Cons. Stato Sez. IV, Sent., 18-11-2011, n. 6083 Atti amministrativi politici

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

L’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR) ha impugnato, chiedendone l’annullamento con rinvio al primo giudice, la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio ha dichiarato inammissibile, per difetto assoluto di giurisdizione, il ricorso dalla stessa proposto avverso il diniego opposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, previa delibera del Consiglio dei Ministri, alla richiesta di avviare trattative con la ricorrente ai fini della conclusione di un’intesa ai sensi dell’art. 8, comma 3, della Costituzione.

A sostegno dell’appello, l’istante ha dedotto:

1) erroneità dell’affermazione dell’inesistenza di posizioni giuridiche soggettive in capo alla ricorrente;

2) violazione degli artt. 24, comma 1, e 113, ultimo comma, Cost. (in relazione all’affermazione del T.A.R. secondo cui nella specie si tratterebbe di atto politico non sindacabile in sede giurisdizionale);

3) violazione dell’art. 6 della CEDU;

4) inidoneità dei rimedi politici al diniego di avviare le trattative per l’intesa;

5) insussistenza del carattere politico nella determinazione impugnata;

6) in via subordinata, illegittimità costituzionale dell’art. 31 del r.d. 26 giugno 1924, nr. 1054, e dell’art. 7, comma 1, ultimo periodo, cod. proc. amm. per violazione degli artt. 24 e 113 Cost.

Si sono costituiti il Consiglio dei Ministri e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, replicando analiticamente ai motivi di appello e concludendo per la conferma della sentenza impugnata.

Alla camera di consiglio del 4 novembre 2011, la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

1. L’odierna appellante, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR), ha già da tempo richiesto al Governo italiano di avviare trattative finalizzate alla stipula di un’intesa con lo Stato ai sensi dell’art. 8, comma 3, della Costituzione, al pari di quanto avvenuto con diverse confessioni religiose.

Un primo diniego, impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, è stato annullato per incompetenza, essendo contenuto in una semplice nota a firma del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, laddove la relativa deliberazione spetta al Consiglio dei Ministri a norma dell’art. 2, comma 3, lettera l), della legge 23 agosto 1988, nr. 400 (in tal senso, si è espresso questo Consiglio di Stato nel parere nr. 3048 del 29 ottobre 1997, reso all’interno del procedimento avviato col citato ricorso straordinario).

A seguito di ciò, dopo una lunga fase contrassegnata da scambi di note, periodi di stasi, diffide e istanze di accesso, si è pervenuti al diniego impugnato nel presente giudizio, motivato sul rilievo che "la professione dell’ateismo, certamente da ammettersi al pari di quella religiosa quanto al libero esercizio in qualsiasi forma (…) non possa essere regolata in modo analogo a quanto esplicitamente disposto dall’art. 8 della Costituzione per le sole confessioni religiose", dovendo intendersi per "confessione religiosa" esclusivamente "un fatto di fede rivolto al divino e vissuto in comune tra più persone che lo rendono manifesto alla società tramite una particolare struttura istituzionale", con esclusione di ogni estensibilità a situazioni diverse (così la nota del 5 dicembre 2003 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, impugnata in prime cure).

Investito del ricorso avverso il predetto diniego, il T.A.R. del Lazio ha dichiarato il proprio difetto assoluto di giurisdizione ai sensi dell’art. 31 del r.d. 26 giugno 1924, nr. 1054, dovendo riconoscersi natura di atto politico alla determinazione assunta dal Governo in ordine alla richiesta di avvio di trattative per un’intesa ex art. 8, comma 3, Cost.

Avverso tale ultima decisione, insorge l’UAAR con l’appello oggi all’esame della Sezione.

2. Tutto ciò premesso, l’appello è fondato e pertanto meritevole di accoglimento.

3. Le censure formulate dalla parte appellante, come sinteticamente richiamate nella narrativa in fatto, possono invero essere esaminate congiuntamente in quanto tutte riconducibili alla questione di fondo della sussumibilità o meno degli atti impugnati in prime cure nella categoria degli "atti politici" per i quali il precitato art. 31, r.d. nr. 1054/1924 (e oggi l’art. 7, comma 1, ultimo periodo, cod. proc. amm.) esclude la sindacabilità da parte del giudice amministrativo.

Al riguardo, è opportuno preliminarmente rammentare come la pregressa giurisprudenza di questo Consesso si sia orientata in un senso estremamente rigoroso e restrittivo nella delimitazione della detta categoria degli "atti politici", non nascondendosi come la previsione legislativa della loro non impugnabilità si ponga quanto meno come eccezionale e derogatoria rispetto ai fondamentali principi in materia di diritto di azione e giustiziabilità delle situazioni giuridiche soggettive, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost.

