Cass. civ. Sez. V, Sent., 04-04-2012, n. 5384 Dazi doganali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. La controversi trae origine dalle impugnazioni, da parte della Con.Ca. – Consorzio Caseario s.r.l., dell’avviso di rettifica per il recupero di dazi doganali evasi negli anni 1989, 1992, 1993 e 1994 e della relativa cartella esattoriale. La C.T.P. di Como accoglieva con due distinte pronunce i ricorsi della società e la C.T.R. Lombardia, decidendo sui rispettivi appelli riuniti, confermava le sentenze di primo grado.

In particolare, i giudici d’appello affermavano che nella specie non è applicabile il D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 84 (T.U.L.D.) invocato dall’Agenzia, riferendosi tale norma alla prescrizione del diritto di riscuotere il tributo e non alla decadenza dall’esercizio del potere di revisione, che è soggetta al termine di sei mesi e quindi di tre anni in forza del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5, a norma del quale, in caso di rettifica conseguente a revisione, l’avviso deve essere notificato a pena di decadenza entro il periodo di tre anni dalla data in cui l’accertamento è divenuto definitivo.

Avverso la decisione d’appello l’Agenzia delle Dogane ricorre per cassazione; la Con.Ca. s.r.l. in liquidazione resiste con controricorso proponendo altresì ricorso incidentale – successivamente illustrato da memoria – al quale a sua volta resiste con controricorso l’Agenzia.

2. Deve innanzitutto essere disposta la riunione dei due ricorsi siccome proposti avverso la medesima sentenza.

Col primo motivo del ricorso principale, deducendo violazione di legge, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello non abbiano dato applicazione all’art. 2935 c.c. (che in materia doganale trova riscontro nell’art. 84 cit. T.U.L.D.) e non abbiano considerato che la Dogana non avrebbe potuto esercitare il diritto alla riscossione tributaria prima della scoperta della frode e della acquisizione degli elementi necessari per esercitare l’azione di recupero. La ricorrente aggiunge che nella specie, non essendo in discussione la qualità, quantità, origine o valore della merce ma solo l’indebita detrazione di sconti e altre voci dal valore delle merci importate, la revisione non sarebbe stata neppure necessaria sicchè l’unica norma applicabile resterebbe il citato art. 84.

Col secondo motivo del ricorso principale, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, commi 2 e 3, in riferimento al D.Lgs. n. 347 del 1990, art. 11 ed in relazione all’art. 3 Reg. CEE 1697/1979 ed all’art. 221, par. 4 CDC-Reg. CE 2913/1992, nonchè dei principi generali in materia di decorrenza del termine prescrizionale, la ricorrente afferma che, difformemente da quanto ritenuto dai giudici d’appello, il citato D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, sarebbe applicabile non solo alla fase di riscossione ma anche a quella di accertamento e revisione, con la conseguenza che nella specie l’Amministrazione doganale ben avrebbe potuto azionare la pretesa entro i tre anni dalla data del decreto di archiviazione emesso a chiusura del processo penale aperto sui "fatti presupposti".

I due motivi sopra esposti, da esaminare congiuntamente perchè connessi, sono fondati nei termini e nei limiti di cui in prosieguo.

Secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità (alla quale il collegio intende dare continuità in assenza di valide ragioni per discostarsene), l’azione di recupero "a posteriori" dei dazi all’importazione o all’esportazione, ai sensi degli artt. 2 e 3 del Reg. CEE n. 1697/1979 del Consiglio non può essere avviata dopo la scadenza del termine di tre anni dalla data di contabilizzazione dell’importo originariamente richiesto o, se questa non ha avuto luogo, dalla data di insorgenza del debito doganale (analogo termine di prescrizione della riscossione dei diritti doganali stabilisce la corrispondente norma nazionale, il D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, a seguito della novella recata dalla L. n. 428 del 1990, art. 29, con effetto per i diritti sorti dopo la sua entrata in vigore, fissata al 1 maggio 1990). Il diritto all’esazione, pertanto, non è differito o condizionato al momento in cui viene effettivamente determinato e liquidato il tributo, ma rimane sempre collegato al momento in cui nasce l’obbligazione con l’effettuazione dell’operazione di importazione che segna il verificarsi di tutti gli elementi costitutivi della pretesa tributaria. "La comunicazione al debitore" dell’importo dovuto può tuttavia avvenire anche dopo tale termine triennale -che è pertanto in tali casi prorogato- quando la mancata determinazione del dazio sia avvenuta a causa di un atto perseguibile penalmente – artt. 220 e 221 del codice doganale comunitario, istituito con regolamento CEE n. 2913/92 del Consiglio del 12 ottobre 1992, le cui norme procedurali sono applicabili alle liti pendenti all’atto della sua entrata in vigore, secondo la precisazione del regolamento CEE n. 2700 del 16 novembre 2000- (v. cass. n. 22014 del 2006).

La suddetta proroga non può ritenersi esclusa nè per il fatto che nel corso delle indagini penali non siano emerse notizie che l’amministrazione non avrebbe potuto ottenere avvalendosi dei propri poteri istruttori -essendo sufficiente, secondo la previsione normativa, solo che la mancata determinazione del dazio sia avvenuta a causa di un fatto perseguibile penalmente (ad esempio, false dichiarazioni in sede di compilazione del certificato IMA 1)- nè in ragione dell’esito del procedimento penale, posto che, come affermato dalla giurisprudenza di questo giudice di legittimità, ciò che rileva per il legislatore non è il contenuto della decisione assunta in sede penale bensì il momento conclusivo del procedimento in sè, cui si correla il decorso della prescrizione (v. Cass. n. 20513 del 2006). La giurisprudenza di questo giudice di legittimità inoltre, premesso che la comunicazione al debitore dell’importo dovuto può avvenire anche dopo il decorso del termine triennale allorchè la mancata determinazione del dazio sia avvenuta a causa di un atto perseguibile penalmente ha avuto modo di precisare che, all’uopo, occorre "la formulazione di una ipotesi che sia quanto meno alla base di una notitia criminis, primo atto esterno prefigurante il nodo di commistione tra fatto reato e presupposto di imposta destinato ad essere sciolto all’esito del giudizio penale" (v. la già citata Cass. n. 22014 del 2006 relativa ad ipotesi in cui all’epoca della comunicazione della notizia di reato il termine triennale di prescrizione era ormai definitivamente scaduto).

La suddetta notitia criminis che determina la proroga del termine triennale deve tuttavia essere trasmessa nel corso di tale termine, e non dopo la sua scadenza (ancorchè l’atto accertativo possa essere notificato dopo), perchè altrimenti il termine di revisione sarebbe privo di riferimento temporale e dilatabile all’infinito (v. in termini Cass. n. 9773 del 2010). Alla luce di tutto quanto sopra esposto, deve pertanto affermarsi che hanno errato i giudici d’appello nel ritenere che, a norma del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5, in caso di rettifica conseguente a revisione, l’avviso deve essere sempre notificato a pena di decadenza entro il periodo di tre anni dalla data in cui l’accertamento è divenuto definitivo, escludendo in radice ogni possibilità di considerare la sussistenza dei presupposti per la proroga, prevista dalla normativa comunitaria e nazionale, in relazione all’intervento di una notizia concernente reati che hanno comportato la mancata determinazione del dazio.

Col terzo motivo del ricorso principale, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che, limitandosi ad affermazioni prive di riscontri normativi ed istruttori, i giudici d’appello nulla abbiano detto in ordine al punto controverso concernente "il complesso problema della operatività nella fattispecie della sospensione del decorso del termine di prescrizione previsto dal D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, comma 3 e dagli artt. 3 Reg. CE 1697/79 e 221 par. 4 Reg. CE 2913/1992 in presenza di un atto perseguibile penalmente che ha portato all’apertura di un procedimento penale conclusosi con l’archiviazione". La ricorrente si duole altresì del fatto che i suddetti giudici si siano discostati da una corretta interpretazione della normativa nazionale e comunitaria senza dar conto di tale scelta e senza considerare quanto dedotto e documentato dall’Agenzia.

