Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 28-09-2011) 18-10-2011, n. 37509

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

Con sentenza del 17 giugno 2010, la Corte d’Appello di Brescia riformava parzialmente la decisione con la quale, in data 21 gennaio 2009, il Tribunale di Bergamo condannava S.R. per il reato di cui all’art. 81 c.p. e art. 609 quater c.p., n. 1 perchè, in più occasioni ed in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, compiva atti sessuali sulla figlia di anni 6 consistiti nel toccarle i genitali provocandole dolore.

Avverso tale decisione il predetto proponeva ricorso per cassazione.

In particolare, in data 30/8/2010, veniva depositato ricorso dal difensore cui si aggiungeva, il 8/10/2010, il deposito di ricorso a firma dell’imputato con riproposizione ed integrazione dei motivi già prospettati dal difensore ed al quale faceva ulteriore seguito, il 15/10/2010, il deposito di un terzo ricorso a firma del difensore con il quale i suddetti motivi venivano nuovamente prospettati ed integrati.

Stante la sostanziale identità di contenuto dei tre distinti atti, ad eccezione di alcune integrazioni, le ragioni giustificative dell’impugnazione possono essere così sintetizzate:

1. Viene criticata la valutazione della Corte d’Appello in ordine a quella che viene definita "quasi confessione" del ricorrente, ravvisata nel contenuto di un colloquio individuale avuto dallo stesso con una psicoterapeuta infantile in servizio presso il reparto pediatria degli ospedali riuniti e poi escussa come testimone, in occasione del quale il ricorrente avrebbe fatto riferimento a toccamenti dei genitali della figlia.

Tale circostanza non era stata ritenuta determinante dai giudici di prime cure.

La Corte territoriale, secondo il ricorrente, non avrebbe considerato adeguatamente le critiche mosse al contenuto della testimonianza e la circostanza che il tenore della conversazione era riferibile non tanto ad una confessione quanto, piuttosto, ad un comportamento che il ricorrente intendeva contestare con decisione.

La Corte territoriale avrebbe omesso anche di considerare alcuni aspetti della testimonianza contenenti elementi favorevoli all’imputato.

Considerazioni analoghe vengono svolte con riferimento alla deposizione di altro teste.

Si lamentava, altresì, la mancata analisi del contesto in cui il ricorrente avrebbe pronunciato le frasi riportate dai testi.

2. la Corte d’Appello avrebbe considerato, quale elemento a carico dell’imputato, la circostanza che lo stesso si sarebbe sottratto all’esame producendo spontanee dichiarazioni scritte, con conseguente violazione dell’art. 27 Cost. e artt. 495 e 603 c.p.p..

3. Viene censurata la valutazione effettuata dai giudici del gravame in ordine alle risultanze della documentazione clinica attestante le condizioni della zona genitale della bambina, che presentava segni esteriori di manipolazione e facilità di sanguinamento.

Tale dato veniva ritenuto dalla Corte territoriale di per sè non significativo ma comunque rilevante se associato all’ulteriore elemento della "quasi confessione" dell’imputato con ragionamento manifestamente illogico.

Il contenuto del certificato era stato inoltre travisato, avendo il medico evidenziato di non aver rilevato segni specifici di abuso.

Risultava inoltre dalla cartella clinica che un comportamento della minore, la quale in presenza dei genitori e dei sanitari aveva iniziato a toccarsi i genitali, poteva essere la causa delle evidenze cliniche attribuite dalla Corte a manipolazioni dell’imputato.

I giudici del gravame avrebbero illogicamente motivato sul punto ritenendo tali dati obiettivi incerti e non significativi.

4. Si osserva che la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare le censure mosse alla decisione di primo grado con l’atto di appello ritenendole superate dalla "quasi confessione" dell’imputato.

La manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata risulterebbe peraltro evidente anche nel caso in cui si ritenesse la sentenza di appello motivata per relationem a quella di primo grado.

Entrambe le sentenze, inoltre, evidenziavano che non vi era stata, da parte dei giudici, alcuna verifica adeguata delle dichiarazioni accusatorie della minore.

5. Si lamentava che la Corte aveva omesso di motivare, o comunque aveva motivato con manifesta illogicità, in merito ad una richiesta di perizia sulla minore con rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ex art. 603 c.p.p. laddove ritenuta necessaria e sull’espressa impugnazione dell’ordinanza con la quale il giudice di prime cure aveva rigettato analoga richiesta.

