recepimento della direttiva comunitaria in materia di servizi.

Con il ricorso in trattazione la società ha impugnato la detta determinazione di annullamento nonché tutti gli atti presupposti, come in epigrafe indicati, deducendone l’illegittimità per i seguenti motivi di censura:

1- Violazione e falsa applicazione degli articoli 20 e 21 nonies della legge n., 241 del 1990, anche in relazione agli articoli 41 e 97 della Costituzione e dell’articolo 134 del D. lgs. n. 267 del 2000 ed eccesso di potere per violazione della deliberazione C.C. n. 35 del 2010 e per difetto di istruttoria e di motivazione, ingiustizia manifesta, erroneità dei presupposti e travisamento dei fatti.

2- Violazione e falsa applicazione degli articoli 3, 7 e 21 nonies della legge n., 241 del 1990 ed eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, ingiustizia manifesta, erroneità dei presupposti e travisamento dei fatti.

3- Violazione e falsa applicazione dell’articolo 21 septies della legge n. 241 del 1990 e nullità del provvedimento per violazione del giudicato formatosi sulla sentenza n. 11623/2010 ed eccesso di potere per carenza di potere, illogicità, contraddittorietà ed ingiustizia manifesta.

4- Violazione e falsa applicazione dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990 e del D. Lgs. n. 59 del 2010 e della direttiva 2006/123/CE in relazione agli articoli 41, 117 e 118 della Costituzione ed eccesso di potere per carenza di potere, illogicità, contraddittorietà, ingiustizia manifesta e difetto di idonea motivazione.

5- Ulteriore violazione e falsa applicazione dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990 e del D. Lgs. n. 59 del 2010 e della direttiva 2006/123/CE in relazione agli articoli 41, 117 e 118 della Costituzione ed eccesso di potere per carenza di potere, illogicità, contraddittorietà, ingiustizia manifesta e difetto di idonea motivazione.

6Violazione dell’articolo 41 della Costituzione ed eccesso di potere sotto svariati profili.

7- Risarcimento dei danni conseguenti all’illegittimità dell’operato dell’amministrazione.

Il Comune di Roma si è costituito in giudizio con comparsa di mera forma in data 6.12.2010 ed ha depositato in data 19.1.2011 documentazione concernente la vicenda di cui trattasi nonché la memoria difensiva con la quale ha argomentatamente contro dedotto al ricorso del quale ha chiesto il rigetto attesa la infondatezza nel merito dello stesso.

Con la memoria del 21.1.2011 la società ricorrente ha controdedotto a sua volta alle difese avversarie, insistendo per l’accoglimento del ricorso.

Con l’ordinanza n. 251/2011 del 25.1.2011 è stata accolta l’istanza di sospensione dell’esecutività del provvedimento impugnato.

Con la memoria del 20.7.2011 la società ricorrente ha insistito per l’accoglimento del ricorso, puntualizzando alcuni dei dedotti profili di illegittimità di cui al ricorso introduttivo.

Alla pubblica udienza del 5.102011 il ricorso è stato trattenuto per la decisione alla presenza degli avvocati delle parti come da separato verbale di causa.

Motivi della decisione

Come ricordato nella parte in fatto che precede, il diniego al rilascio dell’autorizzazione alla somministrazione di cui alla d.d. n. 1040 del 5.10.2009 è stato annullato con la sentenza della sezione n. 11623/2009, del 24.11.2009.

Il detto diniego era stato motivato sotto l’esclusivo profilo, ritenuto assorbente da parte dell’amministrazione, del divieto assoluto di rilascio di nuove autorizzazione alla somministrazione fino all’adozione dei criteri comunali di cui all’articolo 25 della l.r. Lazio n. 21 del 2006.

La sentenza si inseriva in un consolidato orientamento giurisprudenziale nella materia della sezione, secondo cui la mancata determinazione da parte del comune dei criteri per il rilascio di nuove autorizzazioni per la somministrazione di alimenti e bevande, prevista dalla l. r. Lazio n. 21 del 2006, costituisce un’omissione dell’amministrazione comunale che non può risolversi a danno degli istanti, di tal che il diniego di rilascio dell’autorizzazione alla somministrazione assunto sulla base di quanto disposto dal richiamato articolo 25 si configura illegittimo e va pertanto annullato.

