Cass. pen. Sez. feriale, Sent., (ud. 11-08-2011) 21-10-2011, n. 38132

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso – I ricorsi qui in esame sono proposti nell’ambito di un ampio procedimento aperto a carico di alcuni infermieri, di un medico e del primario dell’SPDC di Lamezia Terme perchè accusati (i primi) di vari episodi di abusi sessuali, violenza privata, molestie e maltrattamenti, nei confronti di numerose pazienti ricoverate nel reparto psichiatrico dell’ospedale e (l’ultimo) di concorso ex art. 40 c.p., comma 2, negli episodi contestati ai primi, nonchè di falso in atto pubblico per avere contraffatto la cartella clinica.

Ai soli fini della comprensione dei motivi di ricorso che verranno qui di seguito riassunti, deve dirsi, sinteticamente, che l’indagine ha preso le mosse dalle dichiarazioni che una paziente, C. M., aveva rilasciato ad alcuni medici circa abusi sessuali e molestie da lei subite ad opera di tale "(OMISSIS) l’infermiere" (poi identificato nel ricorrente C.). Dalle indagini che ne sono scaturite ad opera delle Forze dell’Ordine (mediante intercettazioni ambientali ed esame di altre persone informate sui fatti), sono emersi numerosi episodi analoghi, sono state individuate quasi venti persone offese e sono stati formulati 40 capi di imputazione che hanno visto come imputato principale il C. nonchè altri suoi colleghi infermieri ( D.V., T. e R.), un medico ( D.M.), ed il primario ( M.M.A.).

Per completezza, va soggiunto che, originariamente, era stata imputata anche altra infermiera ( T.M.) accusata di favoreggiamento personale.

All’esito del giudizio di primo grado, tutti gli imputati sono stati giudicati colpevoli dei reati loro rispettivamente ascritti (venendo espunte solo alcune imputazioni perchè ne era sopraggiunta la prescrizione).

A seguito di appello, la Corte di secondo grado, con la decisione qui impugnata, ha confermato tutte le condanne ad eccezione di quelle a carico della T. (nei cui confronti è stata dichiarata la non punibilità ex art. 376 c.p., comma 1) e della M. (assolta, dal concorso negli abusi sessuali, per non aver commesso il fatto, e, dal falso, perchè il fatto non sussiste).

Avverso tale decisione, hanno proposto ricorso sia il P.G. (per la decisione assolutoria nei confronti di M.M.A.) sia gli imputati C., M., T., D.V. e R. deducendo quanto segue:

P.G. Violazione di legge (per erronea applicazione dell’art. 40 c.p.) e vizio di motivazione (mancante e comunque contraddittoria).

Le ragioni del ricorrente prendono le mosse dal riepilogo dei passaggi principali sui quali si fonda l’assoluzione della Corte riassumibili nei concetti che la M. non sapeva e, comunque, anche se si fosse attivata, non avrebbe impedito la consumazione degli ulteriori reati.

Controdeduce il ricorrente che l’assunto è smentito dai dati processuali dai quali risulta che, quantomeno le pp.oo. L., S., Ta., P. e T. avevano protestato direttamente proprio con la M. il cui atteggiamento "cauto" di fronte a tali propalazioni è implicitamente confermato dalla stessa difesa dell’imputata quando parla del "contegno prudente" della propria assistita che però, ribatte il ricorrente, si è concretizzata in vera a propria inerzia colpevole visto che l’atteggiamento dilatorio si è protratto, da parte del primario, sino a quando il suo agire è stato ineluttabilmente – scavalcata – imposto dall’iniziativa di altri sanitari che hanno formalizzato per iscritto quanto appreso dalla paziente C. indirizzando la nota non solo al primario ma anche ai superiori.

La linea "prudente" della M., del resto, si era spinta al punto da non credere nemmeno alla denuncia della C. (le cui dichiarazioni sono state ritenute inattendibili dalla difesa della M.) pertanto il suo attivarsi successivamente alla denuncia della C. è solo il risultato di una situazione – come detto – ineluttabile.

In ogni caso, il fatto stesso di avere la difesa della M. sostenuto di avere considerato inattendibili le denuncie – tanto da non interessarne le autorità competenti -costituisce implicita ammissione di conoscenza delle denunzie stesse.

E’, pertanto errato quello che dice la Corte a proposito della non conoscenza dei fatti da parte dell’imputata come pure vi è contraddizione nel fatto che i giudici, abbiano al tempo stesso – con riferimento alle posizioni degli altri imputati – annesso piena attendibilità alle parole delle vittime.

Non è nemmeno corretta l’affermazione della Corte secondo cui, quand’anche si fosse attivata, la M. non avrebbe potuto impedire il verificarsi di fatti subdolamente posti in essere anche dopo le prime iniziative dell’A.G. perchè la riprova del contrario si ha proprio nei risultati conseguiti quando, finalmente la M. ha esercitato le proprie funzioni, denunciando, chiedendo chiarimenti formali e scritti, invitando le parti a denunciare.

Il ricorrente stigmatizza il fatto che la Corte nulla abbia detto a riguardo e, soprattutto, abbia trascurato il fatto che il contributo causale dato con la propria inerzia dalla M. al verificarsi degli abusi seriali si coglie proprio nelle parole del C. quando afferma che, nel corso della sua carriera, nessuno gli aveva mai mosso addebiti di alcun tipo e che se invece fosse stato messo in allarme da qualche rilievo avrebbe potuto correggere alcuni comportamenti.

Il ricorrente richiama, quindi giurisprudenza di questa S.C. in tema di concorso omissivo nel reato commissivo altrui riepilogando come gli elementi a sostegno siano rappresentati da: a) conoscenza e conoscibilità dell’evento; b) conoscenza o riconoscibilità dell’azione doverosa incombente sul garante; c) possibilità oggettiva di impedire l’evento.

Nel caso in esame tali elementi, detto in estrema sintesi, devono ritenersi tutti riscontrabili posto che la stessa sentenza di primo grado da conto di tutti gli elementi in base ai quali si può affermare che la M. fosse a conoscenza di quanto accadeva all’interno dell’istituto.

E’ indubbio che ella fosse a conoscenza dei propri doveri perchè, dopo la denuncia degli altri sanitari riadoperò fattivamente.

Conseguentemente non sussiste nemmeno alcun dubbio, come ipotizzato dalla Corte, circa l’elemento psichico che è stato quantomeno di "tolleranza". Il che nulla cambia sul piano della partecipazione consapevole al reato perchè, in questo tipo di ipotesi criminosa, il grado di consapevolezza non deve coincidere con lo stato d’animo di volere i fatti bensì nella coscienza che il proprio mancato intervento contribuisce al protrarsi del fatto commissivo illecito altrui, accettandone quantomeno il rischio di verificazione nelle forme del dolo eventuale (sez. v, n 7208/06).

C.;

1) mancanza di motivazione nella parte in cui la Corte ha affermato l’idoneità a testimoniare delle pp.oo.. Tanto essa era discutibile che il G.u.p. ha accolto la condizione (di espletamento di perizia) cui il C. aveva subordinato la richiesta di rito abbreviato. Le conclusioni di quest’ultima, però, sono state fatte proprie dal G.u.p. con uno iato logico consistito nel fatto di affermare che i consulenti della difesa dell’imputato avrebbero preteso di dedurre, dai sintomi, la esistenza della patologia.

Ciò non è esatto perchè, in realtà, il G.u.p. non aveva considerato che i periti non avevano tenuto conto dell’intreccio simbolico tra le manifestazioni isterico-dissociative, i disturbi mentali di matrice psicotica e le tematiche sessuali dell’escussione testimoniale, intreccio che aveva ridotto in modo elevato la idoneità a testimoniare delle dichiaranti.

A fronte delle specifiche doglianze sul punto, la Corte ha confermato con un rinvio integrale per relationem ed errando nell’affermare che l’appellante aveva riproposto le medesime critiche svolte in primo grado;

2) mancanza e contraddittorietà della motivazione con riferimento al capo 13. Anche in questo caso si nega sia vero quanto sostiene la Corte – che, cioè, le censure dell’appellante reiteravano le questioni già proposte dinanzi al giudice di primo grado perchè, al contrario, si erano fatte precise critiche al fatto che le deposizioni della p.o. C. confrontate tra di loro, risultavano diverse e contrastanti tra di loro. La Corte, a riguardo, aveva parlato di deposizione in evoluzione mentre, al contrario secondo il ricorrente si registrano vere e proprie difformità. Nessuna delle critiche mosse dall’appellante risulta essere stata esaminata dalla Corte, e ciò vale anche con riferimento alla valutazione delle dichiarazioni della T. sulle quali la Corte si contraddice nel momento in cui le riconosce la causa di non punibilità, pur avendo ella nell’interrogatorio del 23.1.08, confermato – come detto inizialmente – che la C. le aveva confidato di avere fatto affermazioni non vere;

3) mancanza della motivazione per omesso esame dei motivi di appello con riferimento ai capi 14), 15 e 16). Si tratta delle imputazioni che vedono come p.o. R.R.A. al cui riguardo si era censurato, nell’appello, che la donna aveva fornito, del dott. M., versioni contrastanti tra di loro: prima, personaggio molto positivo, poi, molto negativo. Inoltre, la stessa madre della p.o. l’aveva smentita negando che la figlia le avesse mai raccontato qualcosa delle violenze patite. Le spiegazioni sul punto del G.u.p. erano state recepite passivamente dalla Corte senza confrontarle con le obiezioni difensive;

4) violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al capo 8) (p.o. L.R.). In questo caso è stata contestata la violenza sessuale mediante induzione ma si è trascurato di considerare che era stata la L. a prendere l’iniziativa perchè voleva in cambio la somministrazione di farmaci quali il Tavor ed il Valium: di qui, l’inesistente "induzione" della p.o. ma, semmai, l’esatto contrario;

5) violazione di legge perchè la somministrazione del Valium e del Tavor non dava luogo alla ipotesi di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, artt. 73 ed 70, in quanto, in base alla normativa all’epoca vigente (gennaio 2005), tali medicinali rientravano nella tabella 5^ del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 14, ed erano, quindi, prive di rilevanza penale;

6) mancanza di motivazione con riguardo ai capi 8) e 9) posto che, per essi, l’appello aveva già evidenziato la strumentalità della denuncia della L. che, non a caso, con l’accusare il C. aveva ottenuto l’obiettivo dell’immediata dimissione dal reparto (visto che la degenza era per lei un ostacolo all’assunzione di stupefacente). Le obiezioni difensive, disattese dal giudice di primo grado, erano state ignorate anche dalla Corte che, anzi, aveva sostenuto una inesistente ammissione di responsabilità del C. asseritamene riportata dalla dott.ssa G. che, al contrario, nel riferire quanto appreso dalla L. aveva detto: "lui ha negato";

7) mancanza di motivazione con riferimento ai capi 5) e 6). Già nell’atto di appello era stata contestata la attendibilità della p.o. Y.S. che era stata smentita clamorosamente dai fatti quando aveva raccontato di avere subito violenza da un altro malato del reparto e che il personale medico l’aveva irrisa. In realtà, il fatto era realmente accaduto ma nei confronti di altra malata e, per esso, il personale sanitario aveva richiesto l’intervento della polizia. Si domanda, quindi, il ricorrente come sia possibile che la donna sia stata creduta quando ha riferito di asserite violenze da parte del C.. Anche in questo caso, si denuncia mancanza di motivazione da parte della Corte;

8) mancanza di motivazione con riferimento ai capi 11) e 12) (fatti in danno di P.M. ed I.F.). Si richiama l’attenzione sul fatto che gli stessi genitori della I. non avessero creduto ai racconti della P. relativi alla propria figlia sul presupposto che, dormendo essi tutte le notti con la ragazza, la vegliavano. Il G.u.p. aveva ritenuto la circostanza superabile ed altrettanto avevano fatto i giudici di appello senza tener conto delle obiezioni difensive;

9) mancanza di motivazione con riferimento al capo 7). Si ricorda, in particolare, che la p.o. M. aveva sostenuto che i fatti a suo danno si sarebbero verificati di notte ma era stato accertato che, quella sera, il C. aveva finito il proprio turno nel pomeriggio. Il G.u.p. aveva ritenuto, perciò, verosimile che l’imputato avesse protratto la propria permanenza oltre la fine del turno ed, anche in questo caso, la Corte si era limitata a ribadire la decisione;

10) mancanza di motivazione con riferimento al capo 3). Il ricorrente si chiede come abbiano potuto, prima, il G.u.p. e, poi, la Corte credere alla p.o. anche in relazione al suo asserito tentativo di suicidio che sarebbe avvenuto lanciandosi nel vuoto quando, a seguito di tale episodio, non si è registrato alcun danno;

11) mancanza di motivazione con riferimento al capo 19). Anche in questo caso, la Corte ha confermato la condanna del ricorrente senza prendere in considerazione i risultati dell’appello in cui si era richiamata l’attenzione sul fatto che la documentazione medica, con riguardo a T.E., aveva evidenziato una psicosi cronica, patologia incidente sulla capacità a testimoniare;

– 12) mancanza di motivazione con riferimento al capo 17). Del tutto generiche, infatti, sarebbero, a riguardo le ragioni in base alle quali i giudici di secondo grado hanno confermato la condanna dell’imputato per molestie in danno di C.T.;

13) mancanza di motivazione con riferimento al capo 18). Nuovamente il ricorrente si duole della genericità degli assunti della sentenza impugnata relativamente alle molestie in danno di D.L.;

14) mancanza di motivazione con riferimento al capo 20) nel quale si contesta all’imputato il delitto di cui all’art. 314 c.p. per essere stato trovato in possesso di medicinali. In realtà, come era già stato obiettato, anche gli ospedalieri avevano la possibilità di gestire una quota di farmaci e comunque alcuni di tali farmaci erano confacenti alle cure delle patologie da cui era affetto il C.;

15) mancanza di motivazione con riferimento al diniego delle attenuanti generiche considerato che la unificazione dei reati in un unico disegno criminoso diminuiva il disvalore complessivo della vicenda;

16) violazione di legge per avere calibrato il delitto continuato sul reato di cui all’art. 609 bis sebbene più grave fosse quello p. e p. dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, artt. 73 ed 80;

M.;

1) vizio di motivazione nella valutazione delle prove ( art. 606 c.p.p., lett. e), in rel. all’art. 192 c.p.p.). E’, infatti, infondato e fuorviante l’apprezzamento dei risultati della perizia psichiatrica sulle pp.oo.. A tal fine, il ricorrente fa notare, in primo luogo, che la perizia non ha dato risposta completa a tutti i quesiti posti dal G.u.p.. In particolare, si fa notare che, sebbene il G.i.p. avesse invitato i periti a riferire sulle condizioni delle parti offese "con particolare riferimento al fatto per cui si procede" i periti (per loro, il dott. T.) hanno precisato che era, invece, stata fatta la scelta consapevole di dare alle parti offese una valutazione clinica fondata sulle risultanze al momento dell’esame e, quindi, le vicende processuali erano state considerate solo distrattamente, forse solo come elemento anamnesico.

