Cass. civ. Sez. III, Sent., 30-03-2012, n. 5192 Amministrazione pubblica

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Svolgimento del processo

I fatti di causa rilevanti ai fini della decisione del ricorso possono così ricostruirsi sulla base della sentenza impugnata.

Con atto notificato il 6 settembre 1994 l’Istituto Autonomo Case Popolari della Provincia di Belluno intimò sfratto per morosità al Ministero delle Finanze, contestualmente citandolo per la convalida o, in caso di opposizione, per la pronuncia di sentenza di risoluzione del contratto.

La controparte, costituitasi in giudizio, contestò le avverse pretese.

Nelle more l’A.T.E.R. – Azienda Territoriale Edilizia Residenziale della Provincia di Belluno – subentrata all’I.A.C.P., chiese ed ottenne dal Presidente del Tribunale di Venezia decreto ingiuntivo per il pagamento di L. 207.868.110, oltre interessi e spese, a titolo di canoni non versati dal 1 gennaio 1987 al 30 maggio 1995, data del rilascio.

Avverso il provvedimento monitorio propose opposizione l’ingiunto Ministero, deducendo l’insussistenza della sua obbligazione di pagare i canoni richiesti dalla controparte, in mancanza di valido contratto.

Riunite le due cause, il Tribunale di Venezia, con sentenza non definitiva del 4 marzo 1999, dichiarata cessata la materia del contendere sulla intimazione di sfratto, revocò il decreto ingiuntivo.

Quindi, con sentenza definitiva dell’8 febbraio 2002, accertò che il contratto in data 20 ottobre 1987 si era tacitamente rinnovato fino al momento del rilascio dell’immobile, sicchè il solo corrispettivo dovuto era quello nello stesso previsto.

Proposto gravame da A.T.E.R., la Corte d’appello di Venezia, in data 12 ottobre 2009, in riforma della impugnata sentenza, ha condannato il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento in favore di A.T.E.R. della somma di Euro 107.354,91 (pari a L. 207.868.110), oltre interessi e spese di causa.

Per la cassazione di detta pronuncia ricorre a questa Corte il Ministero dell’Economia e delle Finanze, formulando tre motivi.

Resiste con controricorso, illustrato anche da memoria, A.T.E.R..

Motivi della decisione

1 Con il primo motivo l’impugnante denuncia violazione dell’art. 167 cod. proc. civ.. Assume che A.T.E.R., nel costituirsi nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, si era limitata a chiedere il rigetto del mezzo nonchè la condanna dell’Amministrazione opponente al pagamento dell’ulteriore somma di L. 5.737.956, a ristoro del costo di lavori di manutenzione indilazionabili da essa sostenuti.

Sostiene pertanto che l’ingiungente era decaduta dalla facoltà di proporre domanda riconvenzionale volta ad ottenere il pagamento di importi asseritamente dovuti per l’occupazione sine titulo dell’immobile.

2 Le censure sono prive di pregio per le ragioni che seguono.

Occupandosi della domanda di riconoscimento dell’indennità di occupazione, la Corte territoriale ha rilevato che essa era stata avanzata, in via alternativa, rispetto a quella di pagamento dei canoni, sin dal primo grado di giudizio, e che la richiesta era stata ribadita in sede di precisazione delle conclusioni, segnatamente evidenziando che trattavasi di processo c.d. di vecchio rito.

Ora, tale ratio decidendi, che implica la sottrazione delle deduzioni delle parti al regime di preclusioni introdotto dalla riforma del 90 ( L. 26 novembre 1990, n. 353), è stata del tutto ignorata dal ricorrente, il quale ha svolto critiche prive di riferibilità alla decisione impugnata e come tali inidonee a superare il preventivo vaglio di ammissibilità. In sostanza, quel che andava confutato era proprio l’affermazione, implicita nella motivazione della sentenza della Corte veneziana, della inoperatività delle decadenze connesse alla elaborazione del thema decidendum, attualmente vigenti, laddove nessun rilievo specifico risulta formulato al riguardo dall’impugnante. Ne deriva che il motivo è inammissibile.