Dal predetto annullamento consegue l’onere per l’amministrazione comunale di riesaminare l’istanza di rilascio, procedendo all’espletamento di una apposita istruttoria che, prescindendo dal detto divieto, valuti in concreto la sussistenza dei presupposti di legge per il rilascio dell’autorizzazione; in tal senso esclusivamente si forma il giudicato sulla decisione, non derivandone, invece, di per sé solo il diritto della società interessata a vedersi rilasciare il richiesto titolo formale.

Tanto premesso, importa ancora evidenziare come la l.r. LAZIO n. 21 del 2006 all’articolo 11, rubricato " Condizioni per l’apertura, l’ampliamento e il trasferimento di sede degli esercizi di somministrazione.", disponesse, al comma 4, che "4. Le istanze di rilascio dell’autorizzazione sono esaminate secondo l’ordine cronologico di presentazione. Qualora, entro novanta giorni dalla presentazione dell’istanza per il rilascio dell’autorizzazione, attestata dal protocollo del comune, il richiedente non riceve alcuna comunicazione, la domanda si intende accolta.".

La richiamata normativa regionale prevedeva, pertanto, esplicitamente la fattispecie del silenzio assenso ai fini del rilascio del titolo autorizzatorio alla somministrazione, in applicazione del disposto di cui all’articolo 20 della legge n. 241 del 1990, individuandone il relativo termine, decorrente dalla data di presentazione dell’istanza, come attestata formalmente da parte degli uffici comunali, in 90 giorni; secondo il consolidato orientamento nella materia, tuttavia, l’evento giuridico connesso al decorso del tempo successivo alla presentazione di un’istanza o di una dichiarazione non può perfezionarsi laddove manchino i requisiti ai quali la legge subordina il perfezionarsi del silenzio implicito.

Si tratta ora di verificare se possa fondatamente ritenersi che sull’istanza del 25.7.2009 si potesse astrattamente formare il silenzio assenso ai sensi della normativa regionale invocata a decorrere dalla data di pubblicazione della sentenza di cui in precedenza e, quindi, se, effettivamente, la suddetta fattispecie si sia in concreto, nel caso di specie, realizzata.

Si premette che la sentenza di primo grado emessa dal giudice amministrativo è esecutiva ex lege, sulla base della normativa in vigore alla data di pubblicazione della sentenza di cui trattasi, ai sensi dell’articolo 33 della legge n. 1034 del 1971, come modificato dalla legge n. 205 del 2000, il quale disponeva testualmente, per quanto di interesse, che "Le sentenze dei tribunali amministrativi regionali sono esecutive. Il ricorso in appello al Consiglio di Stato non sospende l’esecuzione della sentenza impugnata.".

Ai fini della produzione dei relativi effetti conformativi nei confronti della pubblica amministrazione, pertanto, alla luce del quadro normativo complessivo nella materia, non è necessario che sulla sentenza del giudice di primo grado si sia formato il giudicato.

E, qualora sia prevista la fattispecie del silenzio assenso ai fini del rilascio di un titolo autorizzatorio, deve fondatamente ritenersi che la medesima fattispecie possa e debba trovare applicazione anche in seconda battuta, ossia dopo che sulla predetta istanza si sia pronunciato il giudice amministrativo. Pertanto, se in prima battuta il termine per la formazione del silenzio assenso sull’istanza decorre dalla data formale di ricevimento della stessa da parte dell’amministrazione, deve ritenersi che, in seconda battuta, ossia dopo una pronuncia del giudice amministrativo di annullamento del diniego sulla detta istanza, il termine decorra, a questo punto, proprio dalla data della comunicazione della suddetta sentenza dalla quale consegue per l’amministrazione l’obbligo di procedere al riesame della stessa. L’amministrazione, in sostanza, dopo la comunicazione della sentenza, ha a disposizione in medesimo spatium deliberandi che la normativa in materia gli riconosce ai fini dell’adozione di un provvedimento formale sull’istanza, pena la formazione del provvedimento di assenso tacito alla stessa.