La carenza motivazionale delle perizie si è riverberata sulla sentenza che le ha fatte proprie incidendo, quindi, anche cosa sulla motivazione della sentenza stessa.

Passando in rassegna, poi, le posizioni delle singole pp.oo.:

– quanto a C.M. (dopo aver ripercorso le emergenze), si fa notare che le anomalie personologiche evidenziate a suo riguardo sono in grado di alterare il contatto con la realtà ma, nella fattispecie, i giudici hanno ritenuto altamente improbabile che ciò sia avvenuto, senza però spiegarne il motivo;

– quanto a S.D., si evidenziano affermazioni della stessa nei test che le sono stati somministrati, dai quali emerge che, per impulsività e grande alternanza di sentimenti, ella è pronta a fare qualcosa di disperato. Ciò nonostante, la donna è stata ritenuta credibile;

– quanto a M.T., si richiama l’attenzione sul fatto che la stessa è stata visitata mentre era ricoverata presso una struttura psichiatrica di Catanzaro ma non le sono stati somministrati dei test fondamentali per ottenere un quadro di attendibilità aderente alle condizioni reali della paziente;

2) vizio di motivazione nella valutazione delle prove testimoniali ( art. 606 c.p.p., lett. e) in rel. all’art. 192 c.p.p.). Passando in rassegna le dichiarazioni delle testi C., S. e M., vengono evidenziate contraddizioni e manchevolezze come, ad esempio, il fatto che le parole che la C. afferma di avere detto ai dottori I., S. e G. non sono mai state confermate da questi. In particolare, si ricorda che la C., in una occasione, aveva sostenuto che il dott. M., l’aveva solo invitata nel proprio studio a fumare una sigaretta mentre, successivamente, aveva detto che, in quella circostanza, egli si era abbassato i pantaloni e l’aveva costretta ad un rapporto orale. Analoghe discrasie si colgono con riferimento a quanto accaduto quando il dott. M. era andato a casa sua. Tutte le contraddizioni della C. emergerebbero anche dall’analisi dell’episodio asseritamene confermato dalla infermiera T. quando dice "ah quella che vi ho beccato"; in realtà, tale frase non dimostrerebbe assolutamente che, al sopraggiungere della T., fosse in atto alcunchè di illecito tra il dott. M. e la C..

Per quanto attiene alla M., si ricorda che ella ha riferito cose molto innocue, asseritamene avvenute in un momento in cui ella stava dormendo e poteva avere avuto una percezione falsata dei fatti e, comunque, la donna ha raccontato delle molestie sessuali asseritamente patite ad opera del dott. M. dopo che la stampa lo aveva già dipinto come un abituale violentatore. Fermo restando, poi, che la M. aveva interesse a mentire perchè non voleva stare nel reparto psichiatrico di Lamezia;

3) violazione di legge e vizio di motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in rel. all’art. 417 c.p.p. ed all’art. 609 bis c.p.) perchè le stesse imputazioni sono tra di loro contraddittorie essendo stati contestati, sia, l’abuso sessuale mediante violenza, che, quello per induzione quando è, invece, evidente che le due ipotesi, rispetto allo stesso fatto, non possono coesistere perchè l’una esclude l’altra;

4) violazione di legge e vizio di motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in rel. all’art. 61 c.p., nn. 5 e 9) in quanto l’abuso sessuale per induzione assorbe le aggravanti in parola;

5) violazione di legge e vizio di motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) in rel. ai comma 3 dell’art. 609 bis c.p.) conseguente al fatto che, ove si voglia ritenere violato l’art. 609 bis c.p., il tipo di condotte ascritte deve essere ricondotto nell’alveo dell’ipotesi attenuata di cui al 3 comma;

6) carenza ed illogicità della motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. b) in rel. all’art. 56 c.p.) dal momento che la Corte, dopo avere sostenuto che gli imputati (tra i quali il ricorrente) avevano di mira una congiunzione con le loro vittime, non ha poi, coerentemente, ritenuto ricorrente l’ipotesi tentata.

T.;

1) violazione di legge e vizio di motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. b) ed e)) in ordine alla valutazione delle dichiarazioni e della attendibilità della p.o.; esse, infatti, sono prive di coerenza logica e sfornite di riscontri. Peraltro, la Corte, con la propria motivazione per relationem, non ha dato risposta alle obiezioni difensive svolte nell’appello.

In particolare, si ricordano, come esempi di incoerenza della vittima, il fatto di avere ella, asserito di essere stata molestata la "sera del (OMISSIS)" quando, invece, dalla cartella clinica, ella risulta essersi presentata in ospedale il giorno 8 alle 10.30. In ogni caso, i turni di servizio del T., dal (OMISSIS) in poi, sono sempre stati nelle ore 7-14 sì da rendere impossibile il verificarsi dei fatti di sera.

La stessa indicazione da parte della vittima del proprio molestatore è avvenuta in modo incerto ("se non ricordo male si chiamava T.) ed è, comunque, singolare che (nonostante al sua palese importanza) la dichiarazione scritta – che ella dice di avere rilasciato al responsabile del reparto – non sia stata trovata nè dagli inquirenti e nemmeno dal marito dalla Ta. (cha ha sostenuto, però, di averla letta). Infine si richiama l’attenzione sulle dichiarazioni del teste I. (che non confermano la denuncia della donna) e sulle intercettazioni ambientali (dalle quali emerge che T. era ben consapevole della severità delle leggi in materia di violenza sessuale);

2) violazione di legge e vizio di motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. b) ed e)) in relazione al difetto di procedibilità perchè in capo all’imputato non può essere riconosciuta la qualifica di incaricato di pubblico servizio in quanto, come risulta anche dall’art. 5) al ricorso, T. ricopriva mansioni solo tecniche e non anche sanitarie; in altri termini, solo mansioni di ordine e prestazioni di tipo materiale e meccanico;

3) violazione di legge e vizio di motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. b) ed e)) perchè non è stata ravvisata l’ipotesi tentata sebbene la stessa Ta. abbia dichiarato che l’uomo l’aveva baciata sul collo, palpeggiata sul seno e "tentato" di baciarla sulle labbra. In ogni caso, per la modesta aggressione alla libertà sessuale della vittima, avrebbe dovuto essere riconosciuta l’attenuante speciale di cui al comma 3.

D.V.;

1) violazione di legge processuale ( art. 606 c.p.p., lett. c) in rel. agli artt. 550, 551 e 33 quater c.p.p., quinquies ed octies) dal momento che il reato ascritto al D.V. ( artt. 56, 610 c.p.) è tra quelli per i quali è prevista la citazione diretta. Una deroga si sarebbe potuta giustificare (art. 33 quater c.p.p.) in caso di connessione ex art. 12 c.p.p. ma, nella specie, esiste al M. un collegamento probatorio ex art. 371, comma 2, lett. b).

Censurabili sono, quindi, le diverse statuizioni a riguardo del giudice di primo grado e della Corte d’appello che hanno avallato sostenendo (f. 26) esservi connessione probatoria;

2) manifesta illogicità della motivazione in ordine alla responsabilità. In particolare, si censura il fatto che la valutazione dell’attendibilità della p.o. T.E. – sulle cui sole parole si basa il giudizio di condanna – sia avvenuto in modo difforme da quello operato per le pp.oo P. e Pa.. In altri termini, si fa notare che, per queste ultime due, il ct. del P.M. aveva espresso un giudizio di attendibilità che sia il G.i.p., in primo grado, che la Corte d’appello avevano ribaltato disponendo una perizia che aveva concluso per la loro inattendibilità. Orbene, a maggior ragione si sarebbe dovuto pervenire alla medesima conclusione per la p.o. T. nei cui confronti il G.i.p. aveva ugualmente ravvisato la necessità di una perizia che, però, non era stata espletata causa la mancata presentazione della donna. Nonostante, ciò, invece, ella era stata creduta;

3) mancanza di motivazione sulle censure mosse, con l’appello, sul trattamento sanzionatorio. Si fa notare, cioè che la pena finale di mesi 8 di reclusione muovendo da una pena base di 2 anni, ridotta, prima, ex art. 56 c.p., poi, per le attenuanti generiche e, quindi, per la scelta del rito, porterebbe a 5 mesi e 10 giorni e comunque, anche in tal caso si discosterebbe significativamente dal minimo edittale sì da non rendere accettabile la replica della Corte che ha avallato l’operato del giudice di primo grado nonostante le specifiche censure sul punto;

4) violazione dell’art. 535 c.p. ed illogicità della motivazione. La critica concerne la condanna solidale a spese processuali che sono state determinate essenzialmente dall’espletamento di perizie, sulle pp.oo., disposte, però, di ufficio e che, comunque, non hanno riguardato la p.o. T. che non vi si è sottoposta. Si ricorda, tra l’altro, che questa S.C. ha avuto occasione di affermare che la solidarietà sulle spese non ricorre quando la celebrazione dell’unico giudizio derivi da connessione soggettiva probatoria o da mera opportunità processuale (sez. 1^, 15.3.06, n. 12151);

R.;

1) violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’art. 33 sexies c.p.p.. Sebbene, infatti, il reato di cui all’art. 610 c.p. ascritto all’imputato fosse sicuramente da trattare con citazione diretta, ciò non è avvenuto per una evidente confusione dei giudici tra connessione rilevante ed art. 12 c.p.p. e collegamento probatorio. Il primo ricorre quando vi sia concorso di reati, di persone o collegamento probatorio, il secondo è previsto dall’art. 371 per l’ipotesi in cui la prova di un reato influisca sull’altro. La diversità di linguaggio normativo è evidente – sostiene il ricorrente – e perciò, quando il legislatore parla di procedimenti connessi si riferisce chiaramente alla connessione ex art. 12;

2) mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione non essendo stata fornita dalla Corte una valida motivazione a replica dei dubbi avanzati a proposito della p.o.

T., soprattutto, a fronte della mancata presentazione della donna all’incontro con il perito; si è, quindi, al cospetto di una vera e propria congettura dei giudici di merito nel giustificare tale assenza con il timore di altro ricovero.

La credibilità che si è annessa a detta teste e tanto più sorprendente se si considera che, dall’esame del ct., era già emerso che la donna soffriva di allucinazioni visive ed uditive.

Ricorre, poi, contraddittorietà in tale decisione quando la deposizione della dott.ssa F. viene ritenuta credibile nel momento in cui conferma la denuncia della T. ma non è credibile quando si tratta di valutare la posizione della M.;

3) mancanza di motivazione in ordine alle censure mosse con l’atto di appello a proposito della data di commissione del reato. Si è, infatti, evidenziato che la denunciante ha collocato la violenza patita in occasione dell’ultimo ricovero del dicembre 2006 quando, però, all’epoca, la stessa dott.ssa F. – che ha confermato – non prestava servizio presso il reparto (- cosa avvenuta – v. sua dep. del 28.9.07 – tra il 1 sett. 2004 ed il 3 aprile 2006). Vi è, dunque, una discrasia temporale insanabile tra la contestazione (basata sulle parole della T.) e le "conferme" pervenute da parte della dott.ssa F.. Notoriamente, la incertezza sulla data del fatto non è causa di nullità ma non quando – come in questo caso – ciò si risolva in una menomazione per il diritto di difesa;

4) mancanza di motivazione in ordine alla Qualificazione giuridica del fatto. L’episodio materiale riferito dalla T. è di essere stata picchiata dall’Infermiere E. con pugni perchè perchè non voleva prendere le medicine. Si fa, però, notare che la mancata assunzione dei farmaci è il movente e non lo scopo dell’azione violenta denunciata; quindi, a tutto concedere, si sarebbe dovuto contestare il delitto di cui all’art. 581 c.p.;

5) violazione di legge con riferimento all’art. 133 c.p.. Già nei motivi di appello infatti, era stata evidenziata l’assenza di una valida giustificazione della determinazione di una pena base di 2 anni per una persona incensurata (a fronte di un massimo di 4) e senza che fosse stato precisato per quale ragione, tenendo conto delle attenuanti generiche e della diminuente, si fosse arrivati alla pena di 1 anno (e non a quella di mesi 10 e gg. 20 di reclusione).

