Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 06-07-2011) 18-10-2011, n. 37712

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Tribunale di Reggio Calabria, investito ex art. 309 cod. proc. pen. della richiesta di riesame proposta da Ga.An., ha confermato l’ordinanza del Giudice delle indagini preliminari della sede, che In data 4 agosto 2010, aveva applicato ai ricorrente la misura cautelare della custodia in carcere, siccome indagato per il reato di partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso.

Secondo l’ipotesi accusatoria il Ga., infatti, era associato alla ndrangheta, ed unitamente al coindagato F. B. era un promotore ad organizzatore del "locale" di Oppido Mamertino.

1.1. – Il Tribunale – illustrata la storia delle indagini (operazione Crimine), la struttura dell’organizzazione mafiosa (‘ndrangheta) nelle sue varie articolazioni sul territorio (calabrese e non) nonchè le emergenze relative al "locale" di Oppido, ricompreso nel "mandamento" ionico, esposti i principi di diritto a cui intendeva conformarsi nella valutazione del materiale indiziario – evidenziava che gli elementi a carico del Ga., individuato come C.’.Ntoni, padre di un giovane motociclista deceduto a seguito di un incidente stradale occorsogli a Milano, consistevano, essenzialmente, nei contenuti di plurime conversazioni ambientali tra le quali particolare rilevanza investigativa assumeva quella intercettata il 24 gennaio 2008, il cui inequivoco tenore consentiva di ritenere raggiunta una grave e solida prova indiziaria par l’autorevolezza e spessore criminale delle persone colloquianti, la loro intraneità all’associazione mafiosa e l’assenza di intenti meramente calunniatori.

Nel corso di detta conversazione, infatti, stando a quanto riportato nel provvedimento impugnato, G.N., G.F. detto C. e O.D., esponenti apicali dell’associazione mafiosa, di ritorno da un incontro ndranghetistico svoltosi presso un ristorante di Laureana di Borrello, esprimevano il loro rammarico per la mancata partecipazione dell’indagato e del B. alla riunione, circostanza questa ritenuta indicativa quanto meno di una sicura affiliazione dei predetti alla ‘ndrangheta.

2. Ha proposto ricorso per cassazione l’indagato per il tramite dei tuo difensore.

2.1 Nel ricorso, con l’unico ed articolato motivo d’impugnazione dedotto, si denunzia l’Illegittimità dell’ordinanza impugnata per vizio di motivazione.

Si osserva, in particolare, che il Tribunale – dopo aver premesso che il metodo che intendeva seguire era quello di valutare le affermazioni etera accusatorie rese da terzi nel corso di conversazioni alle quali l’Indagato non aveva partecipato direttamente, in relazione agli elementi di conforto acquisiti – non aveva poi rispettato tale regola di giudizio, considerando raggiunto un livello indiziario sufficientemente grave a carico del ricorrente sulla base di alcune conversazioni tra terzi, che costituivano "l’unica" (non già "la principale") fonte d’accusa.

Nel valutare tale scarno materiale indiziario, il Tribunale, in particolare, aveva omesso di considerare: che in nessuna ulteriore conversazione il ricorrente risultava interlocutore diretto o veniva nominato da altri; che nel corso di una delle conversazioni valorizzate dai giudici del riesame, quella del 15 marzo 2008, si da comunque atto che il Ga. "non ha locale" e che quella del 21 aprile 2008, si afferma che l’indagato non ha partecipato ad un "operato" in Calabria; che non v’era traccia in atti di un suo concreto apporto personale all’organizzazione delittuosa, mancando indicatori fattuali sia della oggettiva sua partecipazione al sodalizio sia di una condivisione del programma criminoso.

Le conversazioni captate che riguardavano il ricorrente, pertanto, secondo il ricorrente, non soltanto non forniscono alcuna prova "riscontrata", ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 3, ma soprattutto, costituiscono elemento indiziario incerto e isolato, insufficiente a fondare un quadro Indiziario grave a sufficienza secondo i comuni cannoni ermeneutici (ex art. 192 c.p.p., comma 2).

Motivi della decisione

1. L’impugnazione proposta nell’interesse di Ga.An. è basata su motivi manifestamente infondati. Le argomentazioni prospettate In ricorso, infatti, nelle loro polimorfi articolazioni, ripropongono, senza addurre significativi elementi di novità, delle questioni decise dai giudici del riesame con motivazioni adeguate ed immuni da vizi logici o giuridici, e segnatamente, per un verso, una questione di diritto e, per altro verso, una censura motivazionale, l’una e l’altra compendiabili nel quesito se, il contenuto delle intercettazioni relativi ai colloqui intercorsi, in più occasioni, tra G.N., G.F., O.M. e C.G., figure apicali dell’associazione malavitosa, integrino o meno indizi gravi di colpevolezza in ordine al reato associativo contestato, giustificativi della misura cautelare.