In particolare, al di là di ogni analisi della casistica delle situazioni nelle quali sono state ritenute applicabili le suindicate previsioni eccezionali, l’indirizzo oggi dominante àncora la qualificazione di un atto come "atto politico" alla compresenza di due requisiti: il primo a carattere soggettivo, consistente nel promanare l’atto da un organo di vertice della pubblica amministrazione, individuato fra quelli preposti all’indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello; il secondo a carattere oggettivo, consistente nell’essere l’atto concernente la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2007, nr. 209; Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2001, nr. 1397; id., 29 febbraio 1996, nr. 217).

4. Nel caso che qui occupa, può ritenersi sussistente il primo dei richiamati requisiti, essendo – come già rilevato – le determinazioni sulle intese di cui all’art. 8, comma 3, Cost. rimesse al Consiglio dei Ministri, e quindi certamente a un organo di vertice dell’amministrazione (ancorché, come rilevato dalla parte appellante, tale competenza discenda unicamente dalla già citata previsione dell’art. 2, l. nr. 400/1988 e diverso fosse l’assetto anteriore).

Ad avviso della Sezione, non può dirsi invece sussistere il requisito oggettivo riveniente dalla riconducibilità dell’atto alle supreme scelte in materia di costituzione, salvaguardia e funzionamento dei pubblici poteri, come emerge da un più approfondito esame della disposizione costituzionale di riferimento e della sua ratio ispiratrice.

5. Sotto tale profilo, deve innanzi tutto sgombrarsi il campo da ogni confusione tra la libertà di organizzazione delle confessioni religiose, cui ha riguardo l’art. 8 Cost., e la più generale libertà di religione garantita dall’art. 19 Cost.: al riguardo, è sufficiente ribadire i rilievi in materia svolti dalla Corte Costituzionale – richiamati anche dalla sentenza oggetto dell’odierna impugnazione – secondo cui la questione dell’organizzazione delle confessioni religiose, con le connesse garanzie e tutele, è cosa diversa dal diritto fondamentale di ciascun individuo di scegliere se e quale confessione religiosa professare, nonché di poterla liberamente praticare in pubblico e in privato (cfr. Corte Cost., sent. 24 novembre 1958, nr. 59).

A tale riguardo, mentre i primi due commi del citato art. 8 Cost. affermano rispettivamente il principio dell’eguale libertà delle confessioni religiose diverse dalla cattolica e quello della loro libertà e autonomia organizzativa, il comma 3 introduce la regola dell’obbligatorietà dello strumento bilaterale per la regolamentazione dei rapporti fra lo Stato e le ridette confessioni (con una sorta di parallelismo rispetto a quanto previsto dal precedente art. 7 per i rapporti con la Chiesa cattolica, in ordine ai quali vi sono però specifiche peculiarità connesse alla soggettività di diritto internazionale dello Stato del Vaticano ed al conseguente svolgersi dei rapporti su un piano diverso da quello "interno" all’ordinamento nazionale).

In tal modo, da un lato viene posta in materia una riserva di legge assoluta, e per altro verso sono introdotte limitazioni concernenti i contenuti dell’atto legislativo, i quali sono condizionati alla preventiva pattuizione con la confessione religiosa interessata: ne discende, tra l’altro, l’illegittimità degli eventuali interventi legislativi unilaterali non preceduti dalle intese previste dalla norma costituzionale.

6. Già la circostanza testé rilevata che la disposizione intervenga a limitare la sovranità legislativa del Parlamento appare difficilmente compatibile con la ritenuta afferenza delle relative scelte all’indirizzo politico generale dello Stato: è infatti evidente che trattasi di norma sulle fonti, intesa a individuare lo strumento tecnicogiuridico da utilizzare obbligatoriamente per disciplinare la condizione giuridica delle confessioni acattoliche, ossia lo strumento pattizio, che evidentemente il Costituente ha considerato il più idoneo a perseguire il risultato del miglior coordinamento tra l’ordinamento statale e quello delle confessioni interessate (essendo dato di comune esperienza che quest’ultimo potrebbe essere incentrato anche su principi pregiuridici e comunque estranei a quelli propri dell’ordinamento statale).

Tale essendo il reale interesse perseguito dalla previsione costituzionale, risulta alquanto inconferente il dato evidenziato dal primo giudice, per cui le confessioni religiose hanno una mera facoltà, e non un obbligo, di chiedere di stipulare un’intesa con lo Stato, trattandosi appunto di disposizione posta principalmente nell’interesse delle confessioni medesime ed essendo tale facoltatività un’ovvia conseguenza dell’autonomia organizzativa ad esse riconosciuta dal primo comma dello stesso art. 8 Cost.

In questa costruzione incentrata sul ricordato principio della bilateralità, resta salva naturalmente la libertà del legislatore di non attribuire forza normativa ai contenuti scaturenti dalle intese, evitando di emanare la legge attuativa delle stesse e lasciando loro, dunque, un valore meramente negoziale (a tale scelta, invero, potrebbe essere attribuita natura politica siccome afferente alle scelte dell’istituzione parlamentare sul se, come e quando legiferare).

