Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 17-05-2011) 20-10-2011, n. 37950

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza deliberata il 12 novembre 2010 il Tribunale di Taranto, costituito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., ha respinto la richiesta di riesame e confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 21 ottobre 2010 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale della medesima sede nei confronti di M.S., sottoposta ad indagini per i seguenti reati:

"a) art. 605 cod. pen., per avere privato S.S. della libertà personale, trascinandola con la forza all’interno della cantina-garage della sua abitazione e, poi, trattenendola ivi contro la sua volontà, cinturandola con le braccia, mentre il padre le cingeva una corda intorno al collo;

b) artt. 110 e 575 c.p., art. 576 c.p., comma 1, n. 1, perchè, in concorso con il padre, M.M.A., al fine di assicurare allo stesso l’impunità dal delitto di violenza sessuale da questi commesso ai danni di S.S., nonchè per motivi abietti e futili consistiti nell’evitare che l’episodio di violenza di cui innanzi pervenisse a conoscenza di terzi, cagionava la morte della cugina, atteso che, mentre compiva il sequestro sub a), il genitore, dopo aver messo a quest’ultima la corda intorno al collo, la stringeva fino a soffocarla".

Il fatto e il procedere delle indagini sono così ricostruiti nel provvedimento del Tribunale.

Il (OMISSIS), scomparve la minore S.S., di anni quindici. Sulla base della ricostruzione degli ultimi movimenti della giovane e delle dichiarazioni delle persone a lei vicine, si accertò che la scomparsa doveva essersi verificata tra le 14:28 e le 14:42 di quel (OMISSIS), poichè, alle 14:28, la S., come da acquisiti tabulati telefonici, aveva inviato col suo cellulare un messaggio alla cugina, M.S., come lei residente in (OMISSIS), con la quale aveva un appuntamento per recarsi al mare, comunicandole che stava per arrivare, mentre, alle successive 14:42, era stata la M., già in compagnia di Sp.Ma., che, nel frattempo, l’aveva raggiunta a casa con la propria automobile per andare insieme in spiaggia, a telefonare alla cugina, S., non ancora arrivata, senza ricevere alcuna risposta e, da quell’ora, i tabulati del cellulare della vittima non avevano più registrato alcun contatto.

Le prime indagini non trascurarono alcuna pista senza giungere a concreti risultati.

Il (OMISSIS) il padre di M.S., M. M.A., zio della S., per avere sposato la sorella, Se.Co., della madre della giovane, comunicò di aver rinvenuto un telefono cellulare nel fondo dove lavorava come agricoltore, che risultò essere quello appartenente alla S..

Successivamente, il 6 ottobre 2010, all’esito di un’ulteriore audizione da parte degli inquirenti, il M. li accompagnò nel luogo isolato di campagna, in località (OMISSIS), dove in un vecchio pozzo aveva calato il cadavere della giovane nipote, che fu effettivamente ritrovato in avanzato stato di decomposizione, essendo già trascorsi quaranta giorni dalla scomparsa.

Interrogato immediatamente dal Pubblico Ministero con le garanzie difensive, e, quindi, dal Giudice per le indagini preliminari in sede di convalida del decreto di fermo, in data 7 e 8 ottobre 2010, il M. diede una prima versione del fatto, dichiarando di essere stato l’unico autore dell’omicidio della S., da lui attirata nel garage dell’abitazione familiare, dopo che la giovane aveva raggiunto la sua casa per recarsi al mare con la figlia, M. S., e l’amica Ma. che avrebbe prelevato entrambe con la sua autovettura. Nel garage, preso da un raptus sessuale per avere visto la giovinetta in abbigliamento balneare, aveva osato un approccio fisico con la stessa, toccandole il pube, e, alla pronta reazione negativa della vittima, la quale, sdegnata, si era allontanata per uscire, aveva reagito afferrandola alle spalle e stringendole una corda al collo fino a strangolarla.

Immediatamente dopo l’uccisione di S., il M. era stato chiamato dalla figlia M.S., la quale, dall’esterno, senza entrare nel garage, gli aveva urlato di dire alla cugina, se l’avesse vista arrivare, di attenderla davanti casa mentre lei, allarmata dal ritardo, si sarebbe recata, in compagnia della sopraggiunta Sp., presso l’abitazione di S. per avere sue notizie.