Nel formulare le proprie difese il ricorrente, però, non sembra adeguatamente considerare, in primo luogo, che ai fini dell’emissione di una misura cautelare personale, per "gravi indizi dì colpevolezza" ex art. 273 cod. proc. pen., devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, che, contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova, non valgono di per sè a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell’indagato ai fini della pronuncia di una sentenza di condanna, e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso il prosieguo delle indagini, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (principio ampiamente consolidato; tra le tante: Cass., Sez. 6A, 06/07/2004, n. 35671), Orbene, ciò posto, rileva la Corte che legittimamente sono state considerate gravemente indizianti, attesa la fase processuale in atto, le conversazioni intercettate – il cui contenuto, come diffusamente illustrato nell’ordinanza che ne riporta i passaggi più significativi, riguardava rilevanti questioni interne (distribuzione di cariche tra i sodali e di affari tra le cosche, risoluzioni di dissidi, ecc), quindi dei temi di pregnante e ben significativa rilevanza, aventi natura ed incidenza probatoria in ordine al reato ascritto – tenuto conto dell’autorevolezza malavitosa di chi le ha pronunciate, del contesto in cui sono state registrate (conversari riservati tra autorevoli capima-fia) e del loro contenuto, espressivo di un collocamento stabile e continuativo dell’indagato nell’organigramma gerarchico ed operativo della cosca.

Nè può Indebolire la tesi accusatoria fatta propria dal tribunale la ritenuta equivocità delle frasi in esame, giacchè, se un dubbio può rilevarsi dal contenuto delle stesse, esso riguarda non già l’adesione del Ga. alla cosca (sulla cui certezza nessuno degli interlocutori dubita), ma semmai il livello di sua responsabilità gerarchica, peraltro noto anche al di fuori della comunità di Oppido in quanto comunicato, con certezza, anche ad esponenti di vertice di altre emanazioni territoriali del sodalizio criminale ( O., G. e C.).

Sul valore probatorio, poi, delle intercettazioni e delle accuse con esse registrate, non sembra vi sia stata una sostanziale contestazione difensiva, comunque superata dall’insegnamento di questo giudice di legittimità, che ne ammette la rilevanza, lasciando alla libera valutazione giudiziale i caratteri di maggiore o minore precisione dei relativi contenuti, valutazione incensurabile in questa sede di legittimità se, come nella fattispecie, sufficientemente motivata (Cass., Sez. 5A, 19/01/2001, n. 13614; Cass., Sez. 4A, 02/04/2003, n. 22391;

Cass., Sez. 5A, 14/10/2003, n. 603).

Del pari soddisfatti nel caso all’esame della Corte appaiono i requisiti minimi richiesti dalla sua lezione interpretativa, circa la ipotizzabilità in capo all’indagato del reato associativo.

In tema di associazione di tipo mafioso, infatti, secondo autorevole precedente di questa Corte nella sua più autorevole composizione, la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi In rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno "status" di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato "prende parte" al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. Sviluppando poi tale premessa la Corte ha osservato che la partecipazione può essere desunta da indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi l’appartenenza nel senso indicato, purchè si tratti di indizi gravi e precisi – tra i quali, esemplificando, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di "osservazione" e "prova", l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di "uomo d’onore", la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, e però significativi "facta concludenza" – idonei, senza alcun automatismo probatorio, a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione (Cass., Sez. Unite, 12/07/2005, n. 33748, Mannino; Cass., Sez. 1A Sent.

11/12/2007, n. 1470).

E nel caso di specie, giova rimarcarlo,, se pure, allo stato, non risulta effettivamente contestato all’indagato alcun "delitto fine", allo stesso viene comunque attribuito un collocamento attivo nel gruppo malavitoso, gerarchicamente rilevante quanto a riconoscimento di ruoli e di funzioni (risultando abbastanza esplicito, in particolare, il riconoscimento dell’indagato come un attivo sostenitore di B.C., in vista del rinnovo dell’assegnazione di incarichi di rilievo all’interno della Provincia).

2. – Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e – non ricorrendo ipotesi di esonero in mancanza di elementi indicativi dell’assenza di colpa (Corte Cost., sent. n. 186 del 2000) – al versamento alla cassa delle ammende di una somma congruamente determinabile in Euro 1000,00. Deve seguire, altresì, la comunicazione di cui all’art. 94 disp. att. cod. proc. pen..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende. Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del presente provvedimento al Direttore dell’Istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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