Cass. civ. Sez. V, Sent., 04-04-2012, n. 5392

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

La controversia promossa da Trissolbia s.p.a. (già Palmera s.p.a.) contro l’Agenzia delle Dogane è stata definita con la decisione in epigrafe, recante l’accoglimento dell’appello proposto dalla Agenzia delle Dogane contro la sentenza della CTP di Livorno n. 146/5/2005 che aveva accolto il ricorso della società avverso l’avviso di accertamento e di rettifica di una bolletta di importazione relativa a filetti di tonno proveniente dalla (OMISSIS).

Il ricorso proposto si articola in due motivi. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Dogane. All’udienza odierna la ricorrente ha depositato istanza di trattazione della L. n. 183 del 2011, ex art. 26.

Motivi della decisione

Con il primo motivo (con cui deduce: "Violazione e falsa applicazione dell’art. 220 CDC (Reg. CEE 12/10/92 n. 2913) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), la ricorrente assume che "il giudice tributario di appello ha errato nell’accogliere la tesi dell’Amministrazione finanziaria circa la mancata ricorrenza dei presupposti per l’applicazione dell’arti. 220 CDC al caso di specie, perchè non tiene conto nè delle peculiari circostanze fattuali relative alla fattispecie, nè del fatto che …la Commissione europea si è già espressa sulla corretta imputazione della responsabilità alle autorità colombiane in un caso del tutto assimilabile a quello di specie". Il giudice di appello avrebbe omesso di considerare "i riscontri documentali ed i rilievi che dimostravano l’errore attivo delle Autorità colombiane senza peraltro motivare adeguatamente sul punto".

Con secondo motivo (con cui deduce: omessa, contraddittoria o insufficiente motivazione circa un fatto decisivo della controversia, rappresentato dalla presunta mancanza dei requisiti per l’ammissione al trattamento preferenziale della merce, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5) la ricorrente deduce che la sentenza dopo aver "indicato come rilevante al fine del decidere la sussistenza di un errore attivo da parte delle autorità preposte, ha poi omesso ogni riscontro della ricorrenza di detta condizione sulla base degli atti allegati, omettendo così l’esame stesso della ricorrenza del requisito".

I due motivi da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono per alcuni versi inammissibili e per altri infondati.

Va premesso che l’importatore è tenuto al pagamento delle imposte doganali per solo il fatto oggettivo dell’importazione da lui o per suo conto operata; ove lo stesso deduca l’esenzione per origine preferenziale dell’importazione egli è tenuto a specificare e a dare la prova delle circostanze di fatto addotte a sostegno di tale origine preferenziale. Nel caso in cui l’origine preferenziale sia in fatto insussistente egli può tuttavia rivendicare ugualmente l’esenzione qualora deduca e dimostri di avere ritenuto, in buona fede, la sussistenza delle circostanze di fatto (rivelatesi poi non vere) idonee a concretizzare l’origine preferenziale della merce importata. A tal fine, la "buona fede", per essere scriminante, deve presentare i caratteri e le condizioni enunciati dalla giurisprudenza europea; in particolare, la dichiarazione resa all’esportatore e/o all’importatore dall’autorità doganale del paese di provenienza (in particolare il certificato FORM/A) non ha alcun valore propriamente certificativo, ma – in presenza di determinate condizioni – può costituire elemento utile a dimostrare la buona fede dell’importatore e cioè il suo legittimo affidamento sulla verità di determinate circostanze di fatto rilevanti ai fini della terminazione dell’origine preferenziale dei prodotti. Il recupero a posteriori dei dazi doganali non versati all’atto dell’importazione costituisce quindi una normale conseguenza del fatto che il controllo a posteriori non consente di confermare l’origine delle merci come indicata nel certificato FORM A, e l’importatore può utilmente invocare il legittimo affidamento ai sensi dell’art. 220, n. 2, lett. b), del codice doganale, e così beneficiare della deroga al recupero a posteriori prevista da detta disposizione, solo qualora ricorrano tre condizioni cumulative. Occorre, anzitutto, che il rilascio irregolare dei certificati sia dovuto ad un errore delle autorità competenti stesse; che l’errore commesso dalle medesime non sia stato determinato nè dall’esportatore nè dall’importatore; che tale errore sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato dal debitore di buona fede; e, infine, che si tratti di errore incolpevole e cioè che l’importatore abbia osservato i canoni della diligenza professionale e tutte le prescrizioni della normativa in vigore. In tal senso questa Corte ha affermato (Sentenza n. 22141 del 16/10/2006) che, in caso di irregolarità dei certificati di origine, dalla quale derivi la mancata riscossione dei dazi effettivamente dovuti, la buona fede dell’importatore dichiarante non lo esime, in linea generale, da responsabilità quand’anche la merce sia scortata da certificati falsificati a sua insaputa (cfr. Corte di giustizia, sent. 17 luglio 1997 in causa C-97/95), non essendo tenuta la Comunità europea a sopportare le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini; con sentenza Sez. 5, Sentenza n. 15297 del 10/06/2008) si è riaffermato tale principio rilevando che l’applicazione dell’esenzione prevista dall’art. 220, comma 2, lett. b), del Reg. CEE n. 2913 del 1992 (cosiddetto Codice doganale comunitario), richiede un compiuto esame da parte del giudice sulla ricorrenza della buonafede che deve essere dimostrata dal soggetto che intende avvalersi dell’agevolazione, attraverso la prova della sussistenza cumulativa di tutti i presupposti indicati dalla norma perchè resti impedito il recupero daziario, ed in particolare: a) un errore imputabile alle autorità competenti; b) un errore di natura tale da non poter essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza, ed in ogni caso determinato da un comportamento attivo delle autorità medesime, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’operatore; c) l’osservanza da parte del debitore di tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente.