3 Con il secondo mezzo il Ministero lamenta violazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ.. Le censure si appuntano contro l’assunto del giudice di merito secondo cui i contatti intervenuti tra le parti per rinegoziare le condizioni della locazione andavano interpretati nel senso che esse avessero inteso risolvere alla scadenza, per mutuo consenso, il contratto in corso, e stipularne, conseguentemente, uno nuovo. Evidenzia per contro l’esponente che dal tenore dell’art. 2 del contratto di locazione si evinceva che l’unica modalità prevista per addivenire allo scioglimento del vincolo pattizio era la formale disdetta dello stesso, da parte dell’Amministrazione, disdetta da effettuarsi almeno sei mesi prima della scadenza. In tale contesto del tutto arbitrario era il convincimento del giudice di merito di una risoluzione consensuale del negozio locativo, dovendo semmai l’instaurazione di trattative essere interpretata in senso antitetico.

Con il terzo motivo l’impugnante denuncia vizi motivazionali con riferimento all’asserita manifestazione della volontà dell’Amministrazione di sciogliere il contratto, volontà desunta da espressioni della lettera in data 22 giugno 1985 che, al contrario rivelavano la volontà della conduttrice di rinnovarne tacitamente gli effetti.

4 Le critiche, che si prestano a essere esaminate congiuntamente, per la loro evidente connessione, sono destituite di ogni fondamento.

I contratti di cui sia parte una pubblica amministrazione devono essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta. Da tanto la giurisprudenza di questa Corte costantemente evince la preclusione all’operatività della rinnovazione tacita, per facta concludentia, dei contratti stessi, ritenendo che altrimenti si perverrebbe all’effetto di eludere il requisito formale voluto dalla legge (confr. Cass. civ., 1 aprile 2010, n. 8000; Cass. Civ. 12 febbraio 2002, n. 1970).

Solo laddove la rinnovazione dell’originario contratto stipulato in forma scritta sia prevista da apposita clausola negoziale, per un tempo predeterminato e subordinatamente al mancato invio di una lettera di disdetta entro un certo termine, la rinnovazione tacita viene considerata ammissibile, reputandosi che in tal caso la previsione contrattuale, per un verso, non elude la necessità della forma scritta e, per altro verso, attesa la predeterminazione della durata del periodo di rinnovazione, consente agli organi della P.A., deputati alla valutazione degli impegni di spesa e dei vincoli di bilancio, di considerare l’opportunità di disdire o meno, nel termine pattuito, il contratto medesimo (confr. Cass. civ. 11 maggio 2005, n. 9933; Cass. civ. 11 dicembre 2002, n. 17646; Cass. civ. 24 novembre 1999, n. 13039).

5 Ora, l’esistenza di una clausola di tal fatta non solo è questione che non è mai entrata nel dibattito processuale – essendosi questo accentrato sul valore sintomatico della condotta delle parti, in termini di scioglimento, per mutuo consenso, della locazione in corso – ma risulta sostanzialmente smentita dalle deduzioni svolte in ricorso, posto che ivi sono riportati stralci del contratto che non prevedono alcuna rinnovazione tacita, men che mai per un tempo predeterminato e subordinatamente al mancato inoltro di una lettera di disdetta.

6 Sotto altro, concorrente profilo, va poi osservato che l’assunto della Corte territoriale, secondo cui l’avvio di trattative per rinegoziare i contenuti economici e normativi della locazione significava inequivocabilmente che le parti consideravano risolto il contratto in corso, del resto venuto a scadenza, costituisce valutazione di stretto merito, congruamente motivata, e come tale incensurabile in sede di legittimità.

In tale contesto il ricorso deve essere integralmente rigettato.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 4.500,00 (di cui Euro 4.300,00 per onorari), oltre I.V.A. e C.P.A., come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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