Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 05-07-2011) 19-10-2011, n. 37913

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

Con ordinanza in data 28.1.2011 il Tribunale di Catania – in riferimento alla impugnazione proposta dal Difensore di R. G., ai sensi dell’art. 309 c.p.p. avverso il provvedimento della Corte di Assise di Appello che – in data 25-10-2010, su istanza del PG. aveva disposto ai sensi dell’art. 300 c.p.p., comma 5, il ripristino della custodia cautelare in carcere a carico del predetto imputato – rigettava tale impugnazione previa riqualificazione della stessa ai sensi dell’art. 310 c.p.p..

In relazione al R. il Tribunale aveva illustrato l’iter del procedimento, nel quale il predetto era stato sottoposto alla custodia cautelare per reati di cui all’art. 416 bis c.p. ed omicidio.

Successivamente si era modificato lo stato di custodia,concedendo gli arresti domiciliari, e a seguito di appello del PM era stata ripristinata la custodia cautelare in carcere.

In primo grado vi era stata condanna solo per delitto di cui all’art. 416 bis c.p. ed altri reati, mentre era intervenuta l’assoluzione dal delitto di omicidio.

In tale fase era stata disposta la scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare.

A seguito di impugnazione formulata dal PM era intervenuta successivamente la riforma della sentenza in riferimento al delitto di omicidio.

In base a tali dati il Tribunale dava atto che il R. risultava condannato in via definitiva per l’associazione di tipo mafioso ed altro alla pena di anni nove di reclusione, non ancora scontata per intero,e risultava condannato con sentenza della Corte di Assise di Appello di Catania per il delitto di omicidio in danno di Ri.Da. ed altri delitti concernenti le armi alla pena dell’ergastolo, condanna non definitiva.

In tale contesto processuale la Corte di Assise di Appello aveva accolto la richiesta avanzata dal PG ai sensi dell’art. 300 c.p.p., comma 5, disponendo il ripristino della custodia cautelare in carcere – il Tribunale aveva ritenuto di qualificare l’impugnazione formulata dalla difesa come appello,ai sensi dell’art. 310 c.p.p., rilevando che il provvedimento impugnato non assumeva la qualità di un nuovo titolo di custodia cautelare.

Aveva rigettato quindi l’impugnazione, rilevando l’esistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., lett. b) e c).

Avverso tale provvedimento proponeva ricorso per cassazione il difensore,deducendo:

1 – la violazione di legge processuale, in riferimento alla qualificazione della impugnazione ai sensi dell’art. 310 c.p.p..

A riguardo citava giurisprudenza di legittimità,e deduceva che – avendo il Tribunale definito l’impugnazione superando il termine di cui all’art. 309 c.p.p., comma 9, era intervenuta la perdita di efficacia dell’ordinanza di custodia cautelare.

Per tale motivo chiedeva l’annullamento del provvedimento senza rinvio, con conseguenti statuizioni.

2 – deduceva altresì la violazione dell’art. 311 c.p.p., e art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) per illogicità della motivazione resa dal Tribunale.

A riguardo sosteneva che – diversamente da quanto illustrato dai Giudici dell’impugnazione – il R. non era destinatario di richieste del PM ai sensi dell’art. 300 c.p.p., comma 5.

Pertanto la fase processuale di appello doveva ritenersi esaurita,non avendo il PM attivato la procedura di cui al menzionato art. 300 c.p.p., comma 5.

In tal senso rilevava che la Corte di Assise – nel giudizio di rinvio (avendo la Corte di Cassazione annullato la prima condanna) con la pronunzia del 25-10-2010- non avrebbe potuto – secondo la difesa – limitarsi a valutare – (dopo oltre undici anni dai fatti contestati) – i presupposti della misura custodiale con clausole di stile riferite alla gravità dei fatti e esistenza del pericolo di fuga, bensì avrebbe dovuto esaminare "gli ulteriori elementi di fatto" che avrebbero consentito di ritenere esistenti le esigenze cautelari.

Diversamente la difesa rilevava che la Corte di Assise aveva valutato il pericolo di fuga desumendolo dalla inevitabile esecuzione della pena.