Sul punto, la risposta della Corte è meramente replicativa di quella di primo grado perchè i giudici di appello si limitano a ripetere quanto sostenuto dal G.u.p.;

Tutti i ricorrenti concludono invocando l’annullamento della sentenza impugnata.

Per l’imputata M. è stata depositata una memoria nella quale si sostiene la piena validità della sentenza impugnata nella parte in cui ha assolto il primario dott.ssa M. e, per contro, si evidenzia la genericità del ricorso del P.G. oltre che la inesattezza di alcuni assunti ed, in buona sostanza se ne sostiene al inammissibilità perchè lungi dall’evidenziare una erronea applicazione dell’art. 40 ovvero un vizio motivazionale tenta di ottenere dalla S.C. una ricostruzione della vicenda.

A maggior conforto di tali enunciazioni, la difesa dell’imputata M. ricorda, innanzitutto, gli indiscussi profili di complessità ed atipicità che caratterizzano la vicenda e, comunque, la necessità che – ai fini di una pronuncia di responsabilità per il mancato impedimento di un fatto illecito altrui – sia verificato che l’aggressore abbia agito nella sfera di controllo del soggetto sul quale grava l’obbligo e che vi fosse un effettivo potere di impedire il verificarsi dell’evento lesivo.

In altri termini, per l’applicazione del ed. Equivalente normativo della causalità, si richiede che l’evento lesivo sia inscindibilmente collegato al mancato compimento dell’azione doverosa.

A tale fine, richiamata la giurisprudenza di questa S.C. in tema di responsabilità ex art. 40 cpv. c.p., si evidenzia la diversità di quelle fattispecie rispetto a quella in esame. Mentre, infatti, in tutti i casi nei quali è stata ritenuta la responsabilità del madre per le violenze sessuali fatte subire ai figli ad opera di mariti e/o conviventi si era trattato di fatti avvenuti in un medesimo contesto di coabitazione nella piena consapevolezza della madre non intervenuta, i fatti che vengono ascritti alla M. si sono verificati in un lungo arco di tempo, ai danni di pazienti diverse e ad opera di soggetti diversi.

Passando, quindi, n rassegna tutti gli episodi contestati si pone l’accento sul fatto che la M. non ha mai avuto conoscenza dei reati in itinere, e – se si eccettua il caso della p.o. L. del quale essa è stata informata solo dopo e non ha sporto denuncia per ragioni che ha spiegato (con dichiarazioni utilizzabili in bonam partem) e che sono state avallate anche dalla dott.ssa G. – non appena, il 26.10.06, ha avuto notizia certa per segnalazione dei dott.ri I.S. e P. della denuncia della p.o. C., due giorni dopo. Il 28.10.06 si è rivolta all’A.G..

La memoria della difesa dell’imputata M. si sofferma anche nell’evidenziare alcune discrasie della contestazione visto che si addebita al primario di non avere impedito il verificarsi dei fatti in danno della M. (capo 23) sebbene informata di quanto accaduto alla S. (capo 22) quando, però, quest’ultimo, in base alla contestazione si è verificato dopo.

Quanto ai pochi episodi antecedenti ( P. e T.) non vi è la prova che le pervennero segnalazioni o – in caso affermativo – che esse furono di epoca antecedente alla denuncia poi sporta.

In ogni caso, all’esito di un’attenta disamina di tutti gli episodi criminosi per i quali la M. è accusata di non esser intervenuta ed, in tal modo avere concorso alla loro causazione, si sottolinea come la gran part dei fatti si è verificata dopo la denuncia della M. e, quindi, nonostante il suo attivarsi.

Ciò perchè, come ha evidenziato anche la Corte, la callidità delle condotte accertate da parte degli autori materiali andava ben oltre eventuali misure preventive diverse da quella estrema della privazione della libertà personale.

Ed infatti, sicuramente la M. aveva creato un sistema di "allerta" rispetto al dott. M. ed anche per il C. (v. inf G.S.R. a f. 34) e si era persino attivato un procedimento penale con intercettazioni ma, nonostante ciò molti episodi sono di epoca successiva alla denuncia della M..

Conclude, perciò, la memoria che, l’assenza di qualsivoglia effetto deterrente del procedimento penale impedisce di annettere una efficacia causale alla condotta pure attiva della M. cui, da ultimo, certamente non si può riconoscere nemmeno in termini di dolo eventuale alcun elemento psichico per i fatti commessi dal caslinuovo e dagli altri imputati visto che, anzi ella: 1) non ha esitato ad adire l’A.G. quando ha avuto indicazioni più rilevanti di mere voci e dicerie; 2) non ha mai dichiarato di ritenere inattendibile la p.o.

C..

Nel sottolineare, perciò il taglio di "inaccettabile generalizzazione" che caratterizza il ricorso del P.G. ne chiede una declaratoria di inammissibilità o, comunque di rigetto.

MOTIVI DELLA DECISIONE I ricorsi di C., M., T. e D.V. devono essere respinti con le motivazione e precisazioni che seguono (specie relativamente al C.).

2.1. (generalità) – Prima, però, di entrare nello specifico delle singole censure, stante la ricorrente comunanza di temi dei gravami di tali imputati, si impongono alcune puntualizzazioni di ordine generale che scaturiscono dalla constatazione che temi ricorrenti in ciascun gravame sono: a) una critica alla motivazione della Corte d’appello sotto il profilo della mancata considerazione delle censure che la difesa aveva devoluto al giudice di appello; b) la sostanziale assenza di motivazione visto che, prevalentemente, i giudici di secondo grado si sono rifatti alla motivazione della sentenza del G.u.p..

Per quel che attiene all’ambito di spettanza del giudice di appello va, tuttavia, ricordato come sia chiaro orientamento di questa S.C. (sez. 4^, 24.10.05, Mirabilia, Rv. 233187) che "il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qua caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata".

In altri termini, la regola della "concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata", enunciata dall’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) rende non configurabile il vizio di legittimità allorquando, nella motivazione, il giudice abbia dato conto soltanto delle ragioni in fatto e in diritto che sorreggono il suo convincimento, in quanto, quelle contrarie, devono ritenersi respinte implicitamente perchè contrastanti con la ricostruzione del fatto recepita e con le valutazioni giuridiche sviluppate (sez. 4^, 4.6.04, Perino, Rv. 229688).

Tali principi devono sicuramente essere tenuti presente nella disamina dei numerosi motivi di gravame svolti dalle difese degli imputati C., M., T. e D.V. unitamente ad altri due concetti generali.

Il primo, è che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto perchè il sindacato demandato dal legislatore alla Corte di Cassazione è solo diretto a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata. Non vi è, infatti, alcuna possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il proprio convincimento. Vale a dire che, l’eventuale illogicità della motivazione, per essere vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè, di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, "dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze" con il risultato che devono considerarsi disattese le deduzioni difensive che "anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento" (su. 24.11.99, spina, Rv. 214794). In altri termini, come del resto dice la norma, deve trattarsi di una illogicità "manifesta".

Il secondo concetto da ribadire attiene alla possibilità di richiamo della decisione di primo grado. A riguardo, deve ricordarsi che, sulla scia della nota sentenza di queste S.U. (21.6.00, Primavera, Rv. 216664), è ormai consolidata l’idea che la motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale è da considerarsi legittima quando: a) faccia riferimento ad altro atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; b) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto delle ragioni del provvedimento di riferimento ritenendole coerenti con la sua decisione; c) l’atto di riferimento sia conosciuto dall’interessato o almeno a lui ostensibile (ex multis: sez. 4^, 14.11.07, Rv. 238674).

Ciò detto, deve anche ricordarsi, in ultimo, che, ai fini del controllo di congruità della motivazione, le sentenze di primo e di secondo grado si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile. Come espressamente affermatosi, infatti, quando le sentenza, di primo e secondo grado, "concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente" (Sez. 1^, 26 giugno 2000, Sangiorgi, Rv 216906), con la conseguenza che i motivi di ricorso devono essere esaminati alla luce della complessiva motivazione adottata da entrambe le decisioni di merito.

2.2. (ricorso C.) – E’ dunque, avendo presenti tali enunciazioni di principio che, nel passare a trattare i molteplici motivi di ricorso svolti dalla difesa di C., risulta agevole comprendere perchè – a parte il quinto motivo di cui si dirà più avanti – la totalità degli argomenti svolti dalla difesa di tale imputato si rivela infondata.

Ciò vale a partire dal primo motivo ove si tenta di inficiare l’ossatura portante della sentenza nella parte in cui annette credibilità alle testimonianze delle vittime ed ai risultati della perizia fatta svolgere sulle stesse, dal G.u.p., per saggiarne la capacità a testimoniare e la attendibilità.

Come si è già accennato, però, se rientra sicuramente nelle competenze di questa S.C. verificare se il giudice del merito abbia "fotografato" correttamente la realtà sulla scorta di quanto accertato nel provvedimento gravato è altrettanto certo che tale verifica non può risolversi in una valutazione della prova al punto da optare per la soluzione che si ritiene più adeguata alla ricostruzione dei fatti, riesaminando, ad esempio, "l’attendibilità dei testi o le conclusioni di periti o consulenti tecnici" (sez. 4^, 17.9.04 n., cricchi, Rv 229690).

A ben vedere, invece, il presente ricorso punta esclusivamente proprio a tale risultato offrendo una diversa lettura degli atti e proponendo, come unica e corretta, quella diversa secondo cui le persone offese che hanno deposto contro l’odierno ricorrente non erano in condizioni psichiche tali da rendere dichiarazioni attendibili; e ciò, in contrasto anche con quanto asserito dai periti nominati dal G.u.p..

In realtà, su tale aspetto, le decisioni di merito risultano esaustive perchè affrontano l’argomento sotto diversi punti di vista (ivi incluso quello opposto delle difese) e pervengono a conclusioni che risultano basate su dati processuali obiettivi e non affette da alcuna manifesta illogicità.

In particolare, per quel che attiene al tema della attendibilità e delle condizioni psichiche delle numerose pp.oo., vale, in primo luogo, il dato obiettivo delle conclusioni dei periti secondo le quali, ad eccezione delle pp.oo P. e Pa., nessuna di esse "presentava un’alterazione della capacità di percepire congruamente il reale, di ricordarlo e di riferirlo a terze persone" (t. 3 ss app.). In altri termini, il fatto – non contestato neppure in sentenza – che talune delle vittime del presente procedimento presentasse sintomi psicotici con manifestazioni acute (es. delirio, allucinazioni) non implica che le stesse avessero un rapporto completamente alterato con la realtà sì da risultare compromesse le loro capacità cognitive.

Nè è producente, in proposito, lo sforzo del ricorrente di coinvolgere questa S.C. in una rivisitazione degli elaborati peritali perchè, così facendo, si snaturerebbe la presente funzione di legittimità. A fronte delle concordi conclusioni dei giudici di merito, nessuna censura merita l’affermazione della Corte secondo cui "le tranquillizzanti conclusioni cui pervennero i periti nel corso del rito abbreviato non risultarono inficiate dalle controdeduzioni tecniche formulate dai consulenti di parte. In realtà, sia i periti, sia – prima di essi – i consulenti nominati dal Pubblico Ministero, hanno con tutta sicurezza definitivamente stabilito che nessuna delle pazienti recava una patologia tale da indurre a ritenere che il narrato, tradottosi nelle propalazioni rese a carico degli imputati, potesse essere sintomo della stessa patologia. Nè sono stati diagnosticati disturbi della memoria o della percezione tali da compromettere i requisiti della veridicità e della accuratezza nella ricostruzione delle rispettive vicende (ff. 7 ed 8 app.).

Ma il maggior convincimento dell’avallo che i giudici di secondo grado hanno dato alla decisione del G.u.p. discende dalla considerazione che la attendibilità delle pp.oo. non è stata affermata solo basandosi sui risultati peritali ma sottolineando, di volta in volta, una serie di riscontri obiettivi che ad essi sono pervenuti da testimonianze di terzi soggetti, da intercettazioni ambientali e, soprattutto, dalla obiettiva considerazione che le accuse mosse all’imputato C. (ma ciò varrà in gran parte anche per gli altri imputati, come si dirà più avanti), pur essendo caratterizzate da contenuti molto simili – se non identici – tra di loro provengono da persone che non si conoscevano e che, anzi, sono state degenti in differenti momenti presso l’ospedale ove operava il C.. Ed infatti, non risultano esservi stati contatti tra di loro e "le donne, escusse in tempi diversi, hanno ugualmente ascritto agli odierni imputati condotte caratterizzate da modalità del tutto similari l'(1.18 app).

Nel richiamarsi specificamente alle pagine 57/61 della sentenza di primo grado, i giudici di appello ricordano, in particolare, come un sicuro indice di attendibilità sia rappresentato dalla circostanza che "la medesima narrazione dei fatti è stata offerta dalle vittime, in maniera costante e coerente a soggetti terzi, che ne hanno poi confermato i contenuti (f. 17 app.) e come "altro elemento importante da cui desumere la attendibilità delle dichiaranti sia rappresentato dalla "genesi delle indagini, la quale ha chiaramente evidenziato che nessuna delle pazienti analizzate si è spontaneamente recata a denunziare episodi di abuso, essendo stata l’individuazione delle vittime, piuttosto, il risultato di una complessa attività di indagine e di ricerca effettuata attraverso l’attento esame di dati documentali e incroci di dichiarazioni (f. 17 app.).

