Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-03-2012, n. 5118 Cumulo pensione-retribuzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’appello di Brescia, confermando analoga decisione del Tribunale del lavoro di Cremona, ha affermato il diritto di L.E., dipendente part time dell’INPS L. n. 662 del 1996, ex art. 1, comma 185, fino al 31 marzo 2003, con godimento parziale della pensione di anzianità, a percepire quest’ultima in misura integrale per il periodo dal 1 gennaio al 31 marzo 2003. A giudizio della Corte il tenore letterale della disciplina contenuta nella legge cit., art. 1, commi 185, 186 e 187, – che prevedeva per i dipendenti privati e pubblici un divieto parziale di cumulo tra pensioni di anzianità e redditi di lavoro in deroga all'(allora) vigente regime di non cumulabilità – era tale da denotarne il carattere di normativa di portata generale; per cui il successivo intervento del legislatore, che, nella L. n. 289 del 2002, art. 44 con previsione (anch’essa) di carattere generale, aveva abolito, per i pensionati di anzianità alla data del 1 dicembre 2002, il divieto di cumulo tra la pensione e i redditi di lavoro con decorrenza dal 1 gennaio 2003, era indubitabilmente da riferire a quella stessa disciplina, conseguendone, anche per i dipendenti pubblici cui era stato consentito il passaggio al rapporto di lavoro a tempo parziale, il diritto all’attribuzione dell’intero trattamento pensionistico.

Per la cassazione di questa sentenza l’INPS ha proposto ricorso fondato su un unico motivo. Resiste L.E. con controricorso.

L’INPS ha depositato istanza di trattazione della causa ai sensi della L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 26.

Motivi della decisione

1. Nell’unico motivo l’INPS deduce violazione ed erronea interpretazione della L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 185 e 187 e della L. n. 289 del 2002, art. 44 oltre a vizio di motivazione.

Premette che la L. n. 662 del 1996 ha previsto, per i lavoratori privati e pubblici, la possibilità di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale con contestuale (cioè senza cessazione del rapporto stesso) fruizione della pensione di anzianità. Ricorda, quindi, che il divieto di cumulo tra pensioni di anzianità e redditi di lavoro è stato abolito dalla L. n. 289 del 2002, art. 44 ma conclude sostenendo che detta norma non può incidere – abrogandola – sulla disciplina delineata dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 185 e segg. avendo questa carattere speciale, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello.

2. Il ricorso è fondato.

3. La questione prospettata dall’INPS è stata recentemente esaminata da questa Corte in termini approfonditi e assolutamente condivisibili nelle sentenze nn. 25800, n. 26869 e n. 27041, tutte del 2011, che hanno svolto le seguenti considerazioni.

4. Fin dalla formulazione della L. n. 153 del 1969 (art. 22), per la pensione di anzianità dei dipendenti privati è stato previsto il regime della non cumulabilità per l’intero con il reddito da lavoro dipendente e detta non cumulabilità è rimasta inalterata anche nella disciplina del D.Lgs. n. 503 del 1992, dovendo il lavoratore subordinato risolvere il rapporto di lavoro per potere godere della prestazione pensionistica (art. 10, commi 1, 2 e 6). Un’ulteriore tappa del processo evolutivo riguarda il regime di cui alla Legge di riforma del sistema pensionistico n. 335 del 1995, per le pensioni da liquidare esclusivamente con il sistema contributivo una volta soppressa la distinzione tra pensione di vecchiaia e pensione di anzianità. Tale riforma aveva previsto la vigenza, fino al compimento da parte dell’interessato dell’età di 62 anni, del regime di non cumulabilità con il reddito da lavoro dipendente, nella sua interezza, e con il reddito da lavoro autonomo nella misura del 50% della parte eccedente il trattamento minimo; invece, dall’età di 63 anni in poi, era previsto il regime di non cumulabilità della pensione con i redditi sia da lavoro dipendente che da lavoro autonomo nella misura del 50% della parte eccedente l’importo del trattamento minimo (art. 1, commi 21 e 22). Detti limiti al cumulo tra pensioni di vecchiaia e di anzianità e redditi da lavoro sono ormai sostanzialmente superati. Infatti, la L. n. 388 del 2000, art. 72 e (poi) la L. n. 289 del 2002, art. 44 hanno previsto l’intera cumulabilità con i redditi da lavoro autonomo o da lavoro dipendente delle pensioni di vecchiaia e delle pensioni di anzianità (queste ultime purchè acquisite con una determinata anzianità contributiva). Successivamente, con decorrenza dal 1 gennaio 2009, il D.L. n. 112 del 2008, art. 19 (convertito nella L. n. 133 del 2008) ha pienamente "liberalizzato" il cumulo, contemporaneamente abrogando la L. n. 335 del 1995, art. 1, commi 21 e 22. 5. Tanto premesso, per stabilire se l’attuale regime di cumulabilità piena tra pensioni di anzianità e redditi da lavoro sia applicabile anche nelle ipotesi disciplinate dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 185, (norma nata come eccezione di favore in deroga al vecchio regime generale di incumulabilità), occorre verificare se la stessa, per la sua natura, sia resistente al processo di progressiva "liberalizzazione" sopra delineato, ovvero – come si afferma nella sentenza impugnata – debba ritenersi tacitamente abrogata dalle disposizioni normative da ultimo richiamate.

