Cass. civ. Sez. II, Sent., 30-03-2012, n. 5159 Clausola penale Promessa di fatto del terzo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con atto di citazione in data 6 marzo 2001 la s.a.s. Bartolomei di Silvano Bartolomei & C. nonchè B.S. in proprio convennero dinanzi al Tribunale di Rimini B.P.L. e F.M., per ivi sentirli condannare al pagamento della somma di lire 1.932.000.000, oltre accessori.

Gli attori esposero: di avere acquistato in data 3 dicembre 1999 da P.B.L. e da F.M. il 100% delle quote della società La Prima Casa di Pruccoli Lorenzo & C. s.a.s., per il convenuto prezzo di lire 1.000.000.000; che, con scrittura in pari data, i venditori si erano obbligati a liberare entro il 31 marzo 2000 uno degli immobili di proprietà della società, già locato a terzi, pattuendo una penale, in favore di essi cessionari, di lire 6.000.000 per ogni giorno di ritardo; che i venditori non avevano adempiuto a detta obbligazione e che la liberazione dell’immobile era intervenuta ad opera di essi attori solo in data 25 novembre 2000 a mezzo atto transattivo, con il pagamento di lire 175.000.000; che, inoltre, solo a mezzo di ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. era stata ottenuta, in data 16 febbraio 2001, la successiva liberazione di altro locale detenuto dai convenuti medesimi.

Si costituirono i convenuti, resistendo.

Interrotto il processo a seguito del decesso del convenuto P. B.L., si costituirono gli eredi P.B.A., P.B.L. e F.M. ved. P.B., quest’ultima già costituita anche in proprio.

Con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 10 gennaio 2006, il Tribunale di Rimini condannò i convenuti al pagamento, in favore della sola s.a.s. Bartolomei, della somma di Euro 239.000, oltre interessi, sulla base di 239 giorni di ritardo, riducendo in via equitativa a Euro 1.000 per giorno di ritardo l’importo della penale, e compensò tra le parti le spese processuali.

2. – La Corte d’appello di Bologna, con sentenza in data 3 maggio 2010, ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado:

condannando P.B.A., P.B.L. e F.M. ved. P.B. al pagamento di quanto liquidato dal Tribunale anche in favore di B.S. in proprio; e ponendo a carico di P.B.A., P. B.L. e F.M. ved. P.B., in solido, il pagamento del 50% delle spese di primo grado. Nella stessa misura la Corte del gravame ha posto a carico di questi ultimi le spese del giudizio di appello.

2.1. – La Corte d’appello ha rilevato:

– che l’interesse ad agire degli originari attori consegue non già al contratto di cessione di quote sociali, bensì alla scrittura integrativa con la quale è stata pattuita una penale per ogni giorno di ritardo nella "liberazione" della porzione immobiliare ivi indicata, e che non è affatto contrario alla struttura del contratto di cessione di quote che le parti attribuiscano rilevanza a singoli beni del patrimonio ovvero a specifiche qualità dello stesso;

che l’oggetto dell’obbligazione assunta dai cedenti in favore degli acquirenti le quote societarie non è la consegna giuridica degli immobili, bensì la concreta "liberazione" degli stessi a loro cura e spese: obbligazione compatibile con la struttura del contratto di cessione delle quote; che con la scrittura integrativa le parti hanno inteso riconfermare, nell’ambito del nuovo assetto giuridico dei loro rapporti, gli impegni già previsti in un precedente preliminare, riscrivendone il contenuto in un atto avente necessariamente efficacia sostitutiva di ogni precedente pattuizione; che i cedenti le quote societarie hanno promesso il fatto del terzo ai sensi dell’art. 1381 cod. civ.; che, in forza della convenzione intervenuta con la scrittura integrativa del 3 dicembre 1999, la consegna dell’assegno e il pagamento del saldo prezzo della cessione delle quote sono stati posticipati rispetto alla "liberazione" della porzione immobiliare locata cui si sono previamente impegnati i cedenti;

che correttamente la penale, concordata in lire 6.000.000 per ogni giorno di ritardo, è stata dal primo giudice ridotta equitativamente, stante la manifesta sproporzione dell’importo pattuito, ad Euro 1.000 giornalieri, pari a circa un terzo della somma concordata;

– che la limitazione della pronuncia di condanna in favore della sola s.a.s. Bartolomei contrasta con l’eguale diritto attribuito contrattualmente anche a B.S. in proprio e, dunque, con il disposto di cui all’art. 1292 cod. civ..