Risultavano inoltre disattesi, secondo il ricorrente, i principi fissati da questa Corte in tema di valutazione delle dichiarazioni rese dal minore sessualmente abusato.

Era stata inoltre omessa la motivazione e violato il disposto dell’art. 495 c.p.p. in ordine al motivo di appello concernente l’ordinanza con la quale il Tribunale aveva ritenuto superflua l’escussione di due testi indicali dalla difesa.

6. Si deduceva la violazione dell’art. 133 c.p. in quanto la Corte territoriale, pur ritenendo la prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 609 quater c.p., comma 3 e delle attenuanti generiche sulla contestata aggravante, riducendo la pena, aveva omesso di motivare sui criteri di quantificazione della stessa.

7. Veniva denunciata la violazione dell’art. 414 c.p.p. con conseguente nullità della sentenza ex art. 179 c.p.p. con riferimento alla statuizione in ordine alla continuazione.

Si osservava, a tale proposito, che un primo procedimento, originato da una querela del 22/2/2006 era stato definito con archiviazione per insussistenza del fatto e quello attualmente in corso era stato attivato da una successiva querela del 7/5/2007.

Ciò nonostante, il capo di imputazione faceva riferimento anche a fatti indicati nella precedente querela, tanto che il giudice di prime cure dichiarava non doversi procedere per i fatti precedenti al 22/2/2006 per difetto del decreto di cui all’art. 414 c.p.p., cosicchè la ritenuta continuazione da parte della Corte territoriale evidenzia la nullità assoluta della sentenza ai sensi dell’art. 179 c.p.p..

8. Si deduceva la violazione del combinato disposto degli artt. 609 quater e 609 nonies c.p. in quanto non sarebbe pertinente il richiamo all’art. 609 quater c.p., n. 2, trattandosi di fattispecie per la quale è ininfluente la qualità di genitore del soggetto agente, dovendosi applicare il disposto del comma 1, n. 1 del medesimo articolo.

Prevedendo l’art. 609 nonies c.p. che la condanna, tra l’altro, anche con riferimento all’art. 609 quater c.p., comporti la perdita della potestà genitoriale quando la qualità di genitore sia elemento costitutivo o circostanza aggravante del reato, nella fattispecie la pena accessoria non poteva applicarsi.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

Occorre richiamare brevemente, in via preliminare, lo svolgimento della vicenda processuale e le argomentazioni sulle quali la Corte territoriale fonda la propria decisione.

La minore, figlia del ricorrente, venne affidata alla madre dopo la separazione coniugale. La donna, nel 2006, dopo circa un anno dalla separazione, presentava una querela nella quale evidenziava di aver appreso dalla figlia di un gioco che la stessa avrebbe praticato con il padre il quale le faceva "il solletico sulla farfallina".

All’esito delle indagini disposte dalla Procura, il procedimento originato dalla predetta querela venne archiviato.

Successivamente, nel 2007, la bambina, dopo il ritorno da incontri con il padre, lamentava nuovamente dolori ai genitali e venne, pertanto, fatta visitare da un pediatra e, su suo suggerimento, da una ginecologa, la quale attribuì la presenza di un edema e la facilità di sanguinamento a pregressi fattori meccanici più forti di un semplice sfregamento, pur escludendo l’evidenza di segni di abuso.

Venne conseguentemente presentata una seconda querela che diede origine al presente procedimento.

Ciò premesso, occorre rilevare che il ricorrente censura, con i motivi di cui al punto 1 in premessa, la valutazione che la Corte territoriale ha operato in merito a quella che viene più volte indicata come "quasi confessione", riferendosi alle affermazioni dell’imputato rese in diverse occasioni ed in presenza di due diverse persone, la psicoterapeuta infantile che esaminò la bambina e la madrina di battesimo, circa l’abitudine di praticare alla bambina "il solletico alla farfallina" ritenendola una cosa del tutto normale.

La Corte bresciana, al contrario, valorizza appieno tali elementi evidenziando la presenza di altri dati oggettivi, ritenuti significativi perchè "convergenti" e collocabili in un medesimo contesto temporale, rappresentati dalle risultanze della visita ginecologica e dalla manifestazione dell’evento lesivo subito dopo il rientro da un incontro con il padre.

