Cass. civ. Sez. II, Sent., 30-03-2012, n. 5153 Azioni per il rispetto delle distanze

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con citazione dell’8/9/1989 I.A. e I. B. convenivano in giudizio F.F., proprietaria di un fondo confinante, esponendo che la convenuta:

– aveva edificato sulla particella 1109 a distanza di metri 1,10 dal confine e ivi aveva aperto due vedute, in violazione della distanza legale;

– aveva invaso il loro fondo costruendovi un marciapiedi e collocandovi una condotta del gas e una tubazione per l’acqua;

– aveva costruito una cisterna in violazione della distanza legale;

– aveva dimesso l’assetto di una canaletta di irrigazione sostituendo con altra di cemento posta sul confine;

– aveva impedito l’esercizio di una servitù di passaggio in favore del loro fondo costruendo un muretto con ringhiera;

– aveva modificato l’originario scolo delle acque;

– aveva ampliato una costruzione in danno dello spazio comune.

Ciò premesso, le attrici chiedevano:

l’arretramento della costruzione sulla particella 1109 con eliminazione delle vedute;

– la demolizione del marciapiede, del tubo del gas e della tubazione cementizia per l’acqua;

– la demolizione della cisterna e del muretto che impediva il passaggio;

– il ripristino dello scolo delle acque;

la demolizione della costruzione che invadeva la proprietà comune;

– la declaratoria di inesistenza di un asservimento di un terreno per l’uso di una campana, che tuttavia, non forma più oggetto del contendere.

La convenuta si costituiva chiedendo il rigetto delle domande.

Con sentenza del 23/2/1999 il Tribunale di Palermo rigettava tutte le domande attrici.

Le I. proponevano appello al quale resisteva la F. chiedendo, con appello incidentale, la condanna delle attrici al pagamento delle spese del primo grado che il Tribunale aveva compensate.

La Corte di Appello di Palermo con sentenza del 25/9/2009, all’esito di una seconda CTU, correttiva della prima e sulla base di un frazionamento redatto su foglio di mappa rilasciato dall’UTE, allegato ad un atto di divisione, accertava che il confine di diritto e quello di fatto non coincidevano e che la F. aveva invaso mq.

70,22 della proprietà delle I. e condannava F. F.:

– a rimuovere il marciapiede e le sottostanti tubazioni in quanto collocati sul fondo delle I., i cui confini erano stati ricostruiti sulla base della situazione di diritto, difforme da quella di fatto;

– a riportare la canaletta irrigua per lo scolo delle acque nella sede originaria perchè la F., in violazione dell’art. 1068 c.c. l’aveva spostata dalla sua sede originaria, a nulla rilevando la circostanza che le modifiche non ne avessero compromesso la funzionalità;

a eliminare le due finestre aperte a distanza inferiore a un metro e mezzo dal confine;

– ad arretrare ad un metro e mezzo dal confine, come richiesto dalle attrici, la costruzione sulla particella 1109, non in aderenza e la cui parete era posizionata, in alcuni punti a distanza inferiore al metro e mezzo dal confine;

– ad arretrare la cisterna del gas (distante solo mt. 1,52 dal confine) alla distanza di metri tre dal confine, come prescritto dal D.M. 31 marzo 1984;

– a demolire il muretto che impediva l’esercizio della servitù di passaggio, essendo irrilevante che il passaggio potesse essere esercitato in altro luogo perchè ai sensi dell’art. 1068 c.c. l’esercizio della servitù non può essere trasferito in luogo diverso per iniziativa unilaterale del proprietario occorrendo l’accordo o il provvedimento dell’autorità giudiziaria;

– a demolire la parte di costruzione (realizzata in ampliamento di una cappella costruita sul fondo della F.) che andava ad invadere, per metri 8,40, il fondo di proprietà comune.

F.F. propone ricorso per Cassazione affidato a sette motivi.