7. Oltre a quanto fin qui esposto, che come detto potrebbe anche essere ex se sufficiente a escludere la natura politica delle scelte relative all’avvio di trattative finalizzate all’eventuale stipula di intese ai sensi dell’art. 8, comma 3, Cost., va però anche evidenziato come la necessità di non escluderle del tutto dal sindacato giurisdizionale discende anche dall’ampia discrezionalità che indubbiamente le connota: ciò con riferimento sia all’an dell’intesa, sia – prima ancora – alla stessa individuazione dell’interlocutore in quanto confessione religiosa.

Tale discrezionalità è invero suscettibile di dar vita a un sistema fondato su evidenti discriminazioni, diversi potendo essere i contenuti delle intese stipulate dallo Stato con diverse confessioni religiose e diversa potendo essere la posizione delle organizzazioni per le quali il Governo non ritenga di addivenire ad un’intesa; il tutto con l’ulteriore apparente discrasia derivante dalla presenza della Chiesa cattolica, per la quale la condizione di privilegio discende dalle stesse scelte del Costituente consacrate nel già citato art. 7 Cost.

Tuttavia, secondo l’opinione dottrinale più accreditata un tale assetto sarebbe non privo di una propria razionalità interna, dovendo da un lato giustificarsi l’attenuazione del principio di eguaglianza con l’ampia discrezionalità che non può non connotare le scelte compiute dai pubblici poteri nel selezionare i soggetti religiosi da favorire (e, cioè, i più forti), e sotto altro profilo trovando tale attenuazione un limite invalicabile nell’esigenza, sancita dal comma 1 dello stesso art. 8 Cost., di garantire alle confessioni religiose eguale libertà: non essendo quindi consentito al Governo di introdurre previsioni che, in modo arbitrario o immotivato, limitino la libertà di organizzazione di una confessione rispetto a quella riconosciuta ad altre.

8. Nel quadro così delineato, anche l’accertamento preliminare se l’organizzazione richiedente sia o meno riconducibile alla categoria delle "confessioni religiose" non può essere ritenuto insindacabile, malgrado le indubbie difficoltà pratiche che può comportare, e per vero neanche connotato da ampia discrezionalità (se non, forse, da discrezionalità tecnica); ciò in quanto la capacità di ogni confessione, che lo richieda, di stipulare un’intesa costituisce corollario immediato dal principio di eguale libertà di cui al primo comma dell’art. 8, sicché non può ritenersi espressione di potere non sindacabile il riconoscimento dell’attitudine di un culto a stipulare accordi con lo Stato.

Di conseguenza, quanto meno l’avvio delle trattative può addirittura considerarsi obbligatorio sol che si possa pervenire a un giudizio di qualificabilità del soggetto istante come confessione religiosa, salva restando da un lato la facoltà di non stipulare l’intesa all’esito delle trattative ovvero – come già detto – di non tradurre in legge l’intesa medesima, e dall’altro lato la possibilità, nell’esercizio della discrezionalità tecnica cui si è accennato, di escludere motivatamente che il soggetto interessante presenti le caratteristiche che le consentirebbero di rientrare fra le "confessioni religiose" (ciò che, del resto, è quanto avvenuto proprio nel caso di specie).

9. In conclusione, la Sezione ritiene di non condividere la declaratoria di difetto assoluto di giurisdizione pronunciata dal primo giudice, in quanto – come evincibile dagli argomenti sopra sviluppati – nella specie ci si trova in presenza di una scelta dell’Amministrazione non insindacabile, ma presentante i tratti tipici della discrezionalità valutativa come ponderazione di interessi: segnatamente, da un lato vi è l’interesse dell’associazione istante (la quale, nel chiedere di stipulare un’intesa con lo Stato, ha evidentemente ritenuto tale via idonea a un miglior perseguimento dei propri fini istituzionali), e dall’altro lato si pone l’interesse pubblico che si è visto sotteso alla selezione dei soggetti con cui avviare le trattative ed alla loro preliminare ed ineludibile qualificazione come "confessioni religiose".

Tali conclusioni consentono di non delibare, siccome irrilevante ai fini del giudizio, la questione di costituzionalità che la parte appellante ha sollevato in via subordinata, in relazione alle disposizioni che contemplano la non impugnabilità degli "atti politici".

10. S’impone pertanto, ai sensi dell’art. 105 cod. proc. amm., l’annullamento della sentenza impugnata con il rinvio della causa al primo giudice.

11. In considerazione dell’evidente complessità e novità delle questioni esaminate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla con rinvio la sentenza di primo grado.

Compensa tra le parti le spese del doppio grado del giudizio.

Ordina che la pubblica amministrazione dia esecuzione alla presente decisione.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 novembre 2011 con l’intervento dei magistrati:

Gaetano Trotta, Presidente

Raffaele Greco, Consigliere, Estensore

Fabio Taormina, Consigliere

Diego Sabatino, Consigliere

Guido Romano, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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