Nei motivi che vanno dal secondo al quindicesimo (escluso il quinto), pertanto, il ricorrente reitera ingiustificatamente la medesima censura di "mancanza" di motivazione evidenziando (come visto nel riepilogo dei motivi che precede) vari aspetti di fatto ai quali asseritamente la Corte non avrebbe risposto e, quindi, sostanzialmente, reiterando tesi difensive volte ad ottenere una diversa interpretazione dei dati processuali.

Orbene, è perfino pleonastico rammentare che il vizio della "mancanza di motivazione" ricorre solo quando vi sia una mancanza grafica delle ragioni che sostengono la decisione ovvero la stessa, pur presente, sia apparente.

Nessuno di detti rilievi può essere mosso alla decisione qui impugnata perchè, pur dovendosi ammettere che essa non rappresenta un brillante esempio di motivazione, tuttavia, considerata in uno con la decisione di primo grado (cui essa si riporta ampiamente condividendone, quanto a C., le conclusioni) raggiunge un livello di sufficienza argomentativa che la pone al riparo dal rischio di venire considerata apparente.

Semmai, nonostante l’ampiezza (anche grafica) dei motivi del ricorrente C., non si può fare a meno di osservare che è proprio il ricorso in esame ad incorrere in tale errore. Ed infatti, affermando che la Corte non ha risposto specificamente alle critiche rivolte alla sentenza di primo grado, esso opera un suggestivo spostamento di inquadratura rispetto al fatto che, in realtà, proprio perchè ha condiviso le valutazioni di merito del primo giudice, al punto da richiamarle e farle proprie, la Corte ha anche risposto sostanzialmente alle censure dell’appellante nel momento in cui ha avallato anche le repliche del G.U.P. alle obiezioni difensive (la cui identità è affermata dallo stesso ricorrente quando ricorda di avere già svolto quegli argomenti senza, asseritamene, averne ricevuto riscontro).

Il vero è che, quella che il ricorrente lamenta come "mancanza" di risposta – del primo e/o del secondo giudice – è piuttosto una doglianza per non avere i giudici interpretato i fatti in un modo diverso.

In altri termini, si deve uscire dall’equivoco, nel quale cerca di indurre il ricorrente, di far passare per illogicità manifesta il non avere la Corte tratto dai dati processualmente acquisiti le diverse conclusioni auspicate nell’ottica difensiva. E’ indubbio che, in natura, determinate vicende possano prestarsi a letture differenti, e magari legittimamente sostenibili sul piano logico, ma il fatto che la decisione giudiziale di merito abbia optato per una tesi, piuttosto che per un’altra, non può essere censurabile in sede di legittimità per la semplice ragione che la cosa non da luogo ad alcuna illogicità manifesta nella misura in cui la scelta sia avvenuta – come appunto accaduto nel caso in esame – sulla base di argomenti logici ed ancorati al quadro probatorio esistente.

Che tutto ciò, nella specie, sia calzane lo denota il fatto stesso che anche la Corte ha stigmatizzato che gli appelli (tra i quali, anche quello di C.) si risolvono – quanto alla attendibilità delle vittime – nella uriproposizione di questioni ed obiezioni già avanzate davanti al primo giudice e da questi puntualmente risolte con motivazione ampia e congrua nelle pagine da 57 a 61, alla quale si fa espresso ed integrale rinvio".

E’, dunque, anche – legittimamente – attingendo a quella parte di motivazione del G.u.p. che si colgono ulteriori e più dettagliati riscontri al fatto che le critiche difensive tese a mettere in dubbio la verosimiglianza di quanto detto dalle pp.oo. sono ingiustificate.

Più nello specifico, riprendendo la critica che il C. muove nel secondo motivo, si constata che il tema della asserita inverosimiglianza della p.o. C., per via di presunte difformità tra le varie dichiarazioni, era stato già svolto davanti al giudice di primo grado che vi aveva risposto congruamente obiettando, in modo logico e plausibile, che esse si presentavano "ad evoluzione frazionata" (f. 57 g.u.p.). E ciò, non solo perchè, per definizione, la testimonianza è atto che, per sua natura, è destinato ad arricchirsi di elementi nuovi e più complessi ma anche "in considerazione degli stimoli che nascono dalle contestazioni delle acquisizioni investigative messe di fronte al dichiarante ..

(e) … perchè non può non tenersi conto di un possibile variare dello stato d’animo del dichiarante che, nelle more della sua prima escussione può avere concentrato l’attenzione su nuovi particolarì.

Tale riflessione, obiettivamente logica e corretta, legittima, quindi, l’ulteriore considerazione – che rileverà anche più avanti nel trattare la posizione dell’imputato M. – secondo cui "se la C. e la R. hanno raccontato solo in un momento successivo del loro rapporto con M., non può certo desumersene che le stesse siano per ciò solo inattendibili (f 58 g.u.p.).

Ma venendo, poi, nello specifico alla posizione di C. – ad ulteriore dimostrazione di quanto enunciato in generale a proposito della "ripetitività" degli argomenti del ricorrente – si constata che la questione che viene posta tra i ff. 12 e 13 del ricorso (circa la inverosimiglianza delle parole della C. che avrebbe sostenuto di essere stata sottoposta ad una terapia in realtà non prescrittale) era già stata sollevata dinanzi al G.u.p. che, a f.

58, vi replica in modo che può non essere condiviso (come appunto fa la parte C.) ma, non per questo è censurabile di manifesta illogicità. Dice, infatti, il G.u.p. che "l’elemento sopra evidenziato non risulta idoneo a smentire il racconto della C. atteso che non può escludersi che in quella circostanza vi sia stata una modalità di somministrazione dei farmaci diversa da quella prevista in cartella". Ed a maggior conforto di quanto ipotizzato, il giudice di primo grado ricorda le parole dello stesso C. "il quale, in sede di interrogatorio, nel tentativo di discolparsi sulla specifica contestazione mossagli, ha ammesso di avere praticato l’iniezione ("mi sono limitato ad effettuare sulla stessa la dovuta terapia: può darsi che, nel disinfettarla, prima di praticare l’iniezione l’abbia involontariamente toccata")". Nè l’argomentare sul punto del primo giudice di merito si ferma qui visto che si soggiunge, in modo vieppiù convincente, che "a riscontro della plausibilità della predetta ricostruzione alternativa, si pongono anche le dichiarazioni dell’infermiere G. che, nel raccontare di come ha appreso la notizia dell’abuso della C., specifica che la stessa lo aveva, in una occasione, avvicinato chiedendo se, nel periodo in cui si erano svolti i fatti, fosse per la stessa prescritta terapia intramuscolo, a riprova di come tale circostanza della incongrua somministrazione dei farmaci da parte dell’infermiere abbia da subito polarizzato l’attenzione della vittima".

Evidente, dunque, che, lungi dall’essere vero che la Corte non abbia risposto, si constata che la risposta vi è stata e si è sostanziata in una adesione alla tesi sostenuta dal G.u.p. nel ribattere alla identica questione difensiva.

Deve, invece, riconoscersi corretta la obiezione del ricorrente nel secondo motivo circa la inesattezza in cui è incorsa la Corte nel valutare le parole della teste T. (cui è stata riconosciuta la causa di non punibilità sebbene la ritrattazione fosse stata solo parziale, specie per quel che attiene alle parole della C.). Il punto è però – quanto alla posizione di C. -irrilevante perchè, semmai, vale solo ad evidenziare una contraddittorietà della motivazione della Corte nel trattare la posizione della T..

Siccome, però, non vi è stata alcuna impugnazione del P.G. con riferimento a tale imputata, il discorso si esaurisce.

Scorrendo, quindi, i successivi motivi di ricorso ci si imbatte sempre nello stesso difetto del gravame: cercare di indurre questa S.C. ad una rivalutazione delle emergenze processuali per trame diverse conclusioni. Ciò, non solo non è consentito, ma è anche precluso dal fatto che si rinviene già in atti una replica adeguata dei giudici di merito.

Tale è il caso delle critiche mosse con il terzo motivo a proposito del quale lo stesso ricorrente ammette esservi una motivazione e critica solo il fatto che la Corte abbia "recepito passivamente" quella del G.u.p.. Vale, però, quello che già si è detto a proposito della possibilità di motivare per relationem e fermo restando che questa S.C., per la parte che le compete, non può non constatare la puntualità e la completezza di quanto affermato dal G.u.p. sul punto della presunta smentita della madre (v.f. 59 G.u.p.).

Analogamente più che corretta è la giustificazione dell’affermazione di responsabilità del C. per quanto fatto alla L.. Nel quarto motivo si pone in risalto la "iniziativa" della p.o. per sottolinearne il consenso ma erra il ricorrente nel criticare la giusta replica dei giudici di merito. La Corte giustamente avalla la risposta che già il G.u.p. aveva dato alla (analoga) obiezione difensiva evidenziando che si era trattato di consenso viziato proveniente da persona in condizioni di inferiorità psichica delle quali il ricorrente aveva abusato (f. 22 app.).

L’argomentazione è perfettamente in linea con lo spirito della riforma in tema di abuso sessuale su soggetti infermi psichicamente.

Nel riconoscere anche ad essi la possibilità di una vita sessuale, il legislatore si è chiaramente posto il problema di evitare una strumentalizzazione (sez. 3^, 9.5.07, Rv. 237398) di soggetti che, in ragione di loro peculiari condizioni fisio-psichiche, siano in qualche modo in una situazione di minorata difesa.

E’, appunto, per tale ragione che sono richiesti la "induzione" e l’abuso".

E’ solo suggestivo pensare che il fatto che la p.o. abbia "preso l’iniziativa" elimini l’elemento della induzione perchè, come è stato sottolineato ab initio anche dalla migliore dottrina, l’abuso dell’altrui condizione dì inferiorità psichica può risultare, in concreto, ben configurabile anche in presenza di una condotta omissiva del soggetto agente che, pur percependo la condizione di infermità psichica del proprio partner, ne ha accettato le avances compiendo con lui atti sessuali. Pertanto, l’unico caso in cui non si potrà configurare alcuna condotta illecita sarà quello in cui il soggetto infermo di mente prenda l’iniziativa per il compimento dell’atto sessuale ed il partner, non infermo, non si avveda dell’altrui infermità.

E’ sicuramente dovere del giudice espletare un’indagine adeguata per verificare se l’agente abbia avuto la consapevolezza, non soltanto, delle minorate condizioni del soggetto passivo ma, anche, di abusarne per fini sessuali ma il caso concreto che qui occupa è talmente peculiare da rendere superfluo spiegare perchè il C., infermiere addetto anche alla cura dei pazienti del reparto psichiatrico – tra cui la L. – avesse più di un valido motivo per conoscere le condizioni di particolare vulnerabilità psichica in cui versava quella paziente che, tra l’altro, aveva esplicitato chiaramente il proprio bisogno di psicofarmaci (in cambio dei quali era disposta "a tutto").

Evidente, perciò, che la "disponibilità" della donna era irrilevante sul piano di un valido consenso. Superflue, dunque, anche le ulteriori considerazioni per replicare al sesto motivo (circa la pretesa "strumentalità" delle dichiarazioni di L.) con cui si ribalta sorprendentemente il piano probatorio (quasi che la "vittima" fosse stata il C.).

Proseguendo nello spoglio dei motivi, va detto che, a f. 60 della sentenza di primo grado, si rinviene anche una più che attenta e valida disamina della pretesa inattendibilità della p.o. Y. S. (oggetto del settimo motivo). Il G.u.p. affronta l'(identico) motivo portato qui all’attenzione evidenziando come, in realtà, il racconto della donna – circa quello che era occorso ad altra paziente ( V.V.) – fosse collocato nel tempo in modo logico e correttamente riportato, per come appreso dalla voce di V. dalla medesima Y.. In ogni caso, si tratta di una critica, quella del ricorrente, che ancora una volta si risolve in una proposta di lettura "alternativa".

E – sempre a conferma del fatto che i motivi dell’odierno ricorrente non fanno altro che ripercorrere le tesi difensive già sviluppate in primo grado e ribadite (come notato anche da quei giudici) anche in Corte d’appello – a proposito dell’ottavo motivo, si ritrova la vicenda delle pp.oo. P. ed I. al cui riguardo si legge, nella sentenza del G.u.p., che la prima "non è credibile perchè quanto dalla stessa dichiarato sarebbe in contrasto con quanto riferito dai genitori della I. che asseriscono di avere vegliato sulla figlia giorno e notte".

Ciò è, per l’appunto, quello che viene ribadito in questa sede per indurre questa S.C. nel convincimento di una manifesta illogicità che deriverebbe solo dal fatto di non convenire sulla risposta del G.u.p. (poi avallata dalla Corte) secondo cui è lecito ritenere che le dichiarazioni dei genitori non sono decisive perchè "dalla documentazione clinica e dai quaderni degli infermieri nella parte relativa al periodo del ricovero della I. e della P., si ricava che la dichiarazione dei genitori della I. sono smentite dal fatto che solo in determinate notti gli stessi abbiano prolungato alle ore notturne la loro permanenza in ospedale". Ciò posto, nulla di irragionevole si rinviene nella conclusione del giudice di merito che, senza voler pensare che i genitori della I. abbiano reso false dichiarazioni, "il predetto dato documentale impone di valutare quelle dichiarazioni nel senso che sicuramente vi è stata una vigilanza sulla ragazza da parte della famiglia, ma certo questa vigilanza non è stata cosi continua come vuole sostenere la difesa degli imputati.

Per le medesime ragioni, nessuna critica può muoversi alla "lettura" dei fatti relativi alla p.o. M. offerta dai giudici di merito.