Convalidato il fermo del M. ed emessa a sua carico la misura della custodia cautelare in carcere per i delitti di omicidio volontario ( art. 575 cod. pen.), violenza sessuale ( art. 609-bis cod. pen.), vilipendio ed occultamento di cadavere ( artt. 410 e 412 cod. pen.), avendo l’indagato confessato di avere molestato la nipote anche alcuni giorni prima dell’omicidio, toccandole il sedere, e di aver compiuto atti sessuali sul cadavere della S. nella campagna dove l’aveva trasportata con la sua autovettura prima di nasconderne il corpo nel pozzo, le indagini proseguirono per chiarire le ragioni dell’ingresso della S. nel garage, sebbene ella fosse attesa con urgenza dalla cugina, M.S., per andare al mare, alla quale aveva appena comunicato con un messaggio telefonico il suo immediato arrivo, e nonostante le precedenti molestie (respinte) da parte dello zio.

Nel corso di un successivo sopralluogo nel garage dell’abitazione per ricostruire le modalità dell’omicidio, in data 15 ottobre 2010, il M. modificò la sua precedente versione, dichiarando che era stata la figlia, M.S., a portare la giovane cugina nel garage, dove l’aveva trattenuta con violenza per le braccia mentre il padre le stringeva al collo una cintura fino a soffocarla.

L’indagato indicò le ragioni dell’omicidio nella forte preoccupazione propria e della figlia per le rivelazioni della giovane S. sul comportamento sessualmente molesto dello zio nei suoi confronti.

Sulla base di questa seconda versione, ritenuta più attendibile della prima, fu dunque emessa ordinanza di custodia cautelare in carcere anche a carico di M.S. con provvedimento del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto in data 21 ottobre 2010, confermato dall’ordinanza del Tribunale del riesame del 12 novembre 2010, qui impugnata.

Seguì una terza versione, resa di sua iniziativa dal M. all’Autorità giudiziaria, dopo un lungo colloquio con il difensore e con la consulente psicologa, in data 5 novembre 2010, secondo cui l’omicidio della giovane S. era stato commesso esclusivamente da M.S., nel corso di un litigio determinato sia dalla diffusione di voci circa le molestie sessuali che la S. aveva subito dallo zio M. con denaro da questi donatole per ottenerne il silenzio, sia dalla gelosia nutrita dalla M. nei riguardi dell’ormai cresciuta cugina, più giovane di M. S. di sette anni, la quale era attratta e riceveva crescenti attenzioni da parte di un giovane compaesano, R.I., di cui la M. era molto innamorata senza esserne corrisposta.

Nell’ordinanza, qui impugnata, il Tribunale ha ritenuto proprio quest’ultima versione come quella più attendibile, donde l’esclusione, nella definizione giuridica del fatto, dell’ipotizzato delitto di sequestro di persona, compreso invece nell’imputazione cautelare oggetto dell’ordinanza sottoposta a riesame, la quale è, invece, ancorata alla seconda versione, cosiddetta intermedia, resa dal M..

Nella valutazione di attendibilità e consistenza intrinseca delle dichiarazioni auto ed etero accusatorie del M., il quale ha comunque confermato di avere da solo occultato il cadavere della S. e profanato la salma della giovane con un rapporto sessuale, il Tribunale ha sostenuto la necessità di una valutazione unitaria delle tre versioni del tragico fatto: quella del 6-7 ottobre, del 15 ottobre e del 5 novembre del 2010. Esse dovrebbero essere lette, secondo il decidente, come un unico racconto da cui emergerebbero due chiare esigenze del M. tra loro configgenti: da un lato, lo sforzo di tenere indenne la giovane figlia dalle conseguenze di un fatto gravissimo idoneo a comprometterle tutta la vita; dall’altro lato, l’ansia di liberare la propria coscienza da un peso insopportabile cercando, dapprima, di lasciarsi scoprire simulando il casuale ritrovamento del cellulare della vittima proprio nel fondo da lui coltivato, e, quindi, ammettendo esplicitamente la sua partecipazione al fatto fino al completo progressivo disvelamento della complessa vicenda in un crescendo liberatorio non più compromesso da parziali verità.

La positiva valutazione di intrinseca attendibilità, soggettiva e oggettiva, dell’ultima versione del M. si accompagna, nell’ordinanza del Tribunale, alla diffusa elencazione dei riscontri estrinseci oggettivi e soggettivi di essa.