Applicando il detto principio alla sentenza di cui in precedenza, ne consegue che, a decorrere dalla data della comunicazione della stessa, intervenuta con la notifica effettuata in data 2829.12.2009, l’amministrazione comunale era tenuta a procedere al riesame dell’istanza, attivando la relativa istruttoria, e, quindi, giungendo all’adozione di un provvedimento formale.

A decorrere dalla predetta data di comunicazione della sentenza, deve ritenersi, pertanto, che inizi a decorrere il termine dei 90 giorni di cui al comma 4 dell’articolo 11 della l.r. Lazio n. 21 del 2006 ai fini della formazione del silenzio assenso sull’istanza di rilascio dell’autorizzazione alla somministrazione del 25.7.2009; dunque, secondo una valutazione astratta, il detto termine di 90 giorni sarebbe venuto in scadenza alla data dal 29 marzo 2010 ed alla predetta data si sarebbe potuto formare il provvedimento tacito di assenso.

La deliberazione del Consiglio comunale n. 35 del 2010, concernente il "Regolamento per l’esercizio delle attività di somministrazione di alimenti e bevande ai sensi della Legge Regionale 29 novembre 2006, n. 21 e del Regolamento Regionale 19 gennaio 2009, n. 1.", è stata adottata dal Consiglio Comunale nella seduta del 16 marzo 2010 ed è stata pubblicata all’albo pretorio del comune in data 29 marzo 2010.

Ai sensi dell’articolo 34 del D. Lgs. n. 267 del 2000, rubricato " Esecutività delle deliberazioni", " 3. Le deliberazioni non soggette a controllo necessario o non sottoposte a controllo eventuale diventano esecutive dopo il decimo giorno dalla loro pubblicazione."; il termine di pubblicazione di cui al detto articolo 134 è fissato proprio ed unicamente ai fini della determinazione del termine di inizio dell’esecutività per le delibere soggette a controllo non necessario. Ne consegue che la concreta lesività della posizione giuridica dell’interessato delle dette deliberazioni si produce non dal momento della sottoscrizione della deliberazione, ma da quella in cui la stessa è divenuta esecutiva.

Nel caso di specie, essendo la deliberazione di cui trattasi stata pubblicata in data 29.3.2010, i 10 giorni di cui al richiamato articolo 134 sono venuti a scadenza in data 8.4.2010 e, pertanto, soltanto a decorrere dalla predetta ultima data, la deliberazione ha potuto produrre i suoi effetti.

Ne consegue che le norme di cui agli invocati articoli 10 e 11 della deliberazione C.C. n. 35 del 2010 non erano ancora in vigore e pertanto non erano produttivi dei relativi effetti alla data (29 marzo 2010) in cui si è formato il provvedimento tacito di assenso sull’istanza di rilascio dell’autorizzazione alla somministrazione del 25.7.2009.

L’articolo 10, rubricato "Zonizzazione", dispone testualmente al richiamato comma 4, che "Ai fini della regolamentazione delle attività di somministrazione sono individuati gli Ambiti territoriali…. Caratterizzati dalla presenza di particolari condizioni di concentrazione delle attività commerciali e di elevati livelli di pressione antropica,… e/o di eventuali vincoli di tutela…"; il successivo articolo 11, rubricato " Disciplina degli ambiti", dispone poi che "Negli ambito di cui al comma 4 del precedente articolo 10 non è consentito il rilascio di nuove autorizzazioni per nuove somministrazioni di alimenti e bevande…". Nell’articolo 10, nel Municipio III è individuato l’Ambito 4 che comprende l’intero quartiere di San Lorenzo secondo il perimetro di cui alla planimetria allegata alla deliberazione, ed all’interno del quale ricade la via dei Volsci, interessata dall’istanza della società ricorrente.

Peraltro l’adozione e l’esecutività della detta deliberazione consiliare sono intervenute successivamente alla formazione del giudicato sulla sentenza di cui trattasi, intervenuto al più alla data del 27.2.2010, essendo stata la detta sentenza notificata a cura della società ricorrente all’amministrazione in data 2829.12.2009.

