Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 04-04-2012, n. 5371 Licenziamento disciplinare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 25.3.2009, la Corte di Appello di Lecce rigettava l’appello proposto da P.E. avverso la decisione di primo grado che aveva respinto la domanda del predetto, intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli dall’istituto di vigilanza IVRI, per carenza della giusta causa e del giustificato motivo in riferimento a condotta consistita nell’avere effettuato, nel corso della sua attività di sorvegliante addetto all’ingresso nell’ospedale ss. (OMISSIS), una telefonata in data 16.12.2001, della complessiva durata di due ore, altre tre in data 23.12.2001, della complessiva durata di oltre un’ora, nonchè ulteriori telefonate oggetto di separata contestazione in data 7 dicembre ed altre undici del 24.12.2001, tutte di svago.

Osservava la Corte territoriale che non era stato violato il divieto di utilizzazione di apparecchiature per il controllo a distanza dei lavoratori di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, atteso che non vi era stata lesione della dignità e riservatezza del P., in quanto questi svolgeva la propria prestazione lavorativa in postazione chiusa, che in tale postazione si trovava un’utenza telefonica dell’Ospedale, che erano stati acquisiti non dal datore, ma dall’azienda ospedaliera – soggetto estraneo al rapporto di lavoro – i tabulati per l’accertamento di telefonate abusive e che gli ultimi tre numeri delle telefonate ritenute abusive erano stati criptati. L’acquisizione dei tabulati era avvenuta per fornire chiarimenti all’azienda ospedaliera, la quale aveva avuto modo di rilevare il numero eccessivo delle chiamate.

Non poteva dubitarsi, secondo la Corte del merito, della prova dei fatti contestati, essendo le telefonate avvenute in uno spazio temporale in cui il turno di lavoro era quello del P..

Rilevava il disvalore della condotta, lesiva delle esigenze di efficace svolgimento dell’attività di vigilanza in ospedale pubblico ed osservava che, peraltro, neanche poteva trovare accoglimento la censura di tardività della contestazione disciplinare, in quanto effettuata in tempi compatibili con le esigenze di accertamento dei fatti e di lettura dei tabulati acquisiti Conclusivamente, il giudice del gravame evidenziava l’univocità, gravità e concordanza degli indizi di commissione del fatto da parte del P. e l’irrilevanza dell’asserita assenza di danno.

Per la cassazione della decisione ricorre il P., con cinque motivi di impugnazione, illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Si costituisce, con controricorso, la società.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, il P. denunzia violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, con riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 4, chiedendo se la violazione del menzionato articolo è configurabile quando viene utilizzato il risultato finale (tabulato) di un controllo elettronico eseguito sull’utenza telefonica.

Con il secondo, ascrive alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 115 c.p.c.) e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della stessa, osservando che il tabulato è stato utilizzato in maniera distorta, in danno del lavoratore, il quale è stato indotto ad ammettere l’addebito in sede sindacale per evitare il licenziamento. Esprime dubbi sulla attendibilità probatoria dei tabulati, in mancanza di procedimento penale e domanda se la violazione del principio di disponibilità delle prove (art. 115 c.p.c.) è ravvisabile nel caso di specie, in cui si attribuisce la responsabilità di un fatto in maniera indiretta, sul semplice presupposto di un documento, senza avere fornito alcuna prova sulla condotta illecita del lavoratore incolpato.

Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, rilevando l’insussistenza della immediatezza della contestazione rispetto al momento in cui il datore ha appreso della esistenza di tale attività. Con quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p. e, domanda se la violazione del principio dell’immediatezza della contestazione è ravvisabile nel caso di specie, in cui, dalla data della scoperta del fatto a quella della contestazione, sono trascorsi venti giorni.

Con il quarto motivo, il P. deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c.), nonchè omessa insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, con riguardo alla mancanza o esiguità del danno economico subito, asserendo che è viziata nella motivazione la sentenza del merito che, in assenza di un danno rilevante, applica la sanzione disciplinare più grave e sostenendo che la parte che intende avvalersene non ha fornito prova alcuna della gravità del fatto commesso.