I.A. e I.B. sono rimaste intimate.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, così testualmente rubricato "contraddittoria motivazione in relazione ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio" la ricorrente deduce che nessuna indagine avrebbe svolto il giudice di appello in merito alla datazione del confine di fatto che sarebbe diverso dal confine di diritto; sostiene che il confine di fatto era tale sin dal momento della divisione del 1945 e che pertanto al momento del suo acquisto della particella 1109, avvenuto nel 1988 il precedente proprietario aveva usucapito l’intera particella delimitata dal confine di fatto e la relativa eccezione era stata proposta già con la comparsa conclusionale del giudizio di primo grado, con la conseguenza che marciapiede, tubazione idrica e condotta del gas ritenute realizzate sul fondo delle I. erano, invece realizzate sul suolo proprio.

1.1 La censura è inammissibile per difetto di autosufficienza in quanto si richiamano atti e documenti (relativi alla consistenza ed estensione del fondo, al supplemento di CTU, alla documentazione fotografica aerea del 1973) dai quali dovrebbe risultare un confine di fatto esistente da un tempo necessario per la maturazione del termine di usucapione senza riportare i contenuti degli atti suddetti. Occorre, infatti riaffermare il principio, non rispettato dalla ricorrente, per il quale il ricorso per cassazione deve contenere in sè gli elementi necessari a fondare le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito; ne consegue che, nell’ipotesi in cui, con il ricorso per cassazione, venga dedotta l’incongruità, l’insufficienza o contraddittorietà della sentenza impugnata per l’asserita mancata valutazione di risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi, mediante integrale trascrizione della medesima, la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di cassazione, alla quale è precluso l’esame diretto degli atti, di delibare la decisività della medesima, dovendosi escludere che la precisazione possa consistere in meri commenti, deduzioni o interpretazioni delle parti. (Cass. 24/5/2006 n. 12362; Cass. 27/2/2009 n. 4849).

Occorre ancora rilevare che, benchè denunci un vizio di motivazione (come detto inammissibile per difetto di autosufficienza) il ricorrente ha implicitamente lamentato anche un’omessa pronuncia sulla sua eccezione di usucapione che, a suo dire, sarebbe stata sollevata nel processo, ma, al riguardo, indica un solo atto processuale nel quale l’eccezione sarebbe stata sollevata, ossia la comparsa conclusionale di primo grado; tuttavia, sotto questo profilo, la censura è inammissibile in quanto non risulta che l’eccezione sia stata portata all’esame del giudice di appello e ne discende che il giudice non doveva pronunciarsi su tale eccezione;

infatti, come ripetutamente affermato da questa Corte regolatrice, la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado(come, nella specie, era la F.), difettando di interesse al riguardo, non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione "le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado", da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perchè assorbite o anche quelle esplicitamente respinte qualora l’eccezione mirava a paralizzare una domanda comunque respinta per altre ragioni; la parte, tuttavia, è tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ. (cfr. Cass. 26/11/2010 n. 24021).

Con riferimento alle censure che dovrebbero essere portate all’esame del giudice di appello si deve osservare che, per il principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente avrebbe dovuto, a pena di inammissibilità, specificare in quale atto difensivo o verbale di udienza di appello avesse formulato quella eccezione, per consentire al giudice di verificarne la ritualità e tempestività e, quindi, la decisività della questione; la violazione dell’art. 112 c.p.c., pur configurando un "error in procedendo" per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del "fatto processuale", non è vizio rilevabile d’ufficio, il potere – dovere della Corte di esaminare direttamente gli atti processuali – non significa che la medesima debba ricercarli autonomamente, spettando, invece, alla parte indicarli (Cass. 17/1/2007, n. 978, Cass., sez. 2A, 19/3/2007 n. 6361, Cass., sez. un., 28/7/2005, n. 15781; Cass. 14/5/2010 n. 11730).

Tale necessaria indicazione è stata del tutto omessa, e quindi il motivo, anche sotto questo diverso profilo, va dichiarato inammissibile.