L’impugnata determinazione di annullamento è stata adottata, ai sensi dell’articolo 21 nonies della legge n. 241 del 1990, sulla base del combinato disposto dei richiamati articolo 10, comma 4, e 11 della deliberazione C.C. n. 35 del 2010, ritenuti in linea con la norma di cui all’articolo 64 del D. Lgs n. 59 del 2010.

Si premette, al riguardo, che, nelle ipotesi di silenzio assenso, una volta decorso il termine fissato dalla legge per provvedere, il relativo potere dell’amministrazione deve considerarsi consumato, potendo quest’ultima procedere solo in sede di autotutela all’annullamento dell’atto fictus illegittimamente formato; conseguentemente, deve ritenersi pacificamente ammessa per l’amministrazione la possibilità di disporre, in via di autotutela ed in costanza dei necessari presupposti, l’annullamento o la revoca postumi dell’autorizzazione tacitamente assentita.

L’articolo 21nonies della legge n. 241 del 1990, rubricato "Annullamento d’ufficio", dispone testualmente che " 1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’ articolo 21octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.

2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.".

Per effetto della detta norma, pertanto, l’esercizio della potestà di autotutela decisoria richiede non solo l’esistenza di un vizio dell’atto da rimuovere, ma anche la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione e la comparazione di tale interesse con gli interessi dei destinatari e dei controinteressati, tenendo conto dell’affidamento ingenerato dall’atto circa la legittimità del provvedimento, anche se formatosi per via di silenzio assenso.

In tale ambito, pertanto, rilevano, oltre all’attualità di un interesse pubblico distinto ed ulteriore rispetto al mero ripristino della legalità violata, anche gli interessi di tutte le parti coinvolte e il tempo trascorso dalla determinazione viziata.

Il presupposto per l’esercizio del potere di annullamento di ufficio di cui all’articolo 21 nonies è, tuttavia, l’illegittimità del provvedimento impugnato; ciò si deduce non solo dal tenore testuale del primo comma, ma anche dal puntuale richiamo alla precedente norma di cui all’articolo 21 octies.

L’articolo 21 octies, rubricato "Annullabilità del provvedimento", dispone al riguardo, per quanto di interesse in questa sede, che " 1. E’ annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza….".

Nel caso di specie il profilo di illegittimità del provvedimento tacito di assenso di autorizzazione alla somministrazione è stato individuato dall’amministrazione nella violazione del combinato disposto degli articoli 10, comma 4, e 11 della deliberazione C.C. m. 35 del 2010. Ma tali disposizioni – come già si è anticipato – al momento della formazione dell’invocato silenzio assenso non erano ancora produttive di effetti; ne consegue che non può essere fondatamente sostenuta alcuna illegittimità del provvedimento tacito di cui trattasi per violazione della normativa comunale regolamentare di settore.

E’ evidente, pertanto, l’erroneità del richiamo, contenuto nella motivazione del provvedimento impugnato, al disposto di cui all’articolo 21 nonies.

Né si può ritenere che il provvedimento impugnato, nonostante il nomen e l’espresso richiamo all’articolo 21 nonies della legge n. 241 del 1990, abbia in realtà natura di revoca, adottata ai sensi dell’articolo 21 quinquies della medesima legge.

Anche la revoca, come l’annullamento d’ufficio, è provvedimento di secondo grado, adottato nell’esercizio del potere di autotutela decisoria della pubblica amministrazione, ma è assoggettato a distinti ed autonomi presupposti e con diverse conseguente sul piano degli effetti nei confronti dei diretti interessati.

Il richiamato articolo 21 quinquies, rubricato "Revoca del provvedimento", dispone, infatti, che " 1. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo. Le controversie in materia di determinazione e corresponsione dell’indennizzo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.)"

