Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 21-06-2011) 19-10-2011, n. 37896

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale del riesame di Napoli, con ordinanza del 12 agosto 2010, ha rigettato la richiesta di riesame proposta nell’interesse di B.R., indagato per i delitti di concorso esterno in un’associazione camorristica e fittizia intestazione di beni, avverso l’ordinanza del 16 luglio 2010 del GIP del medesimo Tribunale con la quale era stata disposta nei suoi confronti la misura personale della custodia cautelare in carcere.

2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, lamentando:

a) una nullità, per violazione dell’art. 292 c.p.p., in merito alla mancata considerazione delle asserzioni defensionali contenute nell’interrogatorio di garanzia;

b) una mancanza di motivazione in merito alla sussistenza dell’ascritto concorso esterno nell’associazione camorristica;

c) una mancanza di motivazione in merito all’attendibilità estrinseca ed intrinseca delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia;

d) una violazione di legge e una motivazione illogica in merito alla contestata intestazione fittizia dei beni;

e) una violazione di legge in merito al corrispettivo per l’esercizio abusivo dell’attività finanziaria;

f) una violazione di legge in merito alla sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è da rigettare.

2. Quanto al primo motivo, nell’ordinanza impugnata si da conto delle asserzioni defensionali del ricorrente, rese nel corso dell’interrogatorio di garanzia e se ne afferma l’impotenza alla erosione dell’impianto accusatorio sulla scorta della consistenza degli elementi a carico.

Nessuna nullità può quindi dirsi verificata nel caso di specie non dovendo il Giudice del merito controbattere a ciascuna delle singole obiezioni mosse dalla difesa potendo esprimere il proprio convincimento, così come nella specie, in maniera concisa seppur logica.

3. Quanto al secondo motivo, giova rammentare, in diritto, come il delitto di associazione per delinquere implichi un accordo fra almeno tre persone, con ripartizione di compiti tra gli associati in relazione alla realizzazione di un programma indeterminato di reati e predisposizione di una struttura organizzativa almeno rudimentale, atta a fornire stabile supporto alle singole deliberazioni criminose.

Ai fini della configurabilità del reato in esame, il patto associativo non deve necessariamente consistere in un preventivo accordo formale tra gli associati, essendo sufficiente che questi, anche in assenza di un espresso accordo, siano portati ad operare nella consapevolezza che la propria e l’altrui attività ricevono vicendevole ausilio per l’attuazione del programma criminale (v. di recente, Cass. Sez. 6, 17 giugno 2009 n. 40505).

Dal punto di vista della struttura non è, poi, richiesta la presenza di una complessa e articolata organizzazione, dotata di notevoli disponibilità economiche e di imponenti strumenti operativi, ma è sufficiente l’esistenza di strutture, sia pure rudimentali, deducibile dalla predisposizione di mezzi, anche semplici ed elementari, per il perseguimento del fine comune.

Ferma l’autonomia rispetto ai reati fini commessi in attuazione del programma, la prova in ordine al delitto associativo può desumersi anche dalle modalità esecutive dei reati-scopo, dalla loro ripetizione, dai contatti fra gli autori, dall’uniformità delle condotte, specie se protratte per un tempo apprezzabile.

Quanto al criterio distintivo tra concorso di persone nel reato e reato associativo, lo stesso va, infine, ravvisato nel carattere stesso dell’accordo criminoso, che nel concorso di persone è funzionale alla realizzazione di uno o più reati determinati, eventualmente ispirati a un medesimo disegno criminoso, consumati i quali l’accordo si esaurisce o si dissolve, mentre nel delitto associativo è diretto all’attuazione di un più vasto programma criminoso da parte di tre o più persone, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, e permane anche dopo la realizzazione dei singoli reati.

Nella specie, questa volta in fatto, al ricorrente viene ascritto il mero concorso esterno e sostanzialmente lo stesso ricorrente evidenzia situazioni di fatto non correttamente valutate dal Giudice del riesame, tali da far ritenere insussistenti i gravi indizi di colpevolezza per il delitto associativo di cui all’art. 416 bis c.p. nei suoi confronti.