Infine, con il quinto motivo, viene denunziata l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione con riguardo alla mancata applicazione di sanzioni omogenee per medesimo illecito contestato ad altri dipendenti.

Il ricorso è infondato. Quanto al primo motivo, si osserva che, ai fini dell’operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 4, è necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l’attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dell’ambito di applicazione della norma sopra citata i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (cosiddetti controlli difensivi), quali, ad esempio, come nella specie, gli apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate (cfr., in tali termini Cass. 3.4.2002 n. 4746; Cass. 28.1.2011 n. 2117 e, da ultimo, Cass 23.2.2012 n. 2712).

Il principio affermato nella sentenza impugnata è, dunque, conforme a quello affermato dalla richiamata giurisprudenza di legittimità, che ha ripetutamente ribadito che, in tema di controllo a distanza dei lavoratori, il divieto previsto dall’art. 4 dello statuto dei lavoratori di installazione di impianti audiovisivi o di altre apparecchiature per il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, riferendosi alle sole installazioni poste in essere dal datore di lavoro, non preclude a questo, al fine di dimostrare l’illecito posto in essere da propri dipendenti, di utilizzare le risultanze di registrazioni operate fuori dall’azienda o tabulati telefonici acquisiti da un soggetto terzo, del tutto estraneo all’impresa e ai lavoratori dipendenti della stessa, per esclusive finalità "difensive" del proprio ufficio, con la conseguenza che tali risultanze sono legittimamente utilizzabili nel processo dal datore di lavoro (cfr, in particolare, Cass. 2117/2011 cit.). Nel caso considerato il P. operava, invero, in una guardiola posta all’interno del presidio ospedaliere, cui erano addetti per la sorveglianza all’ingresso lavoratori della società intimata, che aveva in appalto la gestione del servizio di sorveglianza ed i tabulati erano stati acquisiti dall’Ospedale, che aveva rilevato un numero eccessivo di telefonate effettuate dall’ufficio ove operavano i lavoratori dell’impresa appaltatrice del servizio. Ricorrono, pertanto, i requisiti che consentono la utilizzabilità delle dette risultanze a fini processuali.

Destituita di giuridico fondamento è, poi, la seconda doglianza, atteso che il tabulato è stato utilizzato quale indizio di notevole rilevanza a carico del P., che liberamente ammettendo in sede sindacale – e non vi sono motivi per ritenere il contrario – di avere effettuato molte delle telefonate per le quali era stato rilevato il suo turno di presenza, ha contribuito a conferire certezza alla riferibilità soggettiva del comportamento contestato sulla base del materiale probatorio acquisito, onde deve ritenersi che sia stato fatto corretto uso delle risultanze documentali e degli ulteriori rilevanti indizi a suo carico, non potendo sostenersi che l’accertamento di responsabilità dovesse essere condotto preliminarmente in sede penale.

Al riguardo occorre considerare che il giudice del lavoro adito con impugnativa di licenziamento, anche nel caso in cui lo stesso sia comminato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è affatto obbligato a tener conto dell’accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale e che, in ogni caso, poi, la valutazione della gravità del comportamento del lavoratore, ai fini della verifica della legittimità del licenziamento per giusta causa, deve essere dal giudice operata alla stregua della "ratio" dell’art. 2119 cod. civ. e della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 1 e cioè tenendo conto dell’incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali. Alla luce dei principi appena affermati è stato sancito che non incorre in vizio di contraddittorietà la sentenza che affermi la legittimità del recesso nonostante l’assoluzione del lavoratore in sede penale per le medesime vicende addotte dal suo datore di lavoro a giustificazione dell’immediata risoluzione del rapporto (cfr, ex multis, Cass. 5 agosto 2000 n. 10315).