Nel nono motivo, si sostiene nuovamente che il turno di servizio di C. era pomeridiano sì che egli non avrebbe potuto commettere i fatti addebitatigli nel capo 7) perchè (secondo la p.o) verificatisi di notte ma a ciò si ribatte, in modo del tutto accettabile sul piano logico, che il turno di C. era stato pomeridiano e si era protratto sino alle 21.00.

Proseguendo su questa stessa linea è valido, da parte dei giudici di merito, il rilievo che, per quel che attiene all’episodio che vede come p.o. la M. (oggetto del decimo motivo), non essendo stata provata alcuna valida ragione calunniatoria da parte della donna, non vi è nemmeno occasione di dubitare del suo tentativo di suicidio (che, comunque, è stato accertato dai sanitari che hanno sottoposto la donna ad "una serie scrupolosa di accertamenti consigliandole l’osservazione in ambiente chirurgico" a dimostrazione della "serietà della sintomatologia presentata all’atto della precipitazione, senza che a ciò debba necessariamente conseguire al presenza di fratture").

Detto in sintesi, tutte le censure che vengono mosse con il presente ricorso sono ingiustificate (e ciò vale dunque anche per quelle formulate nei motivi che vanno dall’undicesimo al quattordicesimo) perchè, a ben vedere, finiscono per riproporre questioni identiche a quelle già sollevate dinanzi alla corte di merito che vi ha dato – come visto – puntuale risposta la cui validità non è sminuita dal fatto di essere riaffermativa di quella (scevra da qualsivoglia vizio di logicità) già svolta dal G.u.p. a fronte della medesima questione.

Si ribadisce, infatti, che la circostanza che la sentenza qui impugnata abbia operato un ampio rinvio a quella di primo grado non costituisce di per sè vizio di motivazione, dovendosi, piuttosto, verificare se, in tal modo, la Corte di appello sia venuta meno all’obbligo di rispondere a precise censure di incompatibilità, sollevate in sede di impugnazione, fra il materiale processuale e il contenuto della motivazione dei primi giudici.

La risposta negativa si impone Visto Che – come è emerso già finora anche da una disamina partita dei motivi – il ricorrente ha svolto dinanzi alla Corte d’appello le medesime tesi difensive sviluppate in primo grado auspicando che la Corte pervenisse a diverso convincimento. I giudici di appello, però, hanno avallato delle repliche del G.u.p. che rappresentavano una delle possibile interpretazioni da dare ai fatti. Ciò vale, ad esempio, per la doglianza di cui al motivo quattordici ove si reitera la tesi che il delitto di peculato non sarebbe sostenibile in quanto anche gli ospedalieri avevano la possibilità di detenere medicinali e che, comunque, questi ultimi erano, in parte, compatibili con le patologie del C.. Nuovamente, però, ci si imbatte in una proposta di visione "alternativa" di fatti obiettivi la cui interpretazione, da parte dei giudici di merito, è risultata corretta ed ancorata al dato obiettivo che – nello specifico – nell’armadietto di C. "furono trovati diversi medicinali, tra cui anche farmaci in dotazione al reparto di psichiatria ed altro materiale ospedalierì (f. 25 app).

A fronte di ciò, questa S.C. non può che limitarsi a prendere atto della incensurabilità della motivazione perchè, una volta che il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della propria analisi probatoria, l’esame si esaurisce nella fase di merito essendo preclusa in sede di legittimità (Sez. 11 11.1.07, Messina, rv. 235716) "la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova".

Resta da soggiungere, quanto al quindicesimo motivo (che affronta il tema del diniego delle attenuanti genetiche) che il riconoscimento delle circostanze di cui all’art. 62 bis c.p. non costituisce nè un diritto quesito per l’imputato nè una "benevola concessione" da parte del giudice. In particolare, esse non derivano automaticamente dall’assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto ma, al contrario, la loro funzione di adeguamento della pena al caso concreto è correlata alla sussistenza obiettiva di situazioni o circostanze non rientranti tra quelle già codificate ma che presentano connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva e particolare, considerazione. Si richiedono, in altri termini, elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione delle circostanze in parola (sez. 1^, 22.9.93, Stentano, Rv. 195339).

Di certo, tale "elemento positivo" non può essere ravvisato – come vorrebbe il ricorrente – nel fatto che tutti i reati a suo carico siano stati unificati sotto il vincolo della continuazione. Il legislatore ha chiaramente introdotto questo istituto per calibrare e contenere la pena per chi delinqua maggiormente ma, notoriamente, la sua ricorrenza è solo quoad poenam applicandosi, cioè, grazie a tale istituto, non il cumulo materiale delle pene per tutti i reati accertati ma solo la pena per il reato più grave aumentato dì una certa quota per i vari "reati-satellite". L’effetto deflattivo del reato continuato si esaurisce in ciò ed è quasi paradossale auspicare che, da tale "unificazione simbolica" (che dottrina risalente nei tempo definiva come lo "sconto per delinquenti all’ingrosso"), consegua anche un giudizio di minore gravità complessiva da cui si pretenderebbe di inferire, addirittura, il riconoscimento delle attenuanti generiche.

In ogni caso, tali circostanze sono il risultato di un "giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, che deve motivare nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo" (Sez. 1^, 4.11.04, p.g. in proc. Paimisani, Rv. 230591).

Questo è quanto, per l’appunto, avvenuto nella specie ove, lungi dall’aver individuato aspetti favorevoli all’imputato C., la Corte ha ribadito la negativa del G.u.p. sottolineando la "particolare gravità e riprovevolezza delle condotte delittuose reiteratamente e pervicacemente poste in essere ai danni di soggetti ammalati ed in condizioni di minorata difesa" (f. 27 app.).

Venendosi ora, infine, al quinto motivo di ricorso – come accennatosi inizialmente -la decisione non può che essere di tenore diverso da quella fin qui sostenuta per gli altri motivi visto che, effettivamente, la riconduzione del Tavor e del Valium tra le sostanza stupefacenti è il risultato dell’applicazione di una normativa non vigente all’epoca dei fatti (quando quei medicinali erano ricompresi nella tab 5 non rilevante a fini penali).

L’imputazione di cui al capo 9) della rubrica non era, pertanto, fondata perchè il fatto non sussiste. Conseguentemente, nell’annullare senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla statuizione sul punto, va eliminata, la relativa pena, inflitta al C. a titolo di continuazione, pari a mesi 2 di reclusione.

Per l’effetto, resta assorbita la doglianza di cui al motivo sedici.

2.3. (ricorso M.) – Gran parte delle argomentazioni svolte fin qui nel trattare la posizione di C., debbono essere tenute presenti nell’esame della posizione dell’imputato M..

Ciò vale, in particolar modo per il primo e secondo motivo nei quali vengono rinnovate questioni, rispettivamente, sulle conclusioni peritali e sulla valutazione delle dichiarazioni testimoniali che riproducono censure già mosse in precedenza e che sono state analizzate dal G.u.p. e fatte proprie dai giudici di secondo grado.

E’, quindi, a rischio di risultare nuovamente ripetitivi che si ribadisce il concetto secondo cui, in tema di integrazione delle motivazioni tra le conformi sentenze di primo e secondo grado, se l’appellante si limita alla riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, quello dell’impugnazione ben può motivare per relazione (Sez. 4^, 14.2.08, Baratti, Rv. 239735).

La infondatezza (quasi manifesta) di tali motivi va, poi, ravvisata anche nel rilievo che, con essi, si cerca di introdurre, nel giudizio di legittimità, temi di valutazione squisitamente "in fatto". Come, cioè, si è già ricordato nel paragrafo che precede (a proposito del primo motivo di ricorso dell’imputato C.) non rientra nelle competenze di questa S.C. rivalutare il contenuto di una perizia ovvero le dichiarazioni dei testi allo scopo di trame (anche eventualmente possibili) conclusioni differenti.

Il vizio motivazionale che qui si intende denunciare ricorrerebbe solo nella eventualità in cui i giudici di merito non avessero fornito una spiegazione adeguata del proprio convincimento, pretermettendo emergenze probatorie significative e decisive ovvero incorrendo in argomentazioni manifestamente illogiche.

Tutto ciò non può dirsi assolutamente nell’ipotesi in esame posto che, come si è già ricordato, prima il G.u.p. e, poi, la Corte, hanno passato in rassegna tanto le risultanze peritali quanto le dichiarazioni delle pp.oo pervenendo al convincimento di responsabilità in maniera congrua e qui inattaccabile.

Oltretutto, come fatto notare anche dal P.G. nelle proprie conclusioni in udienza, per la posizione di M. c’è anche "qualcosa di più" perchè, come ricorda al sentenza impugnata, oltre alle parole delle pp.oo, vi sono i riscontri offerti dalla deposizioni testimoniali di terze persone e dalle intercettazioni.

In particolare, per quel che riguarda la teste C., risultano plurime e reiterate condotte a sfondo sessuale attuate dal dott. M. anche dopo la cessazione del ricovero della donna "nel suo studio, nella sua autovettura e finanche nella abitazione della stessa C., alla presenza del marito" (f. 6 app.) mentre, per quel che attiene alla p.o. R., viene rammentato (f. 7 app.) che, dalle intercettazioni telefoniche, pervengono "idonei elementi comprovanti il narrato accusatorio … laddove l’appellante cercava esplicitamente di denigrare la sua vittima, presentandola come una donna facile". Si soggiunge, poi (r. 19 app.) che "la R. ha reso tutte le sue dichiarazioni prima delle ordinanze custodiali e, quindi, prima che potesse insorgere nella stessa una qualsivoglia suggestionabilità mediatica". Quanto alla p.o. S., si rammenta (f. 8aPP.) che l’individuazione di tale vittima "era originata da una delle escussioni della dottoressa G., la quale aveva riferito di un episodio verificatosi qualche mese dopo la sua assunzione risalente al settembre 2004 … (ciò era stato ,dr) oggetto di conferma e precisazione da parte della vittima della suddetta condotta in sede di sommarie informazioni testimoniali risalenti al primo agosto 2007 … (ed n.d.r.)… a riscontro del predetto episodio si ponevano le dichiarazioni rese da T. M. (secondo la quale n.d.r.) … circa due anni addietro, entrando nella stanza di una ragazza, la trovò piangente alla presenza di M., che immediatamente lasciava la stanza.

Avvicinatasi alla paziente la stessa diceva "voglio andare via perchè qui sono tutti porci". Anche (i 12 app.) il narrato della M. – circa il fatto che in occasione del suo "penultimo ricovero, un pomeriggio si era svegliata di soprassalto dal sonno, in quanto egli ( M. n.d.r.) si era buttato sopra di lei per baciarla e toccarle il seno" ha trovato "congrui riscontri nelle dichiarazioni del coimputato R. e del dottore I., delle assistenti sociali G. e C. oltre che nel contenuto di alcune intercettazioni ambientali".

A fronte di queste ed altre considerazioni – del tutto adeguate sui piani della logica e della attinenza alle prove – svolte dai giudici di merito, sia in primo che in secondo grado, anche nell’esame della posizione di M., risulta, quindi un "fuor d’opera" il prolungato sforzo svolto dal ricorrente, nel primo e nel secondo motivo, di attrarre l’attenzione di questa S.C. sulla confutabilità del metodo seguito dai periti ovvero sulle anomalie personologiche dell’una o dell’altra p.o..

Sono, poi, addirittura manifestamente infondati il terzo ed il quarto motivo posto che, nei capi 22, 23, 25, 27 e 28, vengono contestati solo abusi sessuali commessi con violenza e con le aggravanti di cui all’art. 61, nn. 5 e 9 e la censura del ricorso si fonda sull’evidente equivoco tra la contestazione dell’elemento materiale della condotta e quella dell’aggravante: ciò che il ricorrente ritiene essere descrizione di condotte di "induzione mediante abuso" in realtà è solo descrizione dell’abuso di autorità e di approfittamento di circostanze particolari che riducevano le possibilità di difesa (e che danno vita giustamente alle aggravanti di cui all’art. 61, nn. 5 e 9). il rilievo del quarto motivo sarebbe stato giusto se, effettivamente al M. fosse stata contestata la violenza sessuale per induzione ma tale non è assolutamente il caso in esame. La prosa (pur, a volte, un po’ involuta e di faticosa lettura dei capi di imputazione perchè infarcita di gerundi e lunghi periodi incisi) non impedisce, infatti di accertare che tutti i capi che riguardano il M. conoscono una frase principale "aver… costretto a subire atti sessuali al cui interno si collocano incisi – del tipo "con abuso della sua condizione di autorità derivante dall’esercitato ruolo di medico in servizio presso il reparto di psichiatria ….sfruttando la circostanza di doverla visitare (capo 22) … (ovvero)… facendo leva sul rapporto di affidamento fiduciario medico paziente (capo 25) ….ecc. – che descrivono le circostanze aggravanti.

Del resto, è quasi pleonastico rammentare che non si verte in contestazioni di abuso sessuale "per induzione" per la semplice ragione che, per l’appunto oltre alla descrizione dell’"abuso" (qui effettivamente avvenuta ma ad altro titolo) la contestazione avrebbe dovuto contenere la descrizione dell’Induzione" mentre, invece – si ribadisce – tutti i capi che riguardano il M. contestano una "costrizione".

Generico ed infondato è anche il quinto motivo. La riconduzione di un fatto di abuso sessuale nell’ipotesi attenuata del comma 3 costituisce anche nelle parole del ricorrente una sorta di petizione di principio frutto di una "soggettiva" valutazione dei fatti criminosi ascritti a tale imputato.