3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello i P.B. e la F. hanno proposto ricorso, con atto notificato il 15 dicembre 2010, sulla base di sette motivi, illustrati con memoria.

Gli intimati hanno resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo (violazione o falsa applicazione dell’art. 100 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 345 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1382, 1414, 1329, 1453 e 1497 cod. civ., nonchè contraddittorietà, illogicità e, comunque, perplessità della motivazione) si sostiene che, poichè nella specie non vi sarebbe stato alcun trasferimento di immobili bensì unicamente di quote societarie, sui cedenti coniugi P. B. e F. gravavano gli obblighi del venditore solo relativamente alle quote sociali, nessun immobile essendo mai stato oggetto di compravendita, sicchè i cessionari non avrebbero potuto invocare l’operatività della clausola penale prevista per l’ipotesi di mancata liberazione degli immobili societari. L’assunzione di un obbligo alla "liberazione" dell’immobile entro un certo termine e la predeterminazione, con clausola penale, di una sanzione per il mancato o tardivo adempimento di quell’obbligo sarebbero ipotizzabili nel caso di vendita immobiliare, non anche nel caso di cessione di quote sociali. L’obbligazione assunta dai coniugi P.B. e F. con la scrittura integrativa del 3 dicembre 1999 costituirebbe un patto aggiunto all’atto di cessione di quote di pari data, patto inconciliabile con il contratto stesso e quindi nullo e inefficace, non essendo ipotizzabile nel contratto di cessione di quote un obbligo di consegna degli immobili sociali da parte dei cedenti le quote. La Corte d’appello avrebbe pronunciato extra, petita sulla simulazione relativa di una serie di atti e contratti, in primis del contratto di cessione di quote, e sull’efficacia di un presunto contratto dissimulato di compravendita immobiliare, così mutando la causa, petendi della domanda proposta, attribuendo alla scrittura integrativa del 3 dicembre 1999 la valenza di patto aggiunto al contratto di cessione di quote, valenza che invece avrebbe potuto "giuridicamente e attualmente" avere solo se considerata patto aggiunto ad un contratto di compravendita immobiliare. Deducono infine i ricorrenti che la Silvano Bartolomei s.a.s. è un soggetto giuridico distinto dalla s.a.s. Bartolomei e dalla persona fisica B.S. che hanno acquistato le quote sociali della s.a.s. La Prima Casa dai coniugi P. B. e F..

1.1. – Il motivo è infondato.

Non v’è dubbio che la cessione di quote di una società in accomandita semplice, nel cui patrimonio vi siano beni immobili, non è in alcun modo assimilabile al trasferimento a titolo oneroso della proprietà o della comproprietà degli immobili predetti, atteso che la cessione della quota sociale attribuisce al socio subentrato non la proprietà di una porzione dei beni della società, ma una quota del relativo patrimonio (Cass., Sez. 3, 21 marzo 2001, n. 4020;

Cass., Sez. 3, 19 luglio 2007, n. 16031; Cass., Sez. 1, 10 maggio 2010, n. 11314; Cass. Sez. 2, 16 dicembre 2010, n. 25468).

E tuttavia, anche in un contratto di cessione di quote la qualità o il valore dell’immobile, facente parte del patrimonio della società, può assumere rilevanza nel rapporto tra cedente e cessionario tutte le volte in cui il cedente abbia fornito al cessionario specifiche garanzie contrattuali al riguardo (Cass., Sez. 3, 19 luglio 2007, n. 16031, cit.; Cass., Sez. 1, 3 maggio 2010, n. 10648).

Ed è appunto questa la situazione verificatasi nella specie.