A giudizio di questa Corte, al contrario, il Giudice a quo ha fatto, da un lato, buon uso dei principi di diritto in tema di partecipazione esterna all’associazione mafiosa, sostenendo come il compartecipe debba fornire, seppur non stabilmente ed organicamente inserito nell’organizzazione criminale, un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, sia esso continuativo che occasionale, alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione criminale (v. la fondamentale Cass. Sez. Un. 12 luglio 2005 n. 33743 nonchè da ultimo Sez. 2, 22 gennaio 2011 n. 15583).

D’altra parte il Giudice del merito ha, del pari correttamente, evidenziato in punto di fatto, sulla base degli elementi specificatamente e concretamente indicati alle pagine da 13 e 21 dell’impugnata ordinanza, gli elementi indiziari tali da integrare la contestata fattispecie criminosa, di talchè pienamente condivisibile è l’icastica definizione del B. quale vero e proprio "imprenditore" dell’organizzazione criminale che riceveva, in ragione della forza d’intimidazione dalla stessa promanate, la "sponsorizzazione" del sodalizio per avere appalti, lavori edili, commesse pubbliche e private versando, poi, nelle casse del clan parte significativa dei proventi.

4. Il terzo motivo del ricorso è ictu oculi infondato in quanto basta leggere il contenuto delle dichiarazioni rese del collaborante Vassallo (v. da pagina 15 della motivazione) per rendersi conto come non sussista neppure la dedotta confusione con B.G..

5. Il quarto e quinto motivo, che possono essere trattati congiuntamente in quanto sostanzialmente attinenti all’illecita attività economico-finanziaria posta in essere dal ricorrente, sono ugualmente non accoglibili.

L’impugnata ordinanza, invero, non può affatto essere tacciata di vizio alcuno se è vero che ha, in dettaglio e ben motivatamente, indicato quali fossero le fittizie intestazioni dei beni nonchè le abusive attività d’intermediazione finanziaria (v. da pagina 22 a 33 della motivazione) per cui non si può chiedere a questa Corte di legittimità di procedere ad una rilettura del quadro indiziario logicamente e con precisione indicato.

6. Con riferimento all’ultimo motivo del ricorso, anche questa volta non può che concordarsi con il ragionamento svolto dal Giudice del riesame allorquando afferma la sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 in quanto le condotte poste in essere non erano fini a se stesse bensì dirette ad agevolare l’attività del clan camorristico dei casalesi (v. pagina 34 della motivazione) Come è noto, la L. n. 203 del 1991, art. 7, disciplina due distinte ipotesi, prevedendo la possibilità di applicare l’aggravante anche nei confronti di chi, pur non organicamente inserito in associazioni mafiose, agisca con metodi mafiosi o comunque dia un contributo al raggiungimento dei fini di un’associazione di tale tipo (v. a partire da Cass. Sez. Un. 28 marzo 2001 n. 10 e più di recente Sez. 6, 2 aprile 2007 n. 21342).

Tuttavia, a differenza dell’ipotesi in cui il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l’attività delle associazioni mafiose, quando si tratti di soggetti non inseriti in tali organizzazioni è necessario che il ricorso al metodo mafioso sia accertato con maggiore rigore, costituendo l’unico presupposto che giustifica l’aggravamento sanzionatorio, del tutto svincolato dalla esistenza di una associazione.

L’accertamento deve essere condotto in maniera oggettiva, tenendo conto del contesto in cui si svolge l’azione, ma soprattutto analizzando il tipo di comportamento posto in essere, alla luce della definizione fornita dall’art. 416 bis c.p., espressamente richiamato dal citato art. 7.

Deve trattarsi, cioè, di un comportamento idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone, con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale della specie considerata.

La giurisprudenza riconosce come in tali casi non sia necessario che l’associazione mafiosa, costituente il logico presupposto della condotta dell’agente, sia in concreto precisamente delineata come entità ontologicamente presente nella realtà, potendo anche essere semplicemente presumibile, nel senso che la condotta stessa, per le modalità attraverso cui si manifesta, sia già di per sè tale da evocare l’esistenza di consorterie amplificatrici della valenza criminale del reato commesso (v. a partire da Cass. Sez. 1, 18 marzo 1994 n. 1327 e da ultimo Sez. 1, 22 gennaio 2010 n. 5783).

Nella specie, al contrario, l’organismo camorristico era pienamente delineato sia in senso soggettivo che nella sua collocazione spaziale (v. pagine 10-12 dell’impugnata ordinanza).

7. Il ricorso va, in definitiva, rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

Devono disporsi, altresì, le comunicazioni di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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