Rilevava altresì che l’ordinanza di cui all’art. 300 c.p.p., comma 5 avrebbe dovuto pur sempre valutare il fattore del tempo decorso evidenziando che l’imputato non aveva dato luogo a censure nel comportamento processuale, rendendosi reperibile e rimanendo nel proprio domicilio,e non sottraendosi alla esecuzione del provvedimento restrittivo.

In conclusione la difesa riteneva che l’ordinanza impugnata fosse basata su una sorta di presunzione di carattere assoluto, che non rispondeva ai canoni normativi dell’art. 111 Cost..

In tal senso chiedeva l’annullamento del provvedimento impugnato.

Motivi della decisione

La Corte rileva che il ricorso deve ritenersi privo di fondamento.

Il provvedimento risulta legittimamente definito ai sensi dell’art. 310 c.p.p. Invero nella specie deve rilevarsi quanto segue:

– le misure disposte in relazione a un determinato fatto perdono immediatamente efficacia quando, per tale fatto,e nei confronti della medesima persona, venga disposta l’archiviazione ovvero sia pronunziata sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento.

Per tale motivo ha perso efficacia la custodia cautelare in carcere a carico dell’imputato, nel momento in cui questo è stato assolto dal giudice di primo grado per il fatto omicidiario.

– Successivamente, però, in grado di appello l’imputato è stato condannato per lo stesso fatto, per cui il Procuratore Generale della Repubblica ha chiesto ed ottenuto il ripristino della misura della custodia cautelare in carcere.

Elemento determinante per il presente giudizio è la qualificazione giuridica di tale provvedimento, oggi impugnato, che secondo la difesa costituisce nuova ordinanza coercitiva, mentre per il Tribunale costituisce mero ripristino di quella precedentemente emessa e poi temporaneamente resa inefficace per effetto della sentenza di assoluzione in primo grado.

Orbene, si deve preliminarmente dare conto di una giurisprudenza di legittimità apparentemente difforme; – secondo un primo indirizzo (richiamato dal Tribunale di Catania nel proprio provvedimento), l’ordinanza che "ripristina" la misura coercitiva a norma dell’art. 300 c.p.p., comma 5, nei confronti di persona condannata in appello dopo l’assoluzione in primo grado non può essere considerata come nuovo provvedimento coercitivo, dato il nesso necessario e indissolubile che la lega a quella che ha disposto la precedente misura, ed è pertanto impugnabile mediante "appello" ai sensi dell’art. 310 c.p.p. e non con il riesame previsto dal precedente art. 309 c.p.p. (v. Cass. Sez. 1 – del 12 febbraio 2002, n. 23061; il caso esaminato dalla Corte nella pronuncia richiamata era speculare a quello odierno, dato che il ricorrente, sul presupposto che il suo mezzo di gravame fosse da qualificare come riesame,lamentava la mancata scarcerazione per non essere intervenuta la decisione del Tribunale della libertà nel termine di dieci giorni previsto dall’art. 309 c.p.p., comma 10).

Secondo un’altra pronuncia (richiamata dalla difesa dell’imputato), mentre il provvedimento di ripristino della custodia cautelare, in caso di "scarcerazione per decorrenza terminale impugnabile con appello, nei confronti di ordinanza restrittiva emessa successivamente alla revoca del precedente provvedimento cautelare, l’impugnazione esperibile è – viceversa – il riesame.

Ne consegue che, se il giudice del gravame,in tale secondo caso,equivocando sulla natura dell’impugnazione, decida oltre i termini di cui all’art. 309 c.p.p., comma 9, l’ordinanza coercitiva perde efficacia (cfr. Cass. Sez. 5 – del 29-4-2002, n. 22868).

A ben vedere, però, le due pronunce non si pongono affatto in contraddizione, dal momento che esprimono lo stesso principio e cioè che quando la misura cessa di avere efficacia per effetto di un automatismo (scadenza dei termini massimi di custodia o assoluzione), senza necessità di valutazione della persistenza delle esigenze cautelari, la successiva ordinanza cautelare emessa a seguito del venir meno dell’impedimento oggettivo non fa altro che riespandere l’originaria efficacia e perciò si lega indissolubilmente alla prima (così come affermato da Cass. Sez. 1, 12-02-2002,n. 23061).