Infatti, dopo avere conferito tutti gli immobili di cui erano proprietari alla s.a.s. La Prima Casa di Pruccoli Bianchi Lorenzo e C., P.B.L. e F.M. hanno ceduto le loro quote di partecipazione, con atto per notar Tabacchi del 3 dicembre 1999, alla s. a. s. Bartolomei di Bartolomei Silvano e C. e, in parte la sola F., a B.S. in proprio;

contestualmente, le medesime parti del contratto di cessione hanno stipulato una separata scrittura privata con la quale, datosi atto che una porzione degli immobili di proprietà della s.a.s. La Prima Casa era condotta in locazione da terzi, i cedenti hanno promesso la "liberazione" di tale porzione da parte della società conduttrice, impegnandosi, in caso contrario, a pagare una penale (pari a lire 6.000.000 per ogni giorno di ritardo successivo al 31 marzo 2000).

Su questa base, correttamente la sentenza impugnata ha ritenuto che la garanzia di utilità assunta dai promittenti era quella di cui al patto integrativo del 3 dicembre 1999, contenente una promessa che si inseriva nel rapporto contrattuale di cessione di quote sociali allo scopo di accrescere il valore complessivo dell’affare; ed ha riconosciuto l’interesse ad agire degli attori, i quali con il predetto patto, si erano visti garantito il conseguimento di un vantaggio (la concreta "liberazione" di una porzione degli immobili a cura e spese dei cedenti), laddove la s.a.s. Silvano Bartolomei, già s.a.s. La Prima Casa, non aveva alcun diritto da far valere nei confronti dei cedenti, essendo detta società, attraverso le quote che ne rappresentavano il capitale sociale, l’oggetto dell’acquisto principale.

Nè può essere condiviso l’ulteriore assunto dei ricorrenti, a cui avviso la scrittura integrativa del 3 dicembre 1999 costituirebbe un patto aggiunto all’atto di cessione di quote di pari data, inconciliabile con il contratto stesso e quindi nullo ed inefficace.

In quanto promessa del fatto altrui (la "liberazione", da parte del conduttore, dell’immobile facente parte del patrimonio della società le cui quote erano oggetto di separata cessione), il negozio stipulato con la scrittura integrativa ha il carattere di un frammento di una fattispecie più ampia, accedendo al programma contrattuale di cui alla cessione di quote, concorrendo ad aumentare il valore di queste.

Nè è configurabile il vizio di extrapetizione, non contenendo la sentenza impugnata, diversamente da quanto assumono i ricorrenti, alcuna statuizione di simulazione relativa dei contratti posti in essere.

2. – Con il secondo mezzo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 1103 e 1108 cod. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè contraddittorietaÂ~, illogicità e, comunque, perplessità della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Con esso si sostiene che il preliminare del 12 agosto 1999 era inesistente o comunque affetto da nullità assoluta, perchè stipulato dal solo P.B.L. (nonostante il complesso immobiliare promesso in vendita appartenesse in comproprietà anche a sua moglie F.M.), il quale dichiarò addirittura il falso, garantendo che quel complesso era di sua esclusiva proprietà. Quindi l’atto integrativo del 3 dicembre 1999, contenente l’obbligo di "liberazione", sarebbe a sua volta inesistente, perchè facente riferimento ad un contratto preliminare che non è mai venuto ad esistenza, oltre perchè prevedente un obbligo di liberazione degli immobili societari che non sussiste a carico dei cedenti le quote.

2.1. – Il motivo non coglie la ratio decidendi. La sentenza impugnata ha infatti rilevato come le parti – con la cessione delle quote e con la contestuale promessa del fatto del terzo, contenente una clausola penale per il caso di ritardo nell’adempimento – hanno negozialmente superato il precedente preliminare (con cui il solo P.B. L. aveva promesso di vendere a B.S. gli immobili, impegnandosi, anche in quel caso, a che la porzione oggetto del mappale 609 fosse liberata da persone e cose entro il 28 febbraio 2000 e a riconoscere una penale alla parte acquirente per ogni giorno di ritardo), pur confermando, nell’ambito del nuovo assetto conseguente alla costituzione della società tra i coniugi P. B. e F. e al conferimento degli immobili nel patrimonio di detta società, gli impegni già previsti, in modo da far conseguire alle parti il medesimo risultato economico.