Ai sensi del predetto articolo, pertanto, tre sono i presupposti che in via alternativa legittimano l’adozione di un provvedimento di revoca di un provvedimento amministrativo ad efficacia durevole da parte dell’autorità emanante ovvero da altro organo previsto dalla legge, cioè sopravvenuti motivi di pubblico interesse, mutamento della situazione di fatto e nuova valutazione dell’interesse pubblico originario; peraltro il provvedimento di revoca deve essere adeguatamente motivato quando incide su posizioni in precedenza acquisite dal privato, non solo con riferimento ai motivi di interesse pubblico che giustificano il ritiro dell’atto, ma anche in considerazione delle posizioni consolidate in capo al privato e all’affidamento ingenerato nel destinatario dell’atto da revocare.

Nel caso di specie la sopravvenienza della nuova disciplina inibitoria di cui alla deliberazione C.C. n. 35 del 2010 avrebbe potuto costituire motivo di interesse pubblico attuale su cui fondare la revoca del provvedimento tacito di assenso.

In effetti l’amministrazione ha adeguatamente rappresentato ed evidenziato l’interesse pubblico in gioco, del quale ha ritenuto di dovere garantire la tutela, ossia "l’esigenza di garantire la sostenibilità ambientale, sociale e vivibilità della zona già fortemente gravata da elevata concentrazione di attività commerciali ed levati livelli di pressione antropica oltre che caratterizzata dalla presenza di vincoli di tutela in materia archeologica, monumentale e storico artistica qual è l’Ambito 4 – Zona San Lorenzo".

La motivazione del provvedimento impugnato non contiene invece alcuna valutazione in ordine alle posizioni giuridiche consolidate in capo al destinatario dell’atto e all’affidamento nello stesso ingenerato e soprattutto non contiene alcuna comparazione tra i contrapposti interessi coinvolti nella vicenda.

In particolare, relativamente al detto ultimo aspetto della comparazione, l’amministrazione si è limitata a rilevare la superiorità dell’interesse pubblico addotto a fondamento dell’esercizio del potere di autotutela da parte della stessa.

Inoltre l’atto di revoca di un provvedimento amministrativo costituisce atto di autotutela decisoria, soggetta alla disciplina dell’articolo 21 quinquies e, pertanto, esso non solo deve contenere le ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione, ma deve anche essere adottato a seguito di comunicazione di avvio del procedimento all’interessato e di controdeduzione alle eventuali osservazioni formulate in sede di partecipazione al procedimento.

Al riguardo è comprovato in atti che la società ricorrente, in riscontro alla comunicazione dell’avvio procedimentale, ha inoltrato all’amministrazione comunale una memoria contenente le sue osservazioni in data 12.7.2010; nel testo del provvedimento impugnato l’amministrazione dà atto del detto deposito e vi dà riscontro sinteticamente limitandosi a sostenerne la irrilevanza ai fini dell’adozione del provvedimento di autotutela proprio e solo in considerazione dell’interesse pubblico superiore come in precedenza testualmente riportato.

Ai sensi dell’articolo 10 bis della legge n. 241 del 1990, le memorie e le osservazioni prodotte dal privato nel corso del procedimento devono essere effettivamente valutate dall’amministrazione ed è necessario che di tale valutazione resti traccia nella motivazione del provvedimento finale.

Tuttavia – se è vero che non sussiste alcun obbligo di specifica disamina e confutazione, in capo all’amministrazione procedente, delle singole osservazioni presentate dagli interessati nell’ambito della partecipazione procedimentale, bastando che sia dimostrata, tramite la motivazione del provvedimento, l’intervenuta acquisizione, cognizione e valutazione di tali apporti partecipativi – l’assolvimento dell’obbligo, imposto dall’articolo 10 bis, di dar conto nella motivazione del provvedimento finale delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni formulate a seguito della comunicazione dei motivi ostativi, non può consistere nell’uso di formule di stile che affermino genericamente la non accoglibilità di tali osservazioni, dovendosi dare espressamente, sebbene sinteticamente, conto delle ragioni che hanno portato a disattenderle.

Nel caso di specie, nella sostanza, l’amministrazione non ha dato conto in alcun modo del percorso seguito, atteso che si è limitata, ai predetti fini, a ribadire la superiorità dell’interesse pubblico sotteso all’esercizio da parte della stessa del potere di autotutela decisoria.

Per le considerazioni tutte che precedono il ricorso deve essere accolto siccome fondato nel merito ai sensi e nei limiti che precedono.