Tali dati sono stati valutati alla luce dell’art. 192 c.p.p., comma 2 in quanto ritenuti indizi gravi, precisi e concordanti.

La valutazione della dichiarazione essenzialmente confessoria resa a terzi risulta effettuata dalla Corte bresciana con adeguata e scrupolosa ponderazione, con osservanza peraltro dei principi individuati da questa Corte che il Collegio condivide e dai quali non intende discostarsi.

Si è infatti osservato, a proposito della testimonianza de relato concernente la confessione resa ad un terzo da un imputato o da un coimputato, che la stessa può legittimamente concorrere alla formazione del convincimento del giudice a condizione che ne sia rigorosamente verificata l’affidabilità (Sez. 6^ n. 1106, 30 gennaio 1991; Sez. 1^ n. 4510, 12 aprile 1988. V. anche Sez. 5^ n. 38252, 7 ottobre 2008).

La Corte territoriale non ha considerato tali dichiarazioni alla stregua di una prova assoluta di colpevolezza avendola, al contrario, assunta a fonte del proprio libero convincimento e ritenuta rilevante a fronte di altri elementi scaturenti dall’analisi dei dati probatori acquisiti e, segnatamente, delle risultanze della visita ginecologica sulla bambina e dalla coincidenza temporale tra la presenza delle lesioni e la permanenza presso il genitore.

Sotto tale profilo la sentenza impugnata appare del tutto immune dalle censure mosse in ricorso, che sembra peraltro individuare nelle dichiarazioni spontaneamente rese a terzi dall’imputato l’unico elemento sul quale i giudici del merito avrebbero fondato l’affermazione di penale responsabilità mentre, al contrario, tale elemento è stato correttamente collocato nella complessiva dotazione probatoria attribuendogli coerentemente il giusto rilievo alla luce degli ulteriori dati emergenti dall’istruzione dibattimentale.

Non meno significativa appare, inoltre, la circostanza che dette dichiarazioni con le quali, è il caso di ripeterlo, il ricorrente riconosceva di aver effettuato ripetuti toccamenti dei genitali della figlia, erano state rilasciate a due persone diverse in due diverse occasioni e di tale ulteriore elemento la Corte d’Appello ha tenuto debito conto.

E’ stato inoltre adeguatamente inquadrato il contesto entro il quale la spontanea dichiarazione è intervenuta, richiamandone il contenuto riportato nella sentenza di primo grado e le giustificazioni addotte dal ricorrente.

Viene stigmatizzata, in ricorso, l’assenza di valutazioni circa l’effettivo tenore delle dichiarazioni e la mancata considerazione dei motivi di appello ove si precisava che mai si era riferito alla psicoterapeuta in cosa consistesse il "solletico" che l’imputato praticava alla figlia ma, in realtà, i giudici bresciani evidenziano nella sentenza impugnata che tale comportamento era stato qualificato dallo stesso imputato come "normale" rinviando, per il contenuto delle espressioni maggiormente significative, alla sentenza di primo grado.

Va aggiunto che la Corte territoriale, nel riconsiderare il trattamento sanzionatorio applicato dal giudice di prime cure, analizza la personalità del ricorrente e la rozza concezione del rapporto con la figlia, manifestato nelle menzionate dichiarazioni, che lo inducevano a ritenere perfettamente normali certi suoi comportamenti.

Ciò rende del tutto plausibile il fatto che il colloquio con la psicoterapeuta fosse stato sollecitato dallo stesso ricorrente e dimostra la piena compatibilità delle sue affermazioni con le modalità comportamentali manifestate.

Deve dunque rilevarsi l’assenza di qualsivoglia profilo di incoerenza o cedimento logico nella sentenza impugnata, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso con argomentazioni che appaiono esclusivamente finalizzate alla prospettazione di una inammissibile lettura alternativa delle risultanze processuali.

Per quanto attiene, invece, ai motivi di ricorso sintetizzati in premessa al punto 2, deve rilevarsi come non risulti affatto, dal tenore della motivazione della decisione impugnata, che la Corte bresciana abbia negativamente valutato la condotta del ricorrente fondando l’affermazione di penale responsabilità sul fatto che lo stesso si sarebbe sottratto all’esame.

Viene infatti semplicemente dato atto in sentenza, con affermazione del tutto neutra, della circostanza che l’imputato, nel corso dell’udienza dibattimentale, ha proceduto alla lettura di dichiarazioni spontanee che successivamente depositava e che le stesse costituivano surrogato dell’esame al quale il medesimo non si era sottoposto.