2. Con il secondo motivo, così testualmente rubricato "contraddittoria motivazione in relazione ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio" la ricorrente, in ordine alla motivazione della condanna a riportare la canaletta irrigua per lo scolo delle acque nella sua sede originaria, deduce che la motivazione sarebbe lacunosa e contraddittoria e in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte circa la legittimità delle innovazioni apportate al fondo quando non costituiscano aggravamento della servitù. 2.1 Il motivo è infondato in quanto non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, secondo la quale nella fattispecie non viene in rilievo il divieto di eseguire innovazioni che rendano più gravoso l’esercizio della servitù (art. 1067 c.c.), ma, essendo stato accertato che era stata cambiato il tracciato originario della canaletta, veniva in rilievo il divieto di trasferire la servitù di cui all’art. 1068 c.c., rispetto al quale era ininfluente il fatto che le innovazioni non ne avessero compromesso la funzionalità. 3. Con il terzo motivo, così testualmente rubricato "violazione e falsa applicazione della norma di diritto della L.R. Sicilia 27 dicembre 1978, art. 22, lett. B n. 11" la ricorrente deduce la Corte di Appello avrebbe erroneamente applicato la suddetta norma ritenendo prescritta una distanza minima tra fabbricati di metri 20, prevista invece per una tipologia di fabbricati diversi rispetto a quelli di causa che ricadono nella zona di verde agricolo per la quale non sono previste distanze tra fabbricati o da confini.

Dovrebbe, quindi, applicarsi l’art. 87 della legge citata e, di conseguenza, il criterio della prevenzione, tenuto conto che il fondo delle I. non è edificato.

3.1 La censura è inammissibile per irrilevanza in quanto, a prescindere dal richiamo alle norme regionali che si assumono erroneamente applicate, il giudice di appello ha disposto l’arretramento della costruzione a metri 1,50 dal confine con ciò conformandosi a quanto prescritto inderogabilmente dall’art. 873 c.c. per il quale le costruzioni, se non sono unite o in aderenza, devono essere tenute ad una distanza non minore di tre metri; pertanto per consentire al proprietario del fondo finitimo l’esercizio della stessa possibilità di costruire, la F. avrebbe dovuto mantenere la sua costruzione alla distanza di almeno un metro e mezzo dal confine; non può operare l’invocato principio della prevenzione, in quanto trattasi di principio applicabile per le costruzioni sul confine e non per le costruzioni, come quella per cui è causa, arretrate rispetto alla lìnea di confine, ma non arretrate oltre il metro e mezzo (il CTU ha accertato che una parte della costruzione era stata realizzata a distanza variabile tra cm. 80 e c.m. 63: v. pag 10 della sentenza impugnata); infatti, non può essere imposto al secondo costruttore l’obbligo di un distacco dal confine superiore rispetto a quello pari alla metà della distanza minima di tre metri tenuto conto che il proprietario confinante non ha la possibilità di costruire in appoggio o in aderenza o di avanzare la propria costruzione sul terreno intermedio di proprietà aliena e quindi di poter esercitare i diritti di cui all’art. 875 c.c. (cfr. Cass. n.5349/1982, 7129/1993, 3506/1999; Cass. 17/1/2003 n. 627).

4. Con il quarto motivo, così testualmente rubricato "violazione e falsa applicazione della norma di diritto dell’art. 1068 c.c.", con riferimento alla condanna alla demolizione del muretto con ringhiera che impediva l’esercizio della servitù di passo, la ricorrente deduce il mancato riconoscimento del diritto potestativo del proprietario del fondo servente di offrire un altro luogo egualmente comodo per l’esercizio della servitù; la ricorrente assume di avere sempre consentito il passaggio sui marciapiedi dove esisteva il viottolo sul quale era esercitato il passaggio.

4.1 Il motivo è infondato in quanto non attinge la ratio decidendi della decisione per la quale non si contesta che l’esercizio della servitù possa essere trasferito da un luogo ad un altro, ma si contesta che ciò possa avvenire per iniziativa unilaterale del proprietario del fondo dominante, essendo invece necessario un accordo o un provvedimento giudiziale (nella specie non risulta proposta la relativa domanda); in assenza delle suddette condizioni, l’eccezione della ricorrente non ha pregio e la sentenza di appello merita conferma.