3. – Con il terzo motivo (violazione o falsa applicazione degli artt. 1346, 1372, 1418, 1419 e 1381 cod. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè contraddittorietà, illogicità e, comunque, perplessità della motivazione) si deduce che 1’obbligazione assunta dai cedenti le quote nel patto integrativo del 3 dicembre 1999 sarebbe stata impossibile, perchè l’affittuario dell’immobile oggetto di quella scrittura aveva diritto di restare nella detenzione del bene locato fino al 31 gennaio 2012, e quindi sussisteva un impedimento giuridico all’adempimento dell’obbligazione.

3.1. – Il motivo è infondato.

La promessa, da parte del venditore di quote sociali, della liberazione, ad opera del conduttore e prima della scadenza del contratto, dell’immobile da questo detenuto e destinato ad uso diverso dall’abitazione (immobile già di proprietà del venditore e poi conferito nel patrimonio sociale), non è nulla per impossibilità giuridica del fatto del terzo, giacchè la sanzione di nullità prevista dalla L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 79, non opera quando il conduttore già si trovi nel possesso del bene e addivenga ad una regolamentazione degli effetti di fatti verificatisi nel corso del rapporto e che, perciò, incidono su situazioni giuridiche già sorte e disponibili (cfr. Cass., Sez. 3, 17 maggio 2010, n. 11947).

4. – Il quarto mezzo (violazione o falsa applicazione degli artt. 1460, 1277, 1218 e 1228 cod. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè contraddittorietà, illogicità e, comunque, perplessità della motivazione) censura il mancato accoglimento, da parte della sentenza impugnata, dell’eccezione di inesatto adempimento sollevata dai convenuti in primo grado, i quali lamentavano che la s.a.s. Bartolomei avesse omesso di corrispondere a F.M. la somma di lire 200.000. quale saldo del prezzo di acquisto delle quote sociali.

4.1. – La censura è priva di fondamento: come esattamente rilevato dalla Corte d’appello, con logico e motivato apprezzamento degli atti negoziali, non essendovi stata alcuna liberazione dell’immobile de quo alla data del 28 febbraio 2000, non si è verificato quel fatto al quale le parti, con la scrittura integrativa del 3 dicembre 1999, avevano inteso subordinare il completamento del prezzo.

5. – Il quinto mezzo è rubricato "violazione o falsa applicazione degli artt. 1384, 1226, 1227 e 2056 cod. civ. e dell’art. 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, inesistenza o, quanto meno, insufficienza, contraddittorietà, illogicità e, comunque, perplessità della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5". Con esso si censura che la riduzione della penale sia stata operata in maniera inadeguata e insufficiente.

Il giudice d’appello avrebbe dovuto ridurre ulteriormente la penale, tenendo conto del valore del contratto e dell’inesistente o quanto meno scarso interesse dei cessionari all’adempimento.

5.1. – La censura è infondata.

Premesso che la clausola penale può accedere, con funzione rafforzativa, ad una promessa del fatto del terzo (Cass., Sez. 3, 15 settembre 1970, n. 1461; Cass., Sez. 2, 16 marzo 1988, n. 2468), occorre premettere che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, 8 maggio 2001, n. 6380; Sez. 2, 23 maggio 2002, n. 7528; Sez. 3, 18 marzo 2003, n. 3998; Sez. 2, 16 marzo 2007, n. 6158;

Sez. 3, 16 febbraio 2012, n. 2231), l’apprezzamento sulla eccessività dell’importo fissato con clausola penale dalle parti contraenti, per il caso di inadempimento o di ritardato adempimento, nonchè sulla misura della riduzione equitativa dell’importo medesimo, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio è incensurabile in sede di legittimità, se correttamente fondato, a norma dell’art. 1384 cod. civ., sulla valutazione dell’interesse del creditore all’adempimento con riguardo all’effettiva incidenza dello stesso sull’equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale, indipendentemente da una rigida ed esclusiva correlazione con l’entità del danno subito.