La dedotta violazione del principio di immediatezza della contestazione rispetto al momento in cui il datore ha appreso della esistenza dell’attività posta in essere da dipendente è insussistente anche sotto il profilo del vizio di motivazione invocato, attesa la necessità per il datore di lavoro di accertare, in un lasso di tempo che si presenti ragionevole, i fatti oggetto di contestazione ed essendo stato correttamente giudicato congruo il periodo di venti giorni indicato dal ricorrente, con decorrenza dalla data di scoperta di un fatto segnalato dalla struttura ospedaliera e suscettibile di autonoma verifica da parte della società che intratteneva il rapporto di lavoro con lo stesso. Al riguardo giova richiamare decente insegnamento giurisprudenziale alla cui stregua "nel licenziamento per giusta causa, il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti sia molto laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente" (cfr. Cass. 8 marzo 2010 n. 5546). Nella pronuncia da ultimo menzionata è stato evidenziato anche che la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato (v., per affinità al caso considerato, Cass. cit., nella quale il giudizio si è concluso con la conferma della sentenza impugnata, che, in riferimento al licenziamento di un dipendente di un’azienda telefonica determinato dall’uso scorretto del telefono cellulare di servizio, consistito nell’invio di decine di migliaia di "s.m.s.", aveva escluso l’intempestività della contestazione, intervenuta a pochi mesi di distanza dall’inizio delle necessarie verifiche, le quali avevano richiesto l’esame di complessi tabulati e prospetti, al fine di distinguere il traffico telefonico di servizio da quello illecito).

Sotto il profilo dedotto della mancanza di proporzionalità della sanzione rispetto all’eseguito del danno economico cagionato, va osservato che, nella ipotesi di licenziamento intimato per una mancanza del lavoratore che si concreti in una violazione non solo del dovere di diligenza, ex art. 2104 cod. civ., ma anche del dovere di fedeltà all’impresa, di cui all’art. 2105 cod. civ., la legittimità della sanzione deve essere valutata, ai fini della configurabilità della giusta causa di recesso ai sensi dell’art. 2119 cod. civ. o del giustificato motivo soggettivo di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3, tenendo conto della idoneità del comportamento a produrre un pregiudizio potenziale per se stesso valutabile nell’ambito della natura fiduciaria del rapporto, indipendentemente dal danno economico effettivo, la cui entità ha un rilievo secondario e accessorio nella valutazione complessiva delle circostanze di cui si sostanzia l’azione commessa (cfr, tra le altre, Cass. 16.9.2002 n. 13536, Cass. 4.12.2002 n. 17208, Cass. 27.9.2007 n. 20221, 8.1.2008 n. 144, Cass. 7.4.2010 n. 17514; Cass. 7.4.2011 n. 7948). In particolare, spetta al giudice del merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto della vicenda processuale, che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro (cfr. Cass. 17514/2010 cit.), e nella specie è stato conferito giusto risalto al tipo di attività svolta dall’addetto alla sorveglianza all’ingresso del presidio ospedaliero, che richiede particolare attenzione per evitare il rischio di intrusioni di soggetti non autorizzati, eventualmente pericolosi, in un ambiente quale quello ospedaliero, evidenziandosi anche il pregiudizio rispetto alla perdita di future commesse da parte della società che aveva in appalto il servizio.

Infine, a prescindere dalla novità della questione prospettata, deve disattendersi la ricorrenza del dedotto vizio della motivazione in relazione alla mancanza di sanzione omogenea per medesimo illecito posto in essere da altri dipendenti. Ed invero, è stato affermato in precedenti di questa Corte (cfr, in particolare Cass. 8 marzo 2010 n. 5546) che, ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore è tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è irrilevante che analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro, atteso che solo l’identità delle situazioni potrebbe privare il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa, non potendo porsi a carico del datore di lavoro l’onere di fornire, per ciascun licenziamento, la motivazione del provvedimento adottato, comparata a quelle assunte in fattispecie analoghe, peraltro, nel caso considerato, neanche specificate dalla parte interessata, come evidenziato dalla Corte territoriale.

Le esposte argomentazioni conducono al complessivo rigetto del ricorso, laddove le spese del presente giudizio cedono, nella misura determinata in dispositivo, a carico del ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 40,00, per esborsi, Euro 2.500,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 14 marzo 2012.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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