Si tratta di una mera constatazione alla quale non segue alcun giudizio negativo sulle modalità con le quali le dichiarazioni vengono rese, giudizio che invece viene effettuato, in modo del tutto logico, sulla rilevanza che dette dichiarazioni avevano nella complessiva valutazione delle prove offerte ai giudici, pervenendo così ad un apprezzamento di sostanziale irrilevanza rispetto agli altri elementi acquisiti, qualificando dette dichiarazioni come vano tentativo di attenuarne l’importanza.

Risulta inoltre dal tenore della decisione che l’esame dell’imputato non è stato effettuato avendo egli optato per le spontanee dichiarazioni scritte e non si vede, pertanto, in quale altro modo la Corte territoriale avrebbe dovuto argomentare sul punto.

In ogni caso, deve ricordarsi, con riferimento all’onere motivazionale incombente sul giudice dell’appello in presenza di richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, che una specifica motivazione è richiesta solo in caso di rinnovazione, in quanto deve rendersi conto dell’uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non potere decidere allo stato degli atti mentre, in caso di rigetto, è ammissibile la motivazione implicita, ricavabile dalla stessa struttura argomentativa posta a sostegno della pronuncia di merito e tale da evidenziare la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità e, conseguentemente, la mancanza di necessità di una rinnovazione del dibattimento (Sez. 3^, 24294U0 cit; Sez. 5^ n. 15320, 21 aprile 2010;

Sez. 4^ n. 47095, 11 dicembre 2009; Sez. 5^ n. 8991, 08/08/2000).

Anche sul punto, pertanto, la sentenza impugnata supera agevolmente il vaglio del giudizio di legittimità.

A conclusioni analoghe deve pervenirsi con riferimento ai motivi di ricorso sintetizzati in precedenza al punto 3 poichè, anche in questo caso, si prospetta una valutazione alternativa di un dato probatorio considerato dai giudici del merito.

Si criticano infatti in ricorso che le modalità con le quali la Corte territoriale ha considerato le risultanze della certificazione medica sulle lesioni riscontrate nei genitali della bambina e le dichiarazioni esplicative sul contenuto della stessa rese dal medico che l’aveva redatta.

I giudici bresciani hanno infatti dato compiutamente atto del contenuto della suddetta certificazione e della incidenza della stessa rispetto agli altri elementi acquisiti, senza alcun cedimento logico ed attribuendo all’atto ed alle dichiarazioni del medico il corretto significato, fornendo adeguata risposta anche ai dubbi sollevati nell’atto di appello con riferimento all’episodio riportato dai medici in cartella clinica e riferito ad un atteggiamento masturbatorio assunto dalla minore in loro presenza.

La Corte d’Appello evidenzia, infatti, la irrilevanza del singolo episodio in assenza di ulteriori elementi ed alla luce dei comportamenti ben più gravi attribuiti all’imputato e delle dichiarazioni della mamma della piccola, la quale ne attribuiva la causa alla rinnovata frequentazione con il padre.

L’assenza di prova in ordine ad una specifica attitudine della bambina ad indugiare in simili atteggiamenti è stata ritenuta quindi sufficiente per escludere che questa fosse la causa delle lesioni riscontrate.

La sentenza impugnata non presenta, inoltre, gli ulteriori vizi denunciati e sintetizzati in precedenza la punto 4 avendo la Corte territoriale, anche in questo caso, compiutamente analizzato il rapporto di conflittualità intercorrente tra i genitori della minore e la eventuale incidenza dello stesso sulla minore, segnatamente per quanto attiene possibili interventi suggestivi da parte della madre.

Anche le risultanze dell’incidente probatorio in occasione del quale sono state assunte le dichiarazioni della minore sono state opportunamente considerate.

La Corte evidenzia, infatti, che dette dichiarazioni, come pure quelle relative alle prime confidenze della bimba sugli abusi subiti, assumono un rilievo del tutto secondario a fronte degli altri elementi acquisiti (dichiarazione confessoria e riscontri obiettivi) con ciò giustificando anche la scelta di non procedere ad ulteriori approfondimenti sulla capacità a testimoniare della minore, ritenendo comunque sufficienti i dati acquisiti nel giudizio di primo grado ed alla escussione delle testimonianze richieste dalla difesa, considerate superflue.