Più di recente è stato altresì affermato (Sez. 5, Sentenza n. 13680 del 12/06/2009) che l’esenzione prevista dall’art. 220, comma 2, lett. b), del Regolamento CEE n. 2913 del 1992 (cosiddetto Codice doganale comunitario), presuppone la genuinità del certificato di origine, cioè la sua regolarità formale e sostanziale; e che spetta, pertanto, all’importatore che intende usufruire dell’esenzione dimostrare l’origine della merce che importa e, in ogni caso, il suo stato soggettivo di buona fede, mediante la prova della sussistenza cumulativa di tutti i presupposti indicati dalla citata norma, mentre all’Autorità doganale incombe esclusivamente l’onere di dare dimostrazione delle irregolarità delle certificazioni presentate.

Orbene, dagli atti processuali – ricorso per cassazione e sentenza della CTR- non risulta che nel corso del giudizio la ricorrente abbia fornito prova della propria buona fede, nei sensi ora detti. Ciò non può ravvisarsi nella formale regolarità della documentazione contabile, nè sulla circostanza che non sia risultato " un rapporto diretto tra l’esportatore colombiano e la soc. Palmera, che ha acquistato la merce tramite un broker di Singapore cui ha affidato l’incarico di acquistare tonno sul mercato internazionale"- come avrebbe affermato la CTP, secondo quanto indicato dalla Trisolbia nel proprio ricorso per cassazione. Nè risulta dagli atti che la società ricorrente abbia in alcun modo, nel corso del giudizio di merito, fornito prova di avere agito con la diligenza dei soggetti che sono operatori professionali del settore, sia nell’acquisire informazioni in merito all’affidabilità dell’esportatore, sia nell’ avvenuta osservanza di tutte le disposizioni previste per la dichiarazione in dogana dalla normativa vigente.

L’eventuale accertamento sull’esistenza di un errore attivo delle autorità doganali circa l’estensione delle acque territoriali colombiane, in assenza degli ulteriori elementi, non sarebbe sufficiente ad escludere la pretesa fiscale in questione e comunque, trattandosi di errore di diritto, non avrebbe di per sè efficacia esonerativa.

In verità dalla sentenza impugnata e dal ricorso non risulta neppure specificato con chiarezza quale sia l’errore che è stato dedotto – quale sia cioè la realtà che – falsa- mente rappresentata ma in buona fede creduta vera dall’importatore – abbia indotto costui nel convincimento circa l’origine preferenziale delle merci. Dal ricorso alla Commissione tributaria provinciale, come riportato nella sentenza impugnata e nel ricorso di legittimità, sembrerebbe che l’origine non preferenziale (e cioè non colombiana) dei filetti di tonno importati fosse stata determinata in relazione al luogo in cui, secondo le dichiarazioni e le certificazioni, erano state effettuati le operazioni di conservazione di quella merce: infatti, come si legge a pagina 3 del ricorso, la rettifica era stata operata in base ad accertamenti presso alcune ditte conserviere colombiane. Nel ricorso si legge poi – ma il dato non ha corrispondenza nella sentenza impugnata – che invece la realtà falsamente rappresentata era quella relativa al luogo in cui i tonni erano stati pescati, anche se dal ricorso non risulta che tale luogo sia mai stato specificato nella domanda dell’esportatore e del modulo FORM A. Al riguardo non viene fornito e non risulta alcun altro elemento, ed in particolare non risulta la nazionalità delle navi che avevano effettuato la pesca: elemento determinante invece per determinare l’origine del pesce pescato fuori dalla acque territoriali alla luce dell’art. 23 del regolamento (CEE) del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, secondo cui "j) i prodotti della pesca marittima e gli altri prodotti estratti dal mare, al di fuori delle acque territoriali di un paese, da navi immatricolate o registrate in tale paese e battenti bandiera del medesimo ". Ne consegue che qualora le navi pescherecce fossero nella specie colombiane, irrilevante sarebbe la circostanza che la pesca fosse avvenuta in acque extraterritoriali. Qualora, di contro, la pesca fosse stata eseguita la navi di diversa nazionalità la circostanza che esse avessero (inverosimilmente) pescato in acque territoriali colombiane avrebbe avuto bisogno di ben altre specificazioni. Ne consegue che tutta l’argomentazione circa l’erroneo convincimento delle autorità colombiane in ordine all’estensione delle acque territoriali di quel paese appare, oltre che estranea ai motivi fatti valere nell’opposizione all’accertamento ingiuntivo così come rappresentati nel ricorso di legittimità e nella sentenza impugnata, anche di per sè irrilevante e fuorviante.

In realtà il motivo in esame soffre della carenza di specificazione che gli deriva dalla mancata indicazione del contenuto preciso della dichiarazione resa dall’esportatore all’autorità doganale colombiana e della "certificazione" FORM A da quest’ultima rilasciata. Va infatti rilevato – ad abundantiam – che il ricorso non specifica neppure se effettivamente, secondo le deduzioni ritualmente versate nel giudizio di merito, la dichiarazione dell’esportatore e l’attestazione della dogana colombiana – contenessero l’indicazione del luogo preciso in cui la pesca era stata effettuata.

La censura espressa nei due motivi di ricorso non può quindi essere accolta. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente alla rifusione, in favore dell’Agenzia delle Dogane, delle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi Euro 2000,00 oltre spese prenotate a debito.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione, in favore dell’Agenzia delle Dogane, delle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi Euro 2000,00 oltre spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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