Più semplicemente,si può affermare che ogni qual volta vi sia una valutazione delle esigenze cautelari ed una ritenuta cessazione delle stesse, allora l’ordinanza genetica viene eliminata,cosicchè ogni successiva misura deve considerarsi "nuova" e soggetta a riesame.

Quando, viceversa, la legge prevede effetti automatici legati a determinati eventi (quali, ad esempio, la scadenza dei termini massimi di custodia o l’assoluzione) senza che abbia una qualche rilevanza l’esame nel merito della persistenza delle esigenze cautelari (che, in astratto, potrebbero permanere), allora l’ordinanza genetica non viene eliminata, bensì solamente resa inefficace (cfr. art. 300 c.p.p., comma 1) ed entra in una sorta di quiescenza. Questo stato può essere irreversibile (quando, per esempio,l’assoluzione sia confermata e diventi irrevocabile) oppure può venir meno con la riespansione della piena efficacia della misura originaria, quando cessino gli impedimenti oggettivi che ne hanno determinato la temporanea inefficacia (come, nel caso in esame, la sentenza di condanna in appello che ribalti il verdetto assolutorio di primo grado).

In conclusione,si può affermare che per valutare la novità o meno della misura si deve aver riguardo alla causa di cessazione di quella precedentemente emessa; se la causa agisce sull’efficacia,lasciando in vita il provvedimento originario, pur se devitalizzato, allora alla cessazione della causa ostativa la misura si riespande e deve essere considerata quale ripristino. Se, diversamente, la causa agisce sulla stessa esistenza del provvedimento, eliminandolo (come avviene in caso di revoca per sopravvenuta cessazione delle esigenze cautelari), allora ogni successiva istanza deve considerarsi come nuova richiesta della misura.

Poichè nel caso di specie la misura genetica aveva semplicemente perso efficacia, in via automatica – per effetto della sentenza assolutoria di primo grado – senza essere eliminata del tutto, il sovvertimento del verdetto assolutorio, che devitalizzava la misura, non può che comportare la reviviscenza della stessa; di talchè il relativo provvedimento di ripristino rimane soggetto ad appello e non a riesame da parte del tribunale della libertà.

Deve dunque ritenersi che il Tribunale di Catania abbia fatto corretta applicazione delle disposizioni normative, così come interpretate da questa suprema corte,e pertanto che abbia correttamente riqualificato come appello la richiesta di esame dell’imputato.

2 – Quanto alle altre censure difensive,deve condividersi l’affermazione del Tribunale di Catania, secondo cui continua ad operare la doppia presunzione di legge di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, pienamente applicabile al caso di specie,dal momento che è l’ordinanza cautelare originaria che oggi rivive. Nè, d’altronde, può ritenersi elemento sufficiente per vincere la presunzione di legge il semplice trascorrere del tempo, anche se consistente, come ha più volte affermato questa Corte; peraltro, il Tribunale di Catania dimostra di avere tenuto conto degli indici evidenziati dal ricorrente, laddove spende una specifica motivazione sia in relazione al tempo trascorso tra il fatto ed il periodo attuale, sia in relazione alla persistente pericolosità del soggetto (cfr. pag.4 dell’ordinanza impugnata). Si deve tener conto, infine, del fatto che le esigenze cautelari sono state ravvisate con riferimento non solo al pericolo di fuga (su cui il Tribunale da ampio conto delle sue valutazioni negative alla pag. 5 dell’ordinanza), ma anche con riferimento al pericolo di reiterazione dei reati, evidenziato e motivato in modo adeguato nel provvedimento oggetto di impugnazione.

Quanto, infine, al fatto che non venne richiesto il ripristino della misura dopo la prima sentenza di appello, che condannava il predetto ricorrente anche per l’omicidio, implicitamente non ritenendosi sussistenti – secondo la difesa – nè il pericolo di fuga, nè quello di reiterazione criminosa, si deve rilevare che le ragioni per le quali il Procuratore Generale ha ritenuto di attendere fino alla seconda sentenza di appello (a seguito dell’annullamento con rinvio disposto dalla Corte di Cassazione) non sono rilevanti, trattandosi di valutazione soggettiva che sfugge a questa Corte e che non esplica alcuna influenza sul presente procedimento. Per questi motivi il ricorso deve essere rigettato.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p..

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