6. A norma dell’art. 15 preleggi, l’abrogazione tacita si realizza sia quando le disposizioni della nuova legge siano incompatibili con quelle della legge anteriore, sia quando la nuova legge regoli l’intera materia già regolata dalla legge anteriore, non potendo ovviamente coesistere, in quest’ultimo caso, due leggi che regolino per intero la medesima materia. Tuttavia, la regola dell’abrogazione non si applica quando la legge anteriore sia speciale od eccezionale e quella successiva, invece, generale, ritenendosi che la disciplina generale – salvo espressa volontà contraria del legislatore – non abbia ragione di mutare quella dettata, per singole o particolari fattispecie, dal legislatore precedente.

7. Le norme speciali sono norme dettate per specifici settori o per specifiche materie, che derogano alla normativa generale per esigenze legate alla natura stessa dell’ambito disciplinato ed obbediscono all’esigenza legislativa di trattare in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse. Le norme eccezionali, invece, sono definite dall’art. 14 preleggi come norme contrarie a regole generali.

E’ ovvio che tanto le norme speciali quanto le norme eccezionali si pongano in termini di deroga rispetto alle regole generali, perchè finalizzate o a "calibrare" certi istituti alle particolarità specifiche di un determinato settore o perchè sono gli stessi presupposti di fatto che impongono un intervento legislativo derogatorio delle regole vigenti. Ne consegue che in nessun caso ne è ammessa l’applicazione analogica, altrimenti frustrandosi la natura speciale o eccezionale che le caratterizzano.

8. Orbene, la norma della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 185, di cui si discute – applicabile, ai sensi del successivo comma 187, anche ai pubblici dipendenti di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 1, comma 2, che trasformino il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale – deve, in relazione alla summenzionata distinzione, indubbiamente qualificarsi come eccezionale, avendo portata derogatoria, nel sistema in vigore all’epoca della sua emanazione, rispetto ai principi generali in tema di non cumulabilità tra pensione di anzianità e redditi di lavoro, dal momento che prevede la possibilità di cumulo tra retribuzione e pensione, pur se si tratta di un cumulo parziale, in quanto l’importo della pensione viene ridotto in misura inversamente proporzionale alla riduzione dell’orario normale di lavoro, con l’ulteriore precisazione " che la somma dell’ammontare della pensione e della retribuzione dei dipendenti a tempo parziale non può superare l’ammontare della retribuzione spettante al lavoratore che, a parità di condizioni, presti la sua attività a tempo pieno". 9. Ma a sottolineare ulteriormente il carattere di eccezionalità della norma appena citata, che non consente a quelle successive, di carattere generale, di incidere in senso ampliativo sulla misura del cumulo (fino a renderlo integrale), vale la considerazione, per certo decisiva, che il conseguimento del trattamento pensionistico di anzianità, sia pure ridotto, non è subordinato, dalla L. n. 662 del 1996, alla cessazione dell’attività lavorativa, requisito quest’ultimo, invece, imprescindibile, secondo la normativa generale sul diritto a pensione.

10. E, invero, ai sensi della L. n. 153 del 1969, art. 22, comma 1, lett. c) il diritto a pensione matura in capo al lavoratore interessato alla presenza di un duplice requisito, rappresentato dal raggiungimento dell’anzianità contributiva e dall’avvenuta cessazione dell’attività lavorativa.

11. A sua volta, con la riforma introdotta dal D.Lgs. n. 503 del 1992, il legislatore ha ribadito (art. 10, commi 6 e 7) che il diritto alla pensione di anzianità, così come quello alla pensione di vecchiaia, è subordinato alla risoluzione del rapporto di lavoro.

Il requisito della cessazione del rapporto di lavoro costituisce, infatti, una "presunzione di bisogno" che giustifica l’erogazione della prestazione sociale ai sensi dell’art. 38 Cost. Tanto trova conferma nei principi che la giurisprudenza questa Corte ha espresso nell’interpretare il D.Lgs. n. 503 del 1992 citato e in base ai quali, "la prosecuzione del rapporto di lavoro subordinato e la produzione, che ne consegue, di reddito da lavoro – dopo il perfezionamento dei requisiti – esclude lo stato di bisogno del lavoratore (…) e, quindi, anche l’esigenza di garantire al lavoratore medesimo (ai sensi dell’art. 38 Cost., comma 2) mezzi adeguati alle esigenze di vita". Per tali motivi, il conseguimento del diritto alla pensione è subordinato alla cessazione di qualsiasi rapporto di lavoro in essere, anche diverso da quello in riferimento al quale sono stati versati i contributi alla gestione deputata ad erogare la prestazione (cfr. Cass. n. 2359/2009, n. 17530/2005, n. 15117/2005).