I riscontri oggettivi sono ravvisati, tra gli altri, negli esiti della consulenza autoptica confermanti la morte per strangolamento e nel reperimento, su indicazione del chiamante, degli oggetti appartenuti alla S., tra cui il telefono cellulare della stessa privo della sim andata perduta e della batteria, e le chiavi di casa della vittima (nascoste nell’incavo di un ulivo, indicato agli inquirenti dal M., e riconosciute come quelle della figlia da parte della madre, Se.Sp.Co.); e l’individuazione, altresì, degli oggetti utilizzati per commettere il delitto ovvero la cintura da uomo con fibbia impiegata per lo strangolamento (rinvenuta nel bagagliaio dell’autovettura Seat Marbella, nella disponibilità del M., utilizzata per il trasporto del cadavere) e la corda adoperata per calare nel pozzo la salma della giovinetta (ritrovata nel bagagliaio dell’Opel Astra nella disponibilità della moglie del M., Se.Co.).

I riscontri individualizzanti sono indicati, tra gli altri, nelle discrasie tra la rievocazione di M.S. e quella di Sp.Ma. circa la posizione, i movimenti e le dichiarazioni della prima nell’immediatezza del fatto (trovata dalla Sp. sulla soglia di casa e non all’interno di essa, e in uno stato di forte agitazione, con l’immediata asserzione di M. S., nel commentare con l’amica il mancato reperimento della cugina, che la stessa era stata presa); nell’alibi falso che la M. si sarebbe costruito telefonando immediatamente alla S., in ritardo sull’appuntamento, alle ore 14:42 di quel pomeriggio (ultima telefonata, questa, ad essere raccolta dal cellulare della giovane, già uccisa e ancora distesa nell’adiacente garage dove era stata coperta con alcuni cartoni da M. padre per nasconderla alla vista, il quale, dopo la detta telefonata, provvide a rendere inutilizzabile il cellulare privandolo della batteria e lasciando cadere la carta sim); soprattutto nel movente che avrebbe spinto la giovane M. all’omicidio d’impeto della propria cugina per la gelosia nutrita nei confronti della S. a causa delle attenzioni riservatele dal giovane R., verso il quale la M. nutriva una forte passione, e per l’ostilità nei confronti della vittima provocata dal fatto che S. aveva rivelato ad altri le confidenze ricevute da M.S. circa un suo approccio amoroso col R. non andato a buon fine, ciò che era giunto a conoscenza del giovane che se ne era rammaricato con la M., manifestandole l’intenzione di mantenere con lei un rapporto di mera amicizia; nella conferma che siffatta animosità di M.S. nei confronti di S. aveva trovato nelle dichiarazioni di P.A., cliente di M.S., esercente a domicilio l’attività di estetista, presso la quale la P. si era recata proprio nel mattino del (OMISSIS), trovando la S. in casa M. e restando colpita, nell’occasione, dall’insolita espressione molto triste e taciturna della giovinetta e dalla palpabile tensione tra le due cugine.

Altro riscontro ritenuto di rilevantissima importanza dal Tribunale, perchè dotato di consistenza probatoria autonoma, è ravvisato nella confessione extra giudiziale che la stessa M.S. avrebbe fatto alla P., nella sera del (OMISSIS), allorchè, su indicazione di M.M., fu ritrovato il cadavere della S. in contemporanea al programma televisivo " (OMISSIS)", trasmesso, quella sera, propria da casa M., dove si trovavano i componenti della famiglia (tranne M.M.) insieme alla madre della vittima. In quel drammatico frangente la P. si spostò nell’abitazione della figlia, ubicata proprio di fronte a casa M., e, avendo percepito che M.S. si era allontanata dalla stanza dove era registrata la trasmissione ed era uscita, le andò incontro. Vide M.S. seduta nel cortile della propria casa e la sentì, in lacrime, proferire ripetutamente le seguenti parole: "L’hanno incastrato, l’hanno incastrato, mio padre ha confessato…". A quel punto la P. cercò di consolare la M. e le chiese la ragione di quelle parole, ricevendo la seguente risposta dalla giovane, sempre profondamente turbata e piangente: "Dopo tante ore che mi hanno messo sotto torchio avrei detto anch’io che ho ucciso S. e dove l’ho messa ma non l’ho detto". Allo stupore della P. che le chiese come potesse dire una cosa del genere senza averla fatta, la M. ribadì: " A., dopo tante ore dici la verità e basta… viene quella cosa di dire la verità, di finire là, così finisce tutto, ma io non l’ho fatto…", aggiungendo: "perchè non sono stupida".