Tale considerazioni evidenziano la legittimità del provvedimento impugnato anche riguardo ai rilievi critici sintetizzati in precedenza al punto 5 e la perfetta tenuta logica della motivazione.

Non sussiste, inoltre, la lamentata violazione di legge, rispetto ala quale occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il diritto alla prova contraria assicurato all’imputato può essere denegato dal giudice con adeguata motivazione solo nel caso in cui le prove richieste siano manifestamente superflue o irrilevanti, con la conseguenza che il giudice di appello, dinanzi al quale sia dedotta la violazione dell’art. 495 c.p.p., comma 2 dovrà valutare l’ammissibilità della prova secondo i parametri rigorosi di cui all’art. 190 c.p.p. (per il quale le prove sono ammesse a richiesta di parte), mentre non potrà avvalersi dei poteri meramente discrezionali riconosciutigli dal successivo art. 603 circa la valutazione di ammissibilità delle prove non sopravvenute al giudizio di primo grado (Sez. 6^ n. 761, 16 gennaio 2007; Sez. 5^ n. 26585, 15 giugno 2004).

Parimenti infondate appaiono le doglianze richiamate in precedenza al punto 6 e concernenti la quantificazione della pena all’esito del giudizio di comparazione delle circostanze del reato.

La Corte territoriale ha infatti concesso all’imputato le attenuanti generiche e, unitamente alla già riconosciuta attenuante di cui all’art. 609 quater c.p., comma 3, le ha riconosciute prevalenti alle contestate aggravanti.

La pena finale irrogata risulta correttamente calcolata e non era necessaria l’indicazione dei calcoli intermedi effettuati, agevolmente ricavabili dal confronto con quelli riportati nella decisione di primo grado, nè era necessario che la Corte indicasse le ragioni per le quali non ha inteso operare la diminuzione della pena nella massima misura possibile (v. Sez. 3^, n. 13210, 8 aprile 2010).

Altrettanto corretto appare il riferimento alla sussistenza della continuazione ed il relativo calcolo della pena (punto 7 in premessa).

Come risulta chiaramente dalla sentenza di appello, il giudice di prime cure ha ritenuto la penale responsabilità dell’imputato limitatamente ai fatti successivi al 22 febbraio 2006.

Non vi è stata, pertanto, alcuna considerazione dei fatti di cui alla querela del 22/2/2006 che avevano dato origine ad un procedimento definito con archiviazione per insussistenza del fatto, essendo stati oggetto di valutazione esclusivamente quelli di cui alla successiva querela del 7/5/2007.

Trattandosi di più episodi, il giudice di prime cure li ha ritenuti unificati sotto il vincolo della continuazione.

Di tale evenienza ha tenuto conto la Corte territoriale la quale, nel rideterminare la pena, ha chiaramente indicato che la pena base era stabilita in relazione al fatto cui era conseguito il ricovero della bambina, mentre l’aumento per la continuazione riguarda i diversi e precedenti episodi.

Infondate appaiono, infine, le doglianze sintetizzate al punto 8 in premessa.

I giudici dell’appello hanno applicato le disposizioni di cui all’art. 609 nonies c.p. sul presupposto che la fattispecie di cui all’art. 609 quater c.p., u.c. preveda implicitamente la qualità di genitore come elemento costitutivo del reato.

Va ricordato, a tale proposito, come questa Sezione abbia ritenuto che, in tema di reati contro la libertà sessuale, nel caso in cui il genitore o altra persona qualificata sia autore di violenza sessuale ai danni di minore di anni sedici, la fattispecie è sempre inquadratole nell’ipotesi prevista e punita dall’art. 609 quater c.p., n. 2 indipendentemente dall’età della persona lesa, con conseguente applicabilità della pena accessoria della perdita della potestà genitoriale, anche quando la parte lesa sia minore di quattordici anni (Sez. 3^ n. 35018, 29 agosto 2003).

Come si rileva dall’imputazione riportata in sentenza, la contestazione riguardava esattamente la fattispecie predetta, indicando come norma violata proprio l’art. 609 quater c.p., n. 2 (oltre all’aggravante di cui all’ultimo comma).

Ne consegue che l’applicazione della pena accessoria risulta correttamente effettuata.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed alla rifusione delle spese alla parte civile che liquida in complessivi Euro 2.500,00 oltre IVA ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2011

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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