La censura è inammissibile.

Nel motivo manca infatti l’indicazione prevista dalla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c., a norma del quale è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume viziata, essendo peraltro da evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dal citato art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un "quid pluris" rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (v. Cass. n. 8897 del 2008).

Anche prescindendo da quanto sopra, è appena il caso di sottolineare che l’illustrazione di cui al citato art. 366 bis deve sempre avere ad oggetto (non più un una questione o un "punto", secondo la versione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, anteriore alla modifica introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006 ma) un fatto preciso, inteso sia in senso storico che normativo, ossia un fatto "principale", ex art. 2697 c.c. (cioè un "fatto" costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche, secondo parte della dottrina e giurisprudenza, un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo, e che nella specie manca non solo l’illustrazione di cui alla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c., ma, ancor prima, l’individuazione di uno o più "fatti" specifici (intesi come sopra e non come generico sinonimo di punto, circostanza, questione) rispetto ai quali la motivazione risulti viziata nonchè l’evidenziazione del carattere decisivo dei medesimi fatti. E’ infine ancora da evidenziare che il vizio di motivazione denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, può riguardare solo l’accertamento in fatto, non la motivazione in diritto della sentenza.

Col quarto motivo del ricorso principale, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano rigettato l’appello proposto avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso della società relativo alla cartella esattoriale senza esporre alcuna ragione a sostegno di tale decisione.

La censura è infondata.

La ragione che ha indotto i giudici della C.T.R. al rigetto dell’appello proposto avverso la decisione concernente la cartella esattoriale risulta infatti evidente, anche se implicita, dalla lettura della sentenza impugnata ed è individuabile nel collegamento esistente tra l’avviso di rettifica e la successiva cartella (collegamento che è anche alla base della disposta riunione dei due procedimenti in appello) nonchè nella decisione assunta con riguardo all’appello concernente la pronuncia sull’impugnazione dell’avviso di rettifica: tale ultima decisione infatti non può non comportare una analoga sorte per l’appello riguardante la sentenza sull’impugnazione della relativa cartella.

3. Alla luce di quanto sopra esposto, i primi due motivi del ricorso principale devono essere accolti nei limiti e nei termini di cui sopra, mentre il quarto motivo deve essere rigettato e devono essere dichiarati inammissibili il terzo motivo del medesimo ricorso nonchè il ricorso incidentale. La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata con rinvio ad altro giudice che provvederà a decidere la controversia facendo applicazione del seguente principio di diritto:

"L’azione di recupero "a posteriori" dei dazi all’importazione o all’esportazione non può essere avviata dopo la scadenza del termine di tre anni dalla data di contabilizzazione dell’importo originariamente richiesto o, se questa non ha avuto luogo, dalla data di insorgenza del debito doganale, tuttavia la comunicazione al debitore dell’importo dovuto può avvenire anche dopo tale termine triennale -che è pertanto in tali casi prorogato- quando la mancata determinazione del dazio sia avvenuta a causa di un atto perseguibile penalmente, senza che la suddetta proroga possa ritenersi esclusa per il fatto che nel corso delle indagini penali non siano emerse notizie che l’amministrazione non avrebbe potuto ottenere avvalendosi dei propri poteri istruttori, ovvero in ragione dell’esito del procedimento penale, e sempre che la notitia criminis sia trasmessa nel corso del termine di prescrizione e non dopo la sua scadenza". Il giudice del rinvio provvederà altresì a liquidare le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

LA CORTE riunisce i ricorsi. Accoglie i primi due motivi del ricorso principale, rigetta il quarto e dichiara inammissibile il terzo nonchè il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese a diversa sezione della C.T.R. Lombardia.

Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2012.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2012

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