Le suddette parole di M.S. non avrebbero senso, secondo il Tribunale, senza riconoscere la sua partecipazione al delitto, che emergerebbe anche dalle dichiarazioni rese da R.I., al quale la giovane, dopo la confessione del proprio padre, confidò che quest’ultimo non aveva detto la verità agli inquirenti, accusandosi di molestie sessuali nei confronti della giovane S. prima del delitto e di violenza consumata sul cadavere, ma aveva deliberatamente esagerato il proprio ruolo nella vicenda per renderlo più credibile, così ammettendo nel segreto della confidenza fatta al giovane, di cui era innamorata, la falsità del movente sessuale dell’omicidio.

Riguardo alle esigenze cautelari, esse sono ravvisate dal Tribunale del riesame nel concreto pericolo di fuga della giovane M., non attenuato dall’incontrollato clamore mediatico suscitato dalla vicenda; nel pericolo di inquinamento probatorio agevolmente desumibile dall’attività, complessa e poliedrica, di depistaggio già abilmente e scaltramente posta in essere dall’indagata fin dai primi minuti susseguenti al delitto con l’invio di messaggi telefonici per simulare una situazione di apparente normalità e con le pressioni esercitate sulla P. perchè non rivelasse agli inquirenti l’umore depresso della S. nel giorno del fatto; dal pur ritenuto pericolo che l’indagata possa commettere delitti della stessa specie di quello per cui si procede, considerate le specifiche modalità del fatto e la sua personalità, aggressiva e compulsiva, costituendo la condotta tenuta in occasione del reato un elemento specifico assai significativo di valutazione della concretezza – da tenere distinta dalla non richiesta attualità- del pericolo di reiterazione criminosa.

Il concorso di tutte le esigenze cautelari previste dall’art. 274 cod. proc. pen. e la presunzione legislativa di pericolosità derivante dal titolo di reato (omicidio volontario), per cui sussistono i gravi indizi di colpevolezza, renderebbero, inoltre, adeguata la più rigorosa misura della custodia in carcere.

2. Avverso la predetta ordinanza M.S. ha proposto ricorso per cassazione tramite i suoi difensori, avvocato Franco Coppi del foro di Roma ed Emilia Velletri del foro di Taranto, deducendo due motivi.

2.1. Con il primo è denunciata la violazione dell’art. 273 cod. proc. pen. per insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, assumendo la ricorrente che, nella valutazione della sua posizione, sarebbero stati violati tutti i principi fissati da questa Corte in tema di apprezzamento degli indizi idonei a giustificare l’adozione della misura cautelare della custodia in carcere.

In particolare, la chiamata in correità (prima) e in reità (dopo) della M., da parte di suo padre, non corrisponderebbe ai necessari canoni di coerenza, disinteresse, mancanza di contraddizioni e razionalità di sviluppo.

La stessa successione delle dichiarazioni del chiamante, passato dalla confessione di essere stato l’esclusivo autore dell’omicidio all’indicazione della figlia come sua concorrente nell’esecuzione del delitto per avere trascinato la S. nella cantina-garage e averla mantenuta per le braccia mentre il padre la strangolava, fino all’attribuzione alla sola M.S. dell’omicidio riservando a se stesso soltanto le successive azioni di vilipendio ed occultamento del cadavere, dimostrerebbe, con evidenza, il carattere non disinteressato delle dichiarazioni del M., palesemente orientato a ridimensionare le sue responsabilità a scapito di quelle, sempre maggiori, attribuite alla figlia.

Le dichiarazioni del chiamante sarebbero, inoltre, manifestamente incoerenti e contraddittorie tra loro, offrendo ciascuna una versione dei fatti in aperto contrasto con quella precedente, secondo un crescendo non di autenticità liberatoria nel travaglio di un uomo diviso tra l’affetto genitoriale e l’ubbidienza alla propria coscienza, come ritenuto dal Tribunale, bensì di progressiva copertura della sua responsabilità e di correlativo aggravio della posizione della giovane figlia.