12. Sempre con riferimento al D.Lgs. n. 503 del 1992 appena richiamato è stato, altresì, chiarito che la questione relativa alla cessazione del rapporto di lavoro – che condiziona il diritto a pensione – è diversa da quella relativa al cumulo tra la pensione e il reddito da lavoro, la possibilità di cumulo presupponendo che si tratti di un nuovo rapporto di lavoro, ossia instaurato dopo il conseguimento del trattamento pensionistico; con la conseguenza che, dalla comparazione delle discipline rispettive, non può risultare, in nessun caso, la violazione del principio di uguaglianza ( art. 3 Cost.), attesa la non omogeneità tra le situazioni prospettate (cfr.

Cass. n. 13933/2006 e n. 17530/2005 cit).

13. In altri termini, per accedere al pensionamento, sia esso di anzianità oppure di vecchiaia, non deve sussistere alcun rapporto di lavoro dipendente in atto, essendo in ogni caso necessaria una soluzione di continuità per conseguire il diritto al trattamento pensionistico. Ciò al fine di evitare che la percezione della pensione avvenga contemporaneamente alla prestazione dell’attività lavorativa subordinata.

14. Confermano l’imprescindibilità dell’avvenuta risoluzione del rapporto lavorativo in atto, ai fini del cumulo tra pensione e reddito di lavoro, le successive disposizioni normative, in particolare quella – rilevante nel caso controverso – contenuta nella L. n. 289 del 2002, art. 44, comma 2, parte seconda, laddove è previsto, testualmente, che la norma in questione si applica – oltre che agli iscritti alle forme di previdenza di cui al comma 1, già pensionati di anzianità alla data del 1 dicembre 2002 e nei cui confronti trovino applicazione i regimi di divieto parziale o totale di cumulo (art. 44, comma 2, prima parte Legge citata) – anche agli iscritti che abbiano maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità, abbiano interrotto il rapporto di lavoro e presentato domanda di pensionamento entro il 30 novembre 2002. 15. Di qui il carattere sicuramente eccezionale della norma di cui alla citata L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 185 e 187, – dal momento che quest’ultima, in deroga alle disposizioni generali vigenti in materia di conseguimento del diritto alla prestazione – consente ai dipendenti privati e degli enti pubblici di accedere alla pensione di anzianità (e di percepire il relativo trattamento) in costanza di rapporto di lavoro, sia pure trasformato da rapporto a tempo pieno a rapporto part-time.

16. Alla luce delle svolte considerazioni non trova spazio censura alcuna, sul piano costituzionale, per irragionevolezza, il permanere della disciplina limitativa del cumulo per il solo settore pubblico, essendo – si ripete – la normativa generale inapplicabile al caso di coloro che acquisiscano il diritto alla pensione di anzianità senza interrompere il loro rapporto di lavoro subordinato – solo passando dal regime a tempo pieno a quello a part time – e continuando, dunque, a ricevere tutti i vantaggi di un tale rapporto oltre a percepire insieme una parte di pensione e una di retribuzione.

17. In conclusione, il ricorso dell’INPS deve essere accolto sulla base del seguente principio di diritto: "la L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 185, è norma eccezionale poichè consente (in combinato disposto con il successivo comma 187) la prosecuzione del rapporto di lavoro del pubblico dipendente, per quanto a tempo non più pieno ma parziale, e il contemporaneo conseguimento, entro specificati limiti, del trattamento pensionistico di anzianità,, derogando ai principi generali per cui il diritto alla pensione di anzianità è subordinato alla cessazione dell’attività di lavoro dipendente. Ne deriva che la suddetta disciplina – contenente l’esplicita previsione che la somma dell’ammontare della pensione e della retribuzione dei dipendenti a tempo parziale non possa superare l’ammontare della retribuzione spettante al lavoratore che, a parità di condizioni, presti la sua attività a tempo pieno – non è derogabile dalla successiva normativa generale di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 44 abolitrice del divieto di cumulo tra pensione e reddito da lavoro subordinato, senza che possa trovare spazio alcuna censura costituzionale per irragionevole permanere della disciplina limitativa del cumulo per il solo settore pubblico". 18. Cassata la sentenza impugnata, la causa è decisa nel merito sulla base dei principi di diritto sopra enunciati ( art. 384 c.p.c., comma 2), nel senso del rigetto della domanda proposta dalla odierna parte controricorrente nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

19. La peculiarità della questione trattata e l’esistenza di un difforme diffuso orientamento giurisprudenziale di merito costituiscono giusti motivi per compensare tra le parti le spese dell’intero processo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa fra le parti le spese dell’intero processo.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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