Nella specie, la Corte d’appello ha premesso, ai fini dell’an della riduzione, che la determinazione quantitativa della penale era ictu oculi manifestamente sproporzionata, come dimostrato dal fatto che l’originaria richiesta di parte attrice di lire 1.932.000.000, ottenuta moltiplicando i giorni di lamentato ritardo (322) per l’importo giornaliero pattuito (lire 6.000.000), avrebbe addirittura portato a superare il valore del contratto (cessione di quote sociali per il prezzo di lire 1.000.000.000) cui la pattuizione accedeva, tanto che gli stessi attori, in corso di causa, avevano diminuito l’importo della richiesta a Euro 500.000.

Ai fini del quantum, la Corte territoriale – nel confermare la riduzione dei 2/3 della penale (Euro 1.000 anzichè lire 6.000.000 per ciascun giorno di ritardo, accertati in 239) operata dal primo giudice – ha considera che i cessionari, per ottenere la liberazione dei beni locati, pattuita a cura e spese dei cedenti, avevano transattivamente versato l’importo di lire 175.000.000 (pari ad Euro 90.379,86), oltre IVA, e ciò aveva loro permesso di ottenere in data 25 novembre 2009, circa otto mesi dopo la data negozialmente prevista, il rilascio del bene; e ha valuta l’incidenza del ritardo nell’economia complessiva del contratto principale di cessione di quote di società, rilevando che "la quantificazione della penale operata dal primo giudice, corrispondente al 46% del prezzo di vendita, a fronte di un persistente blocco del progetto edilizio dovuto ad altra causa, appare rispettoso sia dell’interesse dei cessionari sia del sinallagma contrattuale".

La Corte territoriale, quindi, ai fini del quantum della riduzione della penale manifestamente eccessiva, ha considerato l’esborso monetario al quale si sono dovuti sobbarcare i cessionari per ottenere, essi, la liberazione dell’immobile, necessaria (ancorchè non sufficiente) per la realizzazione della divisata trasformazione edilizia, e ha valutato l’aspettativa di profitto dei promissari delusi, tenendo conto dell’interesse patrimoniale dei creditori al conseguimento di detta liberazione nell’economia generale del più ampio programma contrattuale in cui la promessa del fatto del terzo si inseriva.

Si tratta di una motivazione priva di mende logiche e giuridiche: la penale, nella misura in cui è stata ridotta, appare in un ragionevole rapporto con i costi sostenuti e con il danno complessivamente subito, e non esibisce una valenza meramente punitiva o sovra-compensativa del reale interesse che i cessionari avevano al tempestivo adempimento.

6. – Il sesto motivo (violazione o falsa applicazione dell’art. 100 cod. proc. civ., degli artt. 1292, 1294 e 1297 cod. civ., nonchè inesistenza o, quanto meno, insufficienza, contraddittorietà, illogicità e, comunque, perplessità della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5) censura che la Corte d’appello abbia esteso la condanna anche in favore di B.S. in proprio, deducendo che la solidarietà attiva non si presume, ma deve risultare solo dalla legge e dal titolo.

6.1. – La censura è infondata, avendo la Corte d’appello accertato – con congruo e motivato apprezzamento delle risultanze di causa e in chiara applicazione dei principi desumibili dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. Un., 25 ottobre 1979, n. 5572; Sez. 3, 6 agosto 2010, n. 18362) – che il titolo negoziale, pur in assenza di clausole espresse o di formule sacramentali, conferisce a ciascuno dei cessionari promissari, e quindi anche a B.S. in proprio, il diritto di pretendere l’adempimento dell’intera obbligazione, con effetto liberatorio anche nei confronti dell’altro creditore.

7. – Il settimo motivo – con cui si censura, sotto il profilo del vizio di violazione di legge (art. 92 cod. proc. civ.) e del difetto di motivazione, la regolamentazione delle spese di lite operata dalla Corte d’appello – è infondato, perchè la regolamentazione delle spese nei due gradi di merito è avvenuta in base al principio di soccombenza.

8. – Il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta, il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese processuali sostenute dai controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 4.200, di cui Euro 4.000 per onorari, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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