Nessuna linea di razionalità sarebbe, infine, ravvisabile nella successione delle contraddirtene versioni, rispondenti all’obiettivo di M.M. di ottenere una sostanziale riduzione della propria esposizione punitiva, con un punto d’approdo addirittura opposto a quello di partenza.

Nel ricorso sono, quindi, analiticamente denunciate le discrasie rilevabili nei vari passaggi dichiarativi ed è sottolineata l’introduzione, durante l’interrogatorio del 5 novembre 2010, di un nuovo argomento da parte del M., costituito dall’assunzione di psicofarmaci, in carcere, i quali, secondo le ammissioni dello stesso dichiarante, avevano determinato in lui uno stato confusionale tale da non fargli ricordare neppure dove fosse.

La consulente tecnica nominata dal difensore di M.S., d.ssa G.C., senza conoscere le predette dichiarazioni dell’Indagato, sulla base della sola lettura del suo diario clinico, aveva attribuito agli psicofarmaci, ivi indicati come assunti, effetti analoghi a quelli descritti dal diretto interessato, donde un’ulteriore ragione di inattendibilità delle sue più recenti propalazioni.

Nel ricorso sono, inoltre, valorizzate le confidenze del M. alla figlia primogenita, V., nel corso di un colloquio in carcere del 25 ottobre 2010, nel quale le aveva rivelato di "aver fatto tutto da solo" e di aver coinvolto M.S. sotto l’effetto degli psicofarmaci e delle pressanti domande a lui rivolte dagli inquirenti, e viene censurata la valutazione del giudice del riesame di non genuinità delle dichiarazioni rese, al riguardo, da M.V. ex art. 391-bis cod. proc. pen..

La ricorrente sottolinea, infine, pur riconoscendo che trattasi di sopravvenienza sottratta al giudizio di questa Corte perchè successiva all’udienza davanti al Tribunale prodromica al provvedimento qui impugnato, l’ennesima versione dei fatti offerta da M.M. in sede di incidente probatorio, espletato il 19 novembre 2010, ulteriormente difforme rispetto a quelle precedenti ed esonerante la figlia da ogni responsabilità per l’uccisione della cugina.

In sintesi, il radicale difetto dei requisiti di coerenza, costanza, precisione, disinteresse e spontaneità nelle versioni del M. rende errato, secondo la ricorrente, il richiamo del Tribunale ad una precedente massima di questa Corte (Sez. 6, sentenza n. 324 del 1 febbraio 1994), rimasta peraltro isolata, secondo cui va riconosciuta la possibilità che la chiamata di correo si attui in progressione e si ispessisca nel tempo, specialmente quando i nuovi dati forniti dal chiamante non risultino in netta contraddizione con quelli in precedenza offerti, ma ne costituiscano un completamento e un’integrazione, ciò che nella fattispecie va escluso in radice per tutte le anzidette ragioni.

2.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 274 cod. proc. pen., per insussistenza delle esigenze cautelari.

Difetterebbe il pericolo di fuga, escluso proprio dall’incontrollato clamore mediatico suscitato dalla vicenda, con il conseguente prevedibile controllo sociale dell’indagata della quale sarebbero registrati, come già accade per la madre, Se.Co., tutti i movimenti. La sua notorietà, inoltre, superando addirittura i confini nazionali, le impedirebbe di allontanarsi da casa senza essere immediatamente riconosciuta.

Dovrebbe escludersi, poi, il concreto pericolo di reiterazione del reato, già negato dal Giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza genetica e ritenuto, invece, sussistente dal Tribunale del riesame per la natura del tragico episodio delittuoso, per la personalità aggressiva concretamente rivelata dalla M. e per la compulsività del suo agire (…), che inducono a ritenere – così testualmente l’ordinanza impugnata – il suo comportamento delittuoso non occasionale".

Al contrario, proprio il movente del delitto, ravvisato dal giudice della misura cautelare nel timore della M. che la cugina rivelasse le attenzioni morbose e il denaro ricevuto dallo zio e nella gelosia in lei suscitata dall’interesse che R.I. provava per la giovanissima S., depone per la configurazione del fatto come delitto ad personam, condizionato dallo specifico e non ripetibile contesto in cui fu commesso.

Parimenti insussistente sarebbe il pericolo di inquinamento delle prove desunto, tra l’altro, dall’interpretazione in malam partem, come diretti a precostituirsi un alibi, degli atti compiuti dalla M. nell’immediatezza del delitto, come l’invio di un s.m.s., alle ore 14:35:37, all’amica C.A..