Corre l’obbligo, però, di rammentare che, l’attenuante in parola, così come tutte le circostanze, viene riconosciuta sulla base di un apprezzamento in fatto di tipo discrezionale del quale il giudicante deve dar conto per non incorrere nella censura di arbitrio. Inoltre, in particolare, quanto all’attenuante speciale di cui trattasi, questa S.C. ha elaborato dei parametri piuttosto chiari che sfuggono alla semplicistica argomentazione del ricorrente che – male interpretando lo spirito della novella legislativa del 1996 – ripropone come parametri la vecchia distinzione tra atti di libidine e congiunzione carnale.

In realtà, già all’indomani dell’entrata in vigore della riforma, è stato affermato (Sez. 3^, 15.11.96, coro, Rv. 207299) che il compimento di atti sessuali diversi dalla congiunzione carnale può avere connotazioni di gravità maggiore della congiunzione stessa e, quindi, l’applicazione della circostanza attenuante speciale deve avere riguardo alla effettiva valenza criminale, degli specifici comportamenti, desunta con riferimento ai criteri direttivi indicati dall’art. 133 c.p.. Nel tempo, poi, questa S.C., si è consolidata nell’affermazione secondo cui, ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante speciale di cui si va discutendo, non rileva che gli atti sessuali non siano stati caratterizzati da "penetrazione", in quanto è necessario valutare il fatto nella sua complessità dovendo, cioè essere presi in considerazione elementi aggiuntivi come ad esempio l’approfittamento, da parte dell’imputato, delle condizioni di vita degradata della vittima o la sua minore di età (sez. 3^, 5.2.09, Rv. 243123) il grado di coartazione esercitato sulla vittima e le condizioni, fisiche e mentali, di quest’ultima, le caratteristiche psicologiche, valutate in relazione all’età, l’entità della compressione della libertà sessuale ed il danno arrecato alla vittima anche in termini psichici (Sez. 3^, 29.2.00, Priello della Rotonda, Riv. pen, 2000, 1088; Sez. 3^, 24.3.00, Improta, Cass. pen. 2002, 1427; Sez. 3^, 28.10.03, Cass. pen. 2005, 866).

Alla stregua di tali parametri, non è, dunque, possibile delineare aprioristicamente una categoria generale alla quale ricondurre i "casi di minore gravità", ma l’individuazione di questi ultimi è rimessa, volta per volta, alla discrezionalità del giudice di merito che, nella specie ha, per l’appunto, evidenziato, quanto al M., da esercitarsi con razionale riferimento agli elementi considerati determinanti per la soluzione adottata e con obbligo di puntuale motivazione.

Nella specie, la reiezione della prospettata attenuante è avvenuta con il richiamo alla particolare insidiosità ed odiosità delle condotte poste in essere con "subdola distorsione ed approfittamento" della posizione di terapeuta del M. e, peraltro, la stessa doglianza è generica ed assertiva.

Venendo, infine, al sesto motivo di ricorso, pur dandosi atto di una prosa non particolarmente brillante, si può dire che, nella sua apparente ambiguità, l’asserzione della Corte nella frase citata dall’impugnante non impedisce di comprendere che ciò che si intendeva affermare è che "il più contiene il meno" e che siccome c’era sicuramente l’intenzione di portare a termine una congiunzione, a fortiori ricorreva, sotto il profilo psicologico la volontà di atti diversi che, in sè hanno però già realizzato compiutamente la fattispecie criminosa di cui all’art. 609 bis c.p., posto che, come noto, anche il semplice palpeggiamento, ad esempio, è "atto sessuale". Conseguentemente, si è al cospetto di un reato consumato e non tentato ed è, quindi, corretta l’affermazione dei giudici di secondo grado secondo i quali anche se con condotte "meno pregnanti ma non per questo meno insidiose" indubbiamente gli imputati (e, tra questi, il M.) avevano di mira un "contatto sessuale" che si è consumato perchè è stato "comunque violato il bene tutelato dalla norma" (f. 21 app).

2.4. (ricorso T.) – Onde evitare di incorrere nel rischio di inutili ripetizioni, anche la trattazione del ricorso dell’imputato T. deve avvenire facendo tesoro di tutte le puntualizzazioni fatte ab initio circa l’ambito di cognizione in questa sede di legittimità.

Orbene, in tale ottica, il primo motivo è emblematico di ciò che non deve essere devoluto a questa Corte perchè non investe la logica intranea della sentenza in relazione alla asserita attendibilità ma va a prendere altri dati processuali rielaborandoli in chiave critica nell’auspicio che anche questa S.C. acceda ad una differente interpretazione dei dati processuali. Tra l’altro, si tratta, anche per questo imputato, della reiterazione degli stessi argomenti spesi dinanzi alla Corte d’appello che, però, ha fornito una risposta che si fonda su argomentazioni compatibili con il senso comune e con i limiti di una "plausibile opinabilità di apprezzamento" (tra le ultime, sez. 6^ 17.10.06 ouardass, Rv. 235506); per l’effetto, essa non è più censurabile.

Del resto, a ben vedere, l’unico tema attorno al quale ruota la presunta inattendibilità della p.o. riguarda la discrasia sulla data del ricovero, avvenuto l"8 agosto (come da all. 1 ai ricorso) quando, invece, nella denuncia si dice che i fatti sarebbero avvenuti la sera del 7.

Il punto è, però, che l’obiettiva verificazione dei fatti è fuori discussione perchè le parole della denunciate Ta. sono state confermate dal teste I. e dal marito della vittima, T.G., che ha asserito di aver visto personalmente la nota scritta che la moglie aveva predisposto per il direttore del reparto con la narrazione del fatto che un infermiere addetto alle pulizie l’aveva condotta nel cortile della M. e lì "aveva iniziato a palpeggiarle il seno e baciarle il collo e, malgrado il suo rifiuto, aveva tentato di baciarla sulle labbra".

Per il resto, perchè lo stesso imputato, nel presente gravame (v. t. a ricorso), non mette in discussione il fatto, accertato dai periti che la p.o. potesse deporre e che è altresì pacifico che un giudizio di responsabilità per fatti come quelli in discussione può basarsi anche solo sulle parole della vittima. E’, dunque, evidente che si è al cospetto di mera imprecisione circa la collocazione temporale di un episodio la cui verificazione obiettiva si desume comunque aliunde. E’, quindi, dettaglio marginale e non decisivo che non inficia la complessiva credibilità del racconto della vittima.

Anche il secondo motivo non merita accoglimento perchè anche sul tema della qualifica di incaricato di p.s. dell’imputato T. – ugualmente già proposta in appello -la Corte (f. 20) ha risposto congruamente ribadendo a ragione quanto già asserito dal G.u.p.. A prescindere, infatti, da ciò che risulta formalmente dal documento prodotto dalla difesa (all. 5), quel che conta nel riconoscimento o meno della qualifica, sono le mansioni concretamente svolte (ex muitis. sez. 6^, 7.10.94, campanella, Rv. 200850).

A proposito dell’infermiere T., la Corte ricorda che le acquisizioni testimoniali e documentali hanno attestato con sufficiente evidenza che egli non era addetto a mansioni meramente materiali od esecutive, estranee ad ogni tipo di rapporto con i degenti, bensì lo stesso aveva anche compiti di assistenza e vigilanza sui malati".

Ogni questione sulla procedibilità è, dunque, manifestamente infondata perchè, per facta concludenza, risulta che le mansioni del T. non erano meramente manuali ma anche di assistenza e vigilanza dei degenti, contribuendo, in tal modo concretamente alla finalità del Servizio pubblico (per fattispecie analoga, v. Sez. 6^, 5.3.03, Ruberto, Rv. 224510).

Venendo, infine, al terzo motivo deve osservarsi che la questione relativa alla mancata qualificazione, come tentativo del reato ascritto all’imputato, è manifestamente infondata perchè è fin troppo noto che – come si accennava anche a proposito del sesto motivo di ricorso dell’imputato M. – la nuova formulazione della fattispecie criminosa di cui all’art. 609 bis, con l’uso dell’espressione "atti sessuali", ha inteso sanzionare a titolo di violenza sessuale anche atti diversi dalla congiunzione, quali – come è il caso in esame – un bacio sul collo o dei palpeggiamenti. Già le primissime interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali della disposizione, infatti, sottolineavano che l’espressione in questione – interpretata alla luce della libertà sessuale che è l’interesse protetto dalla fattispecie – comprende tutti quegli atti indirizzati verso zone erogene della vittima e quindi anche i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime (anche sopra i vestiti), suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale dell’autore (sez. in, 25.5.06, rv. 234174). Il delitto contestato al T. era, quindi, pienamente consumato ed il fatto che, nella propria azione, l’agente abbia anche "tentato" di baciare la propria vittima anche sulla bocca costituisce solo una modalità ulteriore della medesima condotta che rimane assorbita in quella già portata a termine.

Nè vale, da ultimo, invocare la riconduzione del fatto nell’ipotesi attenuata dell’art. 609 bis c.p., comma 3, perchè, come già si è detto nel paragrafo che precede (a proposito del quinto motivo svolto dall’imputato M.), non vi è alcun automatismo tra l’assenza di penetrazione e la qualificazione dell’abuso sessuale come fatto di minore gravità dovendosi avere riguardo all’intero contesto (ove le pp.oo sono soggetti menomati e deboli e ricorrono episodi reiterati ed inquietanti) nel quale – come hanno evidenziato i giudici di merito – rileva, tra l’altro, la "insidiosità" dell’azione (ff. 21 e 22 app.).

2.5. (ricorso D.V.) – Il primo motivo svolto dal presente ricorrente pone (rispetto ai precedenti ricorsi) una questione nuova (che si ritroverà anche nel ricorso di R.) afferente il mancato rispetto del rito.

In realtà, la problematica è solo formale ed infondata. La replica dei giudici di merito (f. 26 app.) alla identica questione loro sottoposta è, infatti, corretta. Dal momento che l’art. 551 c.p.p. non specifica il tipo di connessione e, tanto meno, richiama l’art. 12 c.p.p., non vi è ragione di dubitare del fatto che, tra le ipotesi di connessione di cui parla quella norma, rientri anche quella probatoria (sicuramente ricorrente nella specie).

Vi è da soggiungere, in ogni caso che, l’udienza preliminare è stata concepita a maggior garanzia della difesa ed è, quindi, di tutta evidenza che "il più contiene il meno" ed in tal senso si spiega anche la presenza di norme come quella di cui all’art. 33 quater c.p.p. che prevedono la vis atractiva del rito collegiale rispetto a quello monocratico.

Infine, a tutto concedere, si sarebbe trattato di una "violazione" irrilevante posto che tanto le nullità quanto le inutilizzabilità sono tassative e, nella specie, non solo, non risulta esservi alcuna sanzione per il caso in cui non si proceda con citazione diretta ma, anzi, l’art. 33 nonies contiene una clausola di salvezza generale.

Il secondo motivo dell’imputato D.V. incorre nel medesimo difetto, già evidenziato per alcuni ricorsi che precedono, vale a dire, quello di tentare di ottenere da questa S.C. una nuova interpretazione circa la specifica consistenza degli elementi di prova. E’ quasi superfluo, però, a questo punto, ribadire che non possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di ricorso fondati su una diversa prospettazione dei fatti adottata dai ricorrenti nè su altre spiegazioni fornite dalla difesa per quanto plausibili, ma comunque inidonee ad inficiare la decisione di merito.

Diversamente, si finirebbe per accreditare alla Corte di Cassazione dei poteri rivalutativi che, come tali, appartengono alla sola cognizione del giudice di merito.

Ciò che conta, invece, è verificare se, sul punto denunciato dal D.V., il provvedimento impugnato si sia espresso ed abbia fornito una lettura non manifestamente illogica, aderente alle risultanze processuali e, come tale, plausibile.

L’aspetto della credibilità della teste T.E. è stato, in effetti, valutato ed approfondito sia dal G.u.p. che dalla Corte e le ragioni per le quali le sia stata annessa fiducia, nonostante il suo essersi sottratta alla perizia, sono state esplicitate e risultano ragionevoli sì che è fuori luogo cercare di proporre una sorta di equazione in base alla quale l’assenza di perizia corrisponde a non credibilità della teste.

In primis, infatti, si è ricordato (f. 13 app.) che "a seguito di colloquio clinico con il dott. R." è stato "emesso il seguente giudizio: "soggetto in ottimo compenso psichico con critica e giudizio validi, buona consapevolezza di malattia, esame di realtà integro. E’ clinicamente attendibile ed idoneo a sostenere esame testimoniale perchè il patrimonio poetico e le funzioni psichiche e neurocognitive non sono affatto compromesse". Aggiungasi che la dott.ssa F. (psichiatra), con la quale la T. si confidò circa le violenze patite, ha precisato che la donna era una "paziente bipolare e che nel momento in cui le fece quelle confidenze appariva in buono stato di compenso".

Esiste poi, anche una valida spiegazione – riportata da terzi e, quindi, obiettiva – della sua mancata presentazione dinanzi al perito e cioè che (dice sempre la dott.ssa F.) "difficilmente la T. avrebbe riferito all’autorità giudiziaria quanto verificatosi per paura di ritorsioni che avrebbe potuto subire in reparto, in considerazione della possibilità di dovere ricorrere a nuove cure" (f. 14 app).

E’ da respingere anche il terzo motivo che afferisce al trattamento sanzionatorio.

Deve premettersi che, in tema di determinazione della pena, il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale è tanto maggiore quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale (sez. 6^, 12.6.08, Bonarrigo, rv.