5. Il quinto motivo, così testualmente rubricato "omessa motivazione in relazione ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio" riguarda la condanna alla demolizione dell’ampliamento dell’edificio (cappella) nella parte in cui ha invaso la particella 73 (corte antistante i fabbricati e di uso comune); la ricorrente deduce che non vi sarebbe motivazione in ordine al ritenuto ampliamento della cappella, che l’edificio non sarebbe suscettibile di demolizione, che la costruzione di un manufatto sul terreno comune è consentita se non altera la normale destinazione del bene, che la parte della particella n. 73, occupata dall’edificio sarebbe stata usucapita. 5.1 II motivo è inammissibile in quanto introduce nel giudizio di legittimità questioni di fatto (l’usucapione, l’insussistenza di un ampliamento della cappella e la sua inidoneità ad alterare la normale destinazione del bene) che devono essere ritenute del tutto nuove in quanto nè dal ricorso nè dalla sentenza di appello risulta che siano state trattate nel giudizio di appello.

6. Con il sesto motivo, così testualmente rubricato "violazione e falsa applicazione della norma di diritto dell’art. 905 c.c." la ricorrente deduce che il giudice di appello, erroneamente applicando la norma che vieta l’apertura di vedute dirette sul fondo confinante a distanza inferiore al metro e mezzo, avrebbe disposto la demolizione del corpus della violazione, mentre avrebbe potuto adottare accorgimenti meno gravosi per il proprietario confinante, come ad esempio la loro trasformazione in luci.

6.1 Il motivo è del tutto privo di fondamento in quanto totalmente estraneo rispetto al contenuto e al dispositivo della sentenza appellata nella quale è disposta, semplicemente, l’eliminazione delle due vedute; infatti, il dispositivo della sentenza reca la condanna di F.F. a "…eliminare le due vedute aperte al primo piano…poste a distanza illegale dal confine"; l’arretramento della costruzione (a metri 1,50 dal confine) è stato invece disposto per la violazione della distanza legale della costruzione dal confine.

7. Con il settimo motivo, così testualmente rubricato "violazione e falsa applicazione delle norme del D.M. Interno 31 marzo 1984" la ricorrente deduce che per stabilire la distanza legale del serbatoio del gas fuori terra, posto a distanza di metri 2,64 dal confine, sarebbe stata fatta applicazione del D.M. 31 marzo 1984 che invece non era più applicabile perchè abrogato dal D.M. 14 maggio 2004 che fissava la distanza dal confine in metri tre, ma con possibilità di dimezzare la distanza mediante interramento dei serbatoi o mediante interposizione di muri fra gli elementi pericolosi del deposito e gli elementi da proteggere; il muro di protezione, secondo la ricorrente potrebbe essere costituito anche da un muro sul confine e quindi la Corte di Appello avrebbe potuto limitarsi a condannarla a realizzare un piccolo muro di protezione.

7.1 Il motivo è infondato sotto ogni possibile profilo perchè:

– il D.M. 14 maggio 2004, art. 1, comma 3 stabilisce che "Le disposizioni del presente decreto si applicano ai depositi di nuova installazione. Le stesse disposizioni si applicano altresì ai depositi esistenti alla data di entrata in vigore del presente provvedimento in caso di sostanziali modifiche o ampliamenti"; per l’applicabilità della nuova normativa occorreva, quindi, provare il presupposto di applicabilità sopra indicato;

– la Corte di Appello ha rilevato che il deposito per il gas doveva essere collocato ad una distanza non inferiore a tre metri dal confine, mentre era collocato alla distanza di metri 1,52; la distanza di tre metri è stabilita anche dalla normativa richiamata dalla ricorrente la quale, tuttavia, sostiene che avrebbe potuto applicarsi distanza dimidiata, prevista per i casi in cui fossero adottate misure di protezione, che tuttavia, in concreto, non risultano adottate; la censura è, dunque, totalmente irrilevante ai fini della riforma della sentenza impugnata.

Il ricorso deve quindi essere rigettato; attesa la mancata costituzione delle resistenti non si provvede sulle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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