Siffatta negativa interpretazione sarebbe il frutto dell’acritico recepimento dell’ultima versione del fatto resa dal M. il 5 novembre 2010, peraltro già contraddetta dalle sue più recenti dichiarazioni, e disconoscerebbe l’immediato e più logico significato di quegli atti sintomatici, piuttosto, della serena estraneità dell’indagata al delitto.

Si sottolinea, inoltre, benchè non strettamente attinente all’esigenza cautelare probatoria, l’inattendibilità delle dichiarazioni di P.A. in merito al pessimo umore della S. al mattino del (OMISSIS), in contrasto con le dichiarazioni rese da altri informatori e con quelle acquisite in sede di investigazioni difensive, e contraddette altresì dagli assidui contatti tra le due cugine nel medesimo giorno.

In ogni caso, il pericolo di inquinamento probatorio sarebbe incompatibile con un processo come quello in esame, di molto elevata risonanza mediatica, dove ogni movimento, atto e parola dei protagonisti della triste vicenda sono sottoposti ad un pressante controllo esterno.

Nessuna forza intimidatrice, infine, funzionale all’alterazione del quadro probatorio, potrebbe attribuirsi alla giovane M., incensurata e non legata ad associazioni criminose, donde la mancanza di concretezza della specifica esigenza cautelare in esame.

I difensori insistono, pertanto, nella richiesta di annullamento dell’ordinanza impugnata unitamente al provvedimento cautelare da essa confermato.

Motivi della decisione

3. Il ricorso è inammissibile, poichè l’ordinanza impugnata è sorretta da una motivazione adeguata e coerente, immune da vizi logici e giuridici, sia con riguardo ai ritenuti gravi indizi di colpevolezza a carico della M.; sia con riguardo alle esigenze cautelari e, specialmente, a quelle consistenti nel pericolo di inquinamento probatorio in un procedimento caratterizzato dalla stratificazione di plurime e contrastanti versioni.

Il Tribunale del riesame supera, in particolare, con argomentazioni non manifestamente illogiche nè contraddittorie, la principale obiezione difensiva relativa alla mancanza di disinteresse, oltre che di coerenza e precisione, nelle tre diverse ricostruzioni della drammatica vicenda da parte di M.M..

Il conflitto di lealtà vissuto da un padre, diviso tra l’esigenza di proteggere la figlia, presunta omicida, e l’urgenza di sollevare la propria coscienza dal peso di un fatto gravissimo cui, comunque, ha preso parte, è una plausibile, anche se non l’unica spiegazione possibile, delle innegabili contraddizioni che costellano il narrato del M., tale da non precludere l’esame dei riscontri estrinseci delle accuse dallo stesso rivolte alla figlia, ravvisati dal Tribunale, con motivazione diffusa e coerente, sia sul piano generico che su quello specifico, nella ricca serie di elementi sopra analiticamente riportati, e qui non ripetuti, tra cui risalta la confessione extragiudiziale, cui è correttamente attribuita una consistenza probatoria autonoma, che M.S., nell’immediatezza del rinvenimento del cadavere della cugina, dopo quarantuno giorni dalla sua scomparsa, avrebbe reso all’amica e vicina di casa, P.A., nei termini pur sopra diffusamente riportati.

Non può, peraltro, tacersi, come riferito dai difensori nell’odierna udienza camerale in cui si è discusso anche di altro ricorso proposto dalla stessa M.S. contro più recente ordinanza del Tribunale in data 18 gennaio 2011, ex art. 310 cod. proc. pen., di rigetto dell’appello proposto dall’indagata avverso l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari di reiezione della sua domanda di revoca della misura della custodia cautelare in carcere, che M.M., il 19 novembre 2010, in sede di incidente probatorio, tenutosi dopo l’udienza all’esito della quale è stata emessa l’ordinanza del 12 novembre 2010, qui impugnata, ha reso un’ulteriore diversa versione, che escluderebbe la partecipazione della figlia al delitto.

Alla declaratoria di inammissibilità del presente ricorso, che si inserisce nella fase iniziale del complesso procedimento, si ritiene, dunque, opportuno non far seguire, oltre alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, anche quella al pagamento di una sanzione pecunia ria a favore della cassa delle ammende, in attesa di una più chiara definizione del materiale investigativo e del quadro indiziario da esso delineato.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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