241189). Dal momento che, qui, si controverte di una pena orientata verso il minimo, la censura risulta esorbitante ed inappropriata anche in considerazione del fatto che il computo della pena è esplicazione di un potere discrezionale del quale il giudicante deve dare conto al fine di consentire a questa S.C., di esercitare la funzione di controllo che le è propria.

Una volta che, però, si rinvenga una motivazione aderente ai dati processuali e che giunga a conclusioni che non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico, esse non sono censurabili in cassazione.

Nella specie, la Corte ha giustamente avallato l’operato del G.u.p. il quale per una ipotesi delittuosa che, nella sua forma consumata prevede una pena "fino a quattro anni di reclusione", tenuto conto della qualificazione di delitto tentato, ha preso le mosse da una pena base di 2 anni di reclusione e, valutate le attenuanti generiche – dichiarate prevalenti – nonchè la diminuente del rito, ha irrogato una pena di mesi 8 di reclusione che, essendo correttamente motivata e non discontandosi significativamente dal minimo, è qui incensurabile.

E’ infine, del tutto ingiustificata anche la doglianza di cui al quarto motivo posto che, nella sentenza di primo grado, non vi stata condanna "in solido" ed, in quella d’appello, la condanna alle spese è avvenuta espressamente "ciascuno per proprio conto". 2.6. (ricorso R.) – Per il primo motivo del ricorso di tale imputato, non ci si può che rifare a quanto già detto relativamente all’analoga questione posta dal ricorrente D.V. (v. par precedente sub primo motivo). Analogamente deve dirsi per il secondo motivo – che rinnova i dubbi sulla attendibilità della p.o. T. E. (v. par. precedente sub secondo motivo) – nonchè per il quarto e quinto. La tesi secondo cui al R. avrebbe dovuto essere contestato solo il delitto di percosse è stata, infatti, svolta sia dinanzi al primo giudice che in appello ma la replica sul punto è chiara (soprattutto nella sentenza del G.u.p.) quando si fa notare che le percosse sono state solo un mezzo per coartare la resistenza della vittima e farle assumere le medicine. Anche le censure in punto di pena sono destituite di fondamento per ragioni analoghe a quelle già sviluppate trattando della – molto simile – posizione dell’imputato De Vito (v. par. precedente sub terzo motivo) e, per non incorrere in inutili ripetizioni, ci si limita ribadire che una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo, altrimenti, essere sufficienti – a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 c.p. – espressioni del tipo "pena congrua" ("pena equa" o "congruo aumento" ecc), come qui avvenuto (Sez. 2^, 26.6.09, Denaro, Rv. 245596; Sez. 6^, 12.6.08, Bonarrigo, Rv. 241189; Sez. 2^, 19.3.08, Gasparri, Rv. 239754).

Va, invece, accolta la doglianza di cui al terzo motivo per la ragione piuttosto evidente che la sentenza impugnata non può, in questo caso, neppure avvalersi dell’integrazione della decisione di primo grado ove, sul punto denunciato in questo motivo, non si rinviene argomentazione alcuna. Si è, quindi, in presenza di una violazione di legge conseguente alla mancanza di motivazione su un aspetto che non può definirsi marginale e che pertanto, avrebbe meritato maggiore approfondimento da parte della Corte cui la questione era stata posta esplicitamente (come sottolineato dal ricorrente a f 15 del proprio gravame). E’ ben vero che la motivazione del giudice di merito non deve dare conto di tutti gli elementi di prova esaminati, nè replicare pedissequamente a tutte le censure sollevate, ma è anche vero che essa non può eludere quelle questioni che possono assumere un valore anche decisivo ai fini della decisione (non a caso, il ricorrente rammenta l’eventuale operatività della prescrizione o dell’indulto).

In questi termini, pertanto, si impone un annullamento della pronunzia nei confronti dell’imputato R., con rinvio degli atti ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro, per nuovo giudizio alla luce dei rilievi appena mossi.

2.7. (ricorso dei p.g.) – La decisione della Corte d’appello risulta obiettivamente censurabile nella parte in cui affronta, e decide con una assoluzione, la posizione dell’imputata M.A.M., primario, chiamata a rispondere (capo 33) della rubrica), ex art. 40 cpv. (in ragione della propria posizione di garanzia), degli abusi sessuali, maltrattamenti, violenze private e molestie ascritti agli imputati dei quali si è fin qui parlato.

La motivazione dei giudici di secondo grado (che già risultava al limite della sufficienza nella disamina delle posizioni degli altri imputati), è, nella specie, in parte erronea, sostanzialmente assertiva, contraddittoria e totalmente elusiva delle molte e diverse ragioni poste dal G.u.p. alla base della propria decisione di segno opposto.

Si cominci con lo stigmatizzare le affermazioni – inesatte ed inconferenti – dei giudici d’appello secondo le quali "la partecipazione colposa si può configurare unicamente con riguardo ad una fattispecie incriminatrice di parte speciale declinabile anche nella forma colposa … risultando strutturalmente inconcepibile una partecipazione colposa ad un reato contemplato solamente nella forma dolosa" (f. 28).

La frase – non pertinente alla fattispecie in esame – sembra, invero, lasciar intendere due concetti che sono ben lungi dall’essere giusti, e cioè: 1) che l’attribuzione di un fatto per non avere impedito l’evento, avendone l’obbligo giuridico, avviene solo a titolo di colpa; 2) che, pertanto, si può rispondere ex art. 40 cpv. solo di quei delitti per i quali sia prevista dalla norma la possibilità di rispondere a titolo di colpa.

In realtà, se le cose stessero in questi termini, non vi sarebbe nemmeno stato bisogno di proseguire oltre visto che, notoriamente, non esistono violenze sessuali o private, e neanche maltrattamenti, colposi ed il problema sarebbe sussistito solo per la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p..

L’abnormità del concetto e la poca chiarezza con cui la sentenza lo sviluppa ulteriormente (finendo, anzi, per spostare – in maniera poco consequenziale – il discorso sul nesso di causalità – ff. 29/30) impongono di sorvolare e fecalizzare l’attenzione sui due argomenti sui quali la Corte si è sostanzialmente basata per fondare il proprio convincimento di innocenza della M.. Il primo consiste nella asserita assenza di prova del fatto che il primario – prima della denuncia della C. del 2006 – avesse avuto conoscenza dei fatti che ella, nel proprio ruolo, avrebbe dovuto cercare di impedire; il secondo si basa sulla considerazione che, quand’anche la M. fosse intervenuta, non vi è prova che ciò sarebbe stato risolutivo visto che, al contrario, nonostante l’allenamento delle forze dell’ordine (avvenuto dopo la denuncia della C.), determinati comportamenti illeciti avevano continuato a verificarsi.

La prima affermazione è di una genericità imbarazzante (si tratta di mera asserzione a f. 31 secondo cui "la compiuta e certa rappresentazione al primario deve ritenersi risalire esclusivamente alla informazione-denuncia della C.M. alla fine di ottobre del 2006") soprattutto se raffrontata alla pluralità di argomenti addotti dal G.u.p. (ff. 76/79) a sostegno della tesi opposta. Anche a volerli semplicemente elencare, si segnala, infatti, che il primo giudice aveva ricordato: 1) la deposizione della dott.ssa G., con riferimento alla vicenda di S.D.; 2) le dichiarazioni dei congiunti di T.E. ( T. A. e T.B.); 3) le dichiarazioni di P.D. (padre di P.G.); 4) le dichiarazioni del dott. I.; 5) quelle della dott.ssa G., a proposito della vicenda relativa alla p.o. L.; 6) la deposizione della dott.ssa F.; 7) le parole dell’originario coimputato P. F. (anche quelle che risultano dalle intercettazioni); 8) le parole del Capo Dipartimento dott. P.; 9) i rilievi sottoscritti dall’imputata M. sui quaderni degli infermieri.

In altri termini, sono tutte obiettive emergenze evocate, e commentate, dal G.u.p. per sostenere l’affermazione secondo la quale il primario, dott.ssa M., era venuta a conoscenza ben prima (probabilmente, sin dal 2004) delle condotte "anomale", poste in essere – soprattutto dal C. ma anche dal dott. M. – rispetto alla denuncia formale (proposta nell’ottobre 2006) a seguito di quella presentatale da due sanitari che avevano raccolto le doglianze della paziente C..

E’ ben vero che la difesa dell’imputata, nella propria attenta ed ampia memoria, ha controdedotto, punto per punto, in ordine a tutte le circostanze evocate dal G.u.p. ma non deve dimenticarsi neppure che l’oggetto di valutazione di questa S.C. è la sentenza di una Corte d’appello della quale va verificata la motivazione sotto i profili della sussistenza, congruità e logicità.

E’ in quest’ottica, dunque, che non si può non constatare, innanzitutto, che tale sentenza – pur andando di diverso avviso – si è del tutto sottratta al vaglio delle opposte argomentazioni della decisione di primo grado discostandosi dalle sue conclusioni sulla base della semplice affermazione (indimostrata) che la dott.ssa M. non era stata in condizione di venire a conoscenza delle disinvolte condotte del C. ovvero delle reiterate avances sessuali del dott. M. (solo per citare gli imputati principali, autori del maggior numero di violazioni accertate).

Per contro, stando a quanto riportato nella decisione di primo grado – e non confutato dalla opposta statuizione d’appello – solo per esemplificare, è tanto vero che la dott.ssa M. era stata informata (dalla dott.ssa G.) delle lamentele di S. D. (a proposito del comportamento del dott. M.) che convocò quest’ultimo nel proprio ufficio; analogamente, risulta essere in atti la dichiarazione di T.B. secondo cui, alle doglianze della sorella, T.E., (per essere stata picchiata ed aver subito delle avances), la dott.ssa M. aveva replicato " è lei che li va a cercare quando non sta bene". Di tono analogo (come si apprende dagli atti processuali richiamati nella sentenza del G.u.p.) erano stati la risposta della M. ("nei reparto funziona così") al fratello della T., A., (che si era lamentato della eccessiva "promiscuità uomini/donne" del reparto di psichiatria) ovvero il rimprovero che (come riferito dal padre della P.) ella aveva rivolto a P.G. ("sei venuta qua per curarti o per creare problemi?") quando quella paziente aveva denunciato di aver subito un abuso sessuale che, però, l’imputata aveva definito "fantasie della ragazza".

L’elencazione di dati processuali dai quali evincere che l’imputata M. aveva avuto più di una occasione per dubitare della regolarità di quanto avveniva nel reparto di psichiatria, (sia in termini di maltrattamenti dei pazienti che di iniziative a sfondo sessuale), potrebbe continuare ma sarebbe meramente replicativa della decisione di primo grado. Quello che, invece, qui preme evidenziare è la totale assenza, nella decisione di appello, di argomenti che, ribattendo su questi ed altri mezzi di prova, spieghino per quale ragione sia stato, invece, possibile asserire la "ingenuità" della M..

Il tutto stride anche con un altro dato obiettivo riscontrabile proprio dalla lettura delle decisione impugnata e, cioè, che quando in essa si è trattato di ribadire la condanna degli altri imputati, tutte le deposizioni delle pp.oo., sono state ritenute pienamente attendibili. Per contro – quando si è trattato di considerare (anche) le parole di quelle stesse persone offese per dimostrare che il primario era stato portato a conoscenza (quantomeno) di alcuni episodi ancor prima della denuncia della C. – esse diventano, per lo meno, irrilevanti (se non proprio inattendibili). Tale contraddittorietà, intrinseca alla decisione, riverbera negativamente solo sulla parte motivazionale riguardante la M. perchè immotivata (ove, invece, la attendibilità delle pp.oo è stata sostenuta da argomenti obiettivi – come richiamato ed illustrato in precedenza).

Il tutto senza tralasciare di osservare, poi, che, come si accennava, a carico della dott.ssa M. figurano esservi anche precise dichiarazioni di suoi colleghi che configgono con la tesi sostenuta dai giudici di appello.

Basti per tutti ricordare (sulla base di quello che dice la sentenza di primo grado) il fatto che la dott.ssa F. ha riferito di avere "istruito … di nascosto" (f. 78) il caso della presunta violenza sessuale in danno di B.L. "informando il primario solo successivamente, per timore che la stessa potesse osteggiare la sua scelta di allertare le forze dell’ordine, visto che in generale il suo approccio era quello di non sollevare questioni nel suo reparto".

Non è compito di questa S.C. nè esprimersi sulla valenza accusatoria delle affermazioni, appena riportate, della teste F. nè commentare le risposte (obiettivamente) minimizzatrici o banalizzanti che la M. ebbe a dare ai sigg.ri T. e P. di cui si è riferito in precedenza. Certo è, però, che la stessa memoria difensiva svolta in questa sede per la dott.ssa M. – pur operando una molteplicità di precisazioni e distinguo per la gran parte delle posizioni di altre persone offese – non nega esservi stata, da parte della propria assistita, una conoscenza di alcuni fatti (e magari della "negligenza" – f 20)) già antecedentemente alla denuncia della C..

Risulta, pertanto, inspiegabile ed immotivata la diversa asserzione, sul punto, della Corte.

Quest’ultima, poi, persevera nell’errore quando sostiene che, anche ammesso che la dott.ssa M. avesse "saputo" e fosse intervenuta, la cosa non avrebbe avuto nessun rilievo perchè non avrebbe potuto impedire eventi che si sono addirittura verificati dopo l’intervento delle Forze dell’Ordine. Di qui, l’esclusione di ogni responsabilità a carico dell’imputata.