Deve, invece, essere respinta l’istanza risarcitoria così come formulata nel ricorso introduttivo e successivamente ribadita negli scritti difensivi.

Ed infatti la società ricorrente chiede la liquidazione del danno equitativamente determinato in euro 25.000, motivandone la richiesta sulla base della considerazione che il giudizio in trattazione non è stato l’unico che la stessa è stata costretta a proporre dinanzi a questo tribunale ed avuto riguardo alle spese sostenute per la propria difesa.

È evidente che la dedotta prospettazione non merita condivisione; i danni dei quali può chiedersi il risarcimento in questa sede sono solo quelli conseguenti alla affermata illegittimità del provvedimento impugnato.

Le spese sostenute ai fini del giudizio devono essere valutate all’interno del giudizio stesso cui attengono e, pertanto, in questo giudizio, possono solo essere valutate le spese relative all’impugnazione dell’annullamento del provvedimento tacito di assenso di cui trattasi e non anche quelle eventualmente sostenute da parte della società per l’impugnazione di provvedimento diversi sebbene eventualmente connessi in quanto concernenti quella che potrebbe essere valutata alla stregua di una unica vicenda dal punto di visto di fatto.

Inoltre, come si vedrà di seguito, la società ricorrente ha richiesto, altresì, la condanna dell’amministrazione comunale ai sensi dell’articolo 26, comma 2, c.p.a. ed è proprio in tale ambito che deve essere ricondotta la sua richiesta risarcitoria nella parte in cui fa riferimento al danno che presuntivamente sarebbe conseguito per la sola esistenza del processo di cui trattasi.

L’articolo 26 del D.Lgs. n. 104 del 2010, rubricato " Spese di giudizio", dispone che " 1. Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile.

2. Il giudice, nel pronunciare sulle spese, può altresì condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati.".

Secondo un orientamento giurisprudenziale che si ritiene di dovere condividere, la somma di cui al comma 2 dell’articolo 26 c.p.a. deve essere valutata alla stregua di un indennizzo per il "danno lecito da processo", che identifica il nocumento che la parte vittoriosa ha subito per l’esistenza e la durata del processo, anche se la controparte non ha agito o resistito in mala fede o senza prudenza (Consiglio di stato, sez. V, 23 maggio 2011, n. 3083); la suddetta tesi, infatti, oltre a non collidere con la ratio e la lettera della norma, si inserisce armonicamente nel sistema costruito dall’ordinamento nel suo complesso per rendere effettivo il principio di ragionevole durata del processo, affiancandosi alle misure previste dalla c.d. legge Pinto (legge n. 89 del 2001), chiamando la parte che abbia dato corso (o abbia resistito) ad (in) un processo oggettivamente ritenuto ingiustificabile a indennizzare la controparte che sia stata costretta a subirlo.

Il riconoscimento della somma di cui trattasi, tuttavia, è rimessa alla valutazione discrezionale da parte del giudice e la liquidazione della somma è affidata all’equità, qui intesa nel tradizionale significato di criterio di valutazione giudiziario correttivo o integrativo, teso al contemperamento, nella logica del caso concreto, dei contrapposti interessi rilevanti secondo la coscienza sociale (Consiglio di Stato, sez. V, 23 maggio 2011, n. 3083).

Nel caso di specie non si ritiene che sussistano i presupposti per disporre la condanna dell’amministrazione comunale negli invocati sensi.

Le questioni sottese alla definizione del giudizio in corso, infatti, presentano peculiarità tali da non potersi fondatamente sostenere che la decisione si fondi su ragioni manifeste e consolidati orientamenti giurisprudenziali.

Per le considerazioni che precedono, l’istanza risarcitoria, considerata nel suo complesso, non merita accoglimento.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo che segue.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, in parte lo accoglie nei sensi e nei termini di cui in motivazione e, per la parte che residua, lo respinge.

Condanna l’amministrazione comunale al pagamento in favore della società ricorrente delle spese del presente giudizio che si liquidano in complessivi euro 1.500,00 oltre IVA e CPA.

Contributo unificato refuso.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *