Cass. civ. Sez. VI, Sent., 03-04-2012, n. 5308 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ritenuto che M.H.M.G. ha domandato, con ricorso alla Corte d’appello di Perugia, la condanna del Ministero della giustizia a titolo di equa riparazione per i danni, patrimoniali e non, sofferti a seguito della durata irragionevole di un processo penale che lo ha visto imputato dinanzi agli uffici giudiziari del distretto della Corte d’appello di Roma;

che la Corte d’appello di Perugia, con decreto in data 21 dicembre 2010, ha accolto in parte la domanda e condannato il Ministero al pagamento, in favore del ricorrente, della somma di Euro 3.300 a titolo di danno non patrimoniale, oltre spese per complessivi Euro 600;

che la Corte d’appello ha rilevato: che il giudizio di cui trattasi ha avuto inizio con la notifica del decreto di citazione a giudizio, avvenuta il 13 maggio 1999; che in data 26 ottobre 2000 è stata pronunciata la sentenza di primo grado, il 7 marzo 2007 la sentenza di secondo grado, che ha sancito la nullità del giudizio precedente, il 22 dicembre 2008 la nuova sentenza di primo grado, che ha definito il giudizio;

che la Corte territoriale ha sottolineato che la durata complessiva è stata, dunque, di nove anni e sette mesi, a fronte di quella ragionevole di non più di sette anni;

che, individuata una eccedenza della durata effettiva rispetto a quella ragionevole di due anni e sette mesi, la Corte del merito ha liquidato in favore del ricorrente il solo danno non patrimoniale, per un importo di Euro 1.300 all’anno;

che per la cassazione del decreto della Corte d’appello l’istante ha proposto ricorso, con atto notificato il 21 aprile 2011, sulla base di quattro motivi, illustrati con memoria;

che l’intimato Ministero ha resistito con controricorso.

Considerato che il Collegio ha deliberato l’adozione di una motivazione in forma semplificata;

che il primo mezzo lamenta violazione e falsa applicazione della L..

89 del 2001, art. 3 e dell’art. 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo della determinazione del periodo di durata ragionevole del processo;

che il motivo è in parte fondato;

che erra il ricorrente là dove pretende di ancorare la valutazione di irragionevole durata in relazione ad ogni singolo grado del giudizio, chiedendo che siano riconosciuti, ad esempio, cinque anni di ritardo per la sola durata del giudizio di appello, iniziato il 30 novembre 2000 e conclusosi il 2 aprile 2007;

che, infatti, in questa parte il motivo non tiene conto del fatto che, in tema di equa riparazione, pur essendo possibile individuare degli standard di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest’ultimo si sia articolato in vari gradi e fasi, cosi come accade nell’ipotesi in cui il giudizio si svolga in primo grado, in appello, in cassazione ed in sede di rinvio, agli effetti dell’apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali occorre – secondo quanto già enunciato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo – avere riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo, dall’introduzione fino al momento della proposizione della domanda di equa riparazione, dovendosi cioè addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva del processo anzidetto, alla maniera in cui si è concretamente articolato (per gradi e fasi appunto), così da sommare globalmente tutte le durate, atteso che queste ineriscono all’unico processo da considerare;

che, invece, la censura coglie nel segno là dove addebita al decreto impugnato di avere considerato terminato il processo presupposto con la data (22 dicembre 2008) della pronuncia della sentenza, anzichè con la data (17 aprile 2009) in cui questa è divenuta definitiva;

che, infatti, ai fini della valutazione in ordine alla ragionevole durata del processo penale, il termine finale non coincide con la data della pronuncia della decisione in udienza, ma con la irrevocabilità della sentenza penale, cioè con il momento a partire dal quale la stessa non è più soggetta ad impugnazione (Cass., Sez. 1, 24 settembre 2009, n. 20541);

che, inoltre, ha errato il giudice a quo ad individuare in sette anni anzichè in sei la durata complessiva del giudizio, atteso che il termine congruo mediamente occorrente per la definizione di un processo penale di normale complessità è di tre anni in primo grado, due in appello ed uno nel giudizio di primo grado conseguente all’annullamento disposto dal giudice d’appello della precedente sentenza;

che il secondo ed il terzo motivo – con cui si censura il mancato riconoscimento delle voci di danno patrimoniale richieste con il ricorso introduttivo – sono invece inammissibili;

che la Corte territoriale ha escluso – con valutazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici – che il danno patrimoniale sia risarcibile, non essendovi pregiudizi diversi da quelli non patrimoniali che l’istante abbia subito o provato di avere subito – che la censura, anche là dove prospetta il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 6 della CEDU e della L. n. 89 del 2001, art. 2 finisce con il sollecitare un riesame di fatto, precluso in sede di giudizio di cassazione, sulla sussistenza di una normale sequenza causale tra la violazione della ragionevole durata e la sfera patrimoniale dell’istante;

che l’esame del quarto motivo, relativo alle spese, resta assorbito per effetto dell’accoglimento del primo mezzo;

che cassato il decreto impugnato in relazione alla censura accolta, non essendo necessari nuovi accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito;

che, essendo il periodo di irragionevole durata di quattro anni (detratti sei anni dal decennio che va dal maggio 1999 all’aprile 2008), in favore del ricorrente deve essere riconosciuto, a titolo di equa riparazione per il danno non patrimoniale, l’importo di Euro 5.200, atteso il valore della posta in gioco;

che su tale somma sono dovuti gli interessi legali dalla domanda;

che le spese di entrambi i gradi del giudizio – liquidate come da dispositivo – seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibili il secondo ed il terzo ed assorbito il quarto, cassa il decreto impugnato nei limiti della censura accolta e, decidendo la causa nel merito, condanna il Ministro della giustizia al pagamento, in favore del ricorrente, della somma di Euro 5.200, oltre agli interessi dalla domanda e al rimborso delle spese del giudizio, che determina, per il giudizio di merito, in complessivi Euro 973, di cui Euro 50 per esborsi, Euro 445 per diritti ed Euro 478 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge, e, per il giudizio di legittimità, in complessivi Euro 765, di cui Euro 665 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge.

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