L’argomento, per così dire, "prova troppo" ed elude il problema sostanziale ed il dato indiscutibile che la M. si è attivata ufficialmente solo dopo aver ricevuto, da due medici, una denuncia scritta circa quanto appreso dalla paziente C. a fronte del fatto che – sulla base di tutto quanto appena detto – esiste la concreta eventualità, in fatto, che ella fosse già stata già informata in precedenza.

La sua inerzia, perciò, – se non adeguatamente smentita – non può essere valutata in termini penalmente irrilevanti con un ragionamento a posteriori.

Visto che qui si sta discettando della potenziale responsabilità di una persona che, per la carica ricoperta, aveva sicuramente una funzione di garanzia (punto non discusso che è stato correttamente illustrato – anche per quel che attiene alle fonti normative di tale posizione – a f. 75 della sentenza di primo grado), è, dunque, preliminare, ed essenziale, chiarire se – a prescindere da considerazioni connesse con fatti successivi – ella abbia o meno onorato il proprio ruolo attivandosi per la parte che le competeva.

E’, dunque, erroneo "sorvolare" sulla questione limitandosi, per un verso, a sostenere in maniera del tutto assertiva che la M. "non sapeva" e soggiungere, poi, che, quand’anche fosse stata informata ed avesse assunto qualche iniziativa, non sarebbe valso ad impedire gli eventi delittuosi.

Affrontare il tema dell’ottemperanza, da parte dell’imputata M. dei propri doveri istituzionali annettendo al suo intervento un valore "risolutivo e salvifico" è, infatti, sbagliato perchè si finisce per arricchire la disposizione di un contenuto non previsto e non richiesto.

Con l’art. 40 cpv c.p., infatti, il legislatore ha inteso sollecitare il senso di responsabilità dei soggetti che, per la carica ricoperta, sono investiti di un ruolo di garanzia ed ha, pertanto, annesso una precisa responsabilità – a titolo di causazione per omissione – al mancato esercizio delle prerogative di loro spettanza.

In tal modo, perciò, la norma ha semplicemente puntato ad assicurare che chi vi è preposto faccia il proprio dovere per la parte di competenza e nell’ambito delle proprie spettanze, per impedire il verificarsi di determinati eventi illeciti.

Del resto, a prescindere dal fatto che – come sottolineato in precedenza richiamando per brevità quanto indicato a f. 75 della sentenza di primo grado – nella specie, il ruolo di garanzia della ricorrente affondava chiaramente le proprie radici in precise disposizioni di legge, deve dirsi che il senso stesso della "posizione di garanzia" si sostanzia proprio in una valorizzazione del senso di responsabilità ai fini della garanzia dei valori fondamentali. Così, infatti, ebbe a sottolineare una decisione di questa S.C. (sez. 4^, 6.12.90, Rv. 191792) – non molto recente ma sicuramente attuale per il principio enunciato – secondo cui sotto un profilo di carattere generale, la norma dell’art, 40 cpv. c.p. "deve essere interpretata in termini solidaristici, avendo presenti le norme degli artt. 2, 32, art. 41 Cost., comma 2". In altri termini, non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo perchè: in base, all’art. 2 Cost., esiste un dovere di rispetto della persona umana, in base all’art. 32, ricorre un diritto alla salute ed alla integrità psicofisica e l’art. 41, comma 2, vuole che l’iniziativa economica non si svolga in contrasto con l’utilità sociale.

Basterebbe, dunque, tener presente detto principio "solidaristico", con precipuo richiamo agli artt. 2 e 32 Cost., per comprendere come il primario di ospedale abbia la responsabilità dei malati nel senso più ampio del termine. Se, quindi, egli ha fondato motivo di dubitare che qualcosa (0 qualcuno) nel funzionamento dei reparti, crea disservizi che incidono in modo significativo sul benessere fisio-psichico dei degenti è suo preciso dovere attivarsi per impedire il verificarsi di eventi lesivi che, se penalmente rilevanti, gli possono – appunto – essere ascritti ex art. 40 c.p., comma 2, (ricorrendone ovviamente altri presupposti di cui si dirà a breve).

In altri termini, ciò che, per il momento preme ribadire è che, comunque, alla posizione di garanzia corrisponde un obbligo giuridico di attivazione per evitare il verificarsi di eventi illeciti;

l’assoluzione di tale dovere pone al riparo da responsabilità anche nella denegata ipotesi che l’evento lesivo si verifichi ugualmente per ragioni indipendenti dall’operato del preposto.

E’ quindi, fuorviante, da parte dei giudici di appello, argomentare l’assenza di responsabilità della dott.ssa M. sulla base del rilievo che si verificarono ulteriori episodi criminosi anche dopo che ella aveva coinvolto le autorità giudiziarie (inoltrando la denuncia della C.) ed avevano preso il via delle investigazioni.

Il punto è, infatti, che ciò di cui si discute è, proprio, la tempestività della segnalazione alle Forze dell’Ordine.

L’ipotesi accusatoria ruota attorno al concetto che, già dal 2004, nel reparto di psichiatria (ove operavano l’infermiere C., il dott. M. e gli altri odierni imputati, erano Stati segnalati episodi, a dir poco, inquietanti circa attenzioni sessuali verso le pazienti o loro maltrattamenti e tali fatti erano stati portati a conoscenza della dott.ssa M. che, però, non aveva assunto alcuna iniziativa.

Come appena visto, la Corte d’appello ha negato che ciò fosse vero senza però fornire alcuna giustificazione di tale convincimento e, soprattutto, senza smentire le differenti conclusioni del G.u.p., pur ampiamente argomentate. Sicuramente dettagliate sono anche le osservazioni della memoria difensiva presentata nell’interesse dell’imputata M. ma questa S.C. finirebbe per esorbitare dai margini della propria competenza se si lasciasse coinvolgere in una disamina dettagliata delle opposte ragioni perchè, per il principio della intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio, questo è, per l’appunto, il compito del giudice di merito e, nella specie, la Corte d’appello vi si è sottratta o non l’ha onorato correttamente.

Ciò vale, infatti, anche per la parte in cui ha affrontato il tema dell’elemento psichico che deve sostenere l’addebito di responsabilità del titolare della posizione di garanzia.

Erroneamente la Corte assume non essere condivisibile il giudizio del G.u.p. secondo cui "ai fini dell’integrazione dell’elemento psicologico, in tema di reati omissivi impropri, il relativo grado di consapevolezza non deve coincidere con lo stato d’animo di volere i fatti, bensì con la coscienza che il proprio mancato intervento contribuisce al protrarsi del fatto commissivo illecito altrui" (f.

30 app.).

In realtà il principio è del tutto corretto perchè, nel valutare l’elemento soggettivo dell’agente responsabile ex art. 40 cpv. c.p., non si deve incorrere nel rischio di confondere la coscienza e volontà, da parte del preposto, della propria posizione di garanzia nonchè della omissione della condotta doverosa (con conseguente anche semplice accettazione del rischio che, da tale omissione, derivi come conseguenza la commissione di altrui illeciti) e la coscienza e volontà (da parte di altro soggetto) del delitto che questi commette e che, poi, viene ascritto anche al responsabile, per il suo omesso intervento.

L’interpretazione giurisprudenziale data più volte alla disposizione è, infatti, chiara nel ritenere sufficiente, sul piano soggettivo, la generica consapevolezza che – ad esempio, in tema di reati societari – l’amministratore di fatto ponga in essere condotte integranti il reato di bancarotta (sez. v, 24.6.99, Murra, Rv.

214301) e la possibilità che ricorra anche solo il dolo eventuale (Sez. v, 19.6.08, Prandein, Rv. 242020, (Sez. 5^, 10.2.09, cacippo, Rv. 243023); sotto il profilo della rappresentazione dell’evento, è richiesto che esso potesse essere desunto da "segnali perspicui & peculiari" (sez. 5^, 10.2.09, cacippo, cit).

In altri termini, l’art. 40, comma 2, non ascrive fa responsabilità omissiva a titolo oggettivo ma, al contempo, non richiede neppure che l’atteggiamento psichico del soggetto che si sottrae ai doveri (che il suo ruolo di garanzia gli imponevano) coincida con quello dell’agente che pone in essere i reati che il preposto, aveva il dovere giuridico di impedire. In altre parole, il dolo o la colpa del garante hanno ad oggetto la condotta omissione e non certo il diverso delitto che il terzo potrà commettere in conseguenza della sua inerzia.

In ogni caso, deve anche ricordarsi che, per l’art. 40 cpv, il legislatore non ha richiesto un atteggiamento psichico specifico che può, quindi, consistere anche, come sopra detto, semplicemente in un dolo eventuale o nella colpa (ove il reato commesso sia punibile a tale titolo).

A tale stregua, il principio cui si è ispirato il G.u.p. nella valutazione del caso in esame è stato ingiustamente criticato dalla Corte che, sul punto, denota una certa confusione espositiva che si risolve (v. f. 31) nella evocazione, per un verso, della "assoluta peculiarità delle condotte illecite poste in essere dagli imputati" e, dall’altro, nella formulazione di principi generali (che distinguono tra dolo eventuale e colpa) concludendo, poi, con una asserzione, dalla prosa alquanto contorta di difficile intelligibilità, secondo cui non si sarebbe raggiunta, nella specie la "dimostrazione di un conseguito effettivo, completo ed efficace ragguaglio circa l’evento oggetto del doveroso impedimento".

Se ben inteso, il senso di tale affermazione sembra essere proprio quello che non si sia stato dimostrato che la dott.ssa M. è stata in grado di prospettarsi il rischio che propri sottoposti (infermieri o medici) abusassero dei propri poteri al punto da infliggere maltrattamenti o abusare sessualmente dei degenti.

Ancora una volta, però, l’assunto è meramente affermato e, non solo, è privo di qualsivoglia indicazione di dati processuali sui quali basarsi ma, per di più, si sottrae al confronto con la diversa affermazione del G.u.p. che, per contro, aveva motivato il proprio convincimento su precise emergenze processuali dalle quali inferire il convincimento che il primario, dott.ssa M., aveva avuto – già prima del 2006 – più di una segnalazione di gravi anomalie comportamentali (nei confronti delle degenti) da parte di persone precisamente individuate (come C. e M.) e, ciò nonostante, era rimasto inerte e non aveva preso alcuna iniziativa nè organizzativa nè, ancor meno, disciplinare.

In una recente decisione di questa S.C. (Sez. 5^, 4.5.07, p.m. in proc. Amato, Rv. 237251) è stato significativamente detto che, per l’affermazione della responsabilità penale ai sensi dell’art. 40 cpv., è richiesta "la dimostrazione, da parte dell’accusa, della presenza (e della percezione da parte degli imputati) di segnali perspicui e peculiari in relazione all’evento illecito nonchè l’accertamento del grado di anormalità di questi sintomi".

Orbene, è quasi superfluo ribadire che – a fronte di una argomentata motivazione della prima decisione ove si è ritenuto di ravvisare che l’accusa avesse dato prova della esistenza di tali segnali "perspicui e peculiari" – la questione è stata del tutto pretermessa dai giudici di appello i quali, per di più, sono criticabili nella loro decisione per la parte in cui evocano una "evidente, autonomia, atipicità ed anzi eccezionalità dei fatti delittuosi commessi dagli altri imputati (f 31).

Non è, infatti, dato comprendere quale sia il parametro di riferimento cui si sono rifatti i giudici visto che la responsabilità omissiva impropria sussiste genericamente per qualsiasi delitto mentre il ragionamento della Corte sembra muovere dall'(erroneo) presupposto che la responsabilità del titolare della posizione di garanzia scatti solo rispetto a condotte delittuose, per cosi dire, "omologhe" rispetto alle mansioni svolte dalla persona controllata.

In ogni caso, l’argomento della "atipicità" ed "eccezionalità" avrebbe potuto essere speso solo per dimostrare – sulla base di precisi dati processuali – che l’anomalia dei comportamenti delittuosi degli altri imputati era stata tale da rendere del tutto imprevedibile, da parte della dott.ssa M., il rischio della loro commissione. La qual cosa, nella specie, è ben lungi dall’essere affermabile stando anche solo alla pluralità di argomenti – di segno opposto – spesi, per un verso, nella sentenza di primo grado e, per altro verso, nella memoria difensiva dell’imputata M. (ad implicita conferma dei fatto che il tema è controverso ed avrebbe meritato di essere trattato funditus). Di certo, poi, non si può parlare di "atipicità" ed "imprevedibilità" per la pluralità degli autori materiali dei delitti commessi visto che la cosa, per lo meno con riguardo a C. e M., non sarebbe affermabile stante la pluralità di violazioni ad essi ascritte.

Il punto è, invero, sempre rappresentato dalla dimostrazione – non offerta dalla Corte – della totale "ingenuità" della M. cui nulla si dovrebbe poter addebitare in termini di responsabilità omissiva perchè nulla, nemmeno il più piccolo segnale, era giunto alle sue orecchie circa presunti abusi anche di ordine sessuale verificatisi all’interno dell’ospedale di cui era responsabile.

Per tutto quanto detto in precedenza, ciò è difficilmente sostenibile e la Corte, per smentire il diverso assunto del G.u.p., avrebbe dovuto spendersi in una motivazione decisamente più accurata e puntuale che, invece, è qui mancata quasi del tutto.

Non è, infine, convincente, si ribadisce, l’argomento "a posteriorì per il quale, quand’anche attivatasi, la dott.ssa M. non avrebbe potuto impedire il vendicarsi di nuovi eventi delittuosi perchè, a tale scopo, non era valso neppure l’avvio dell’inchiesta giudiziaria (successivamente alla denuncia dell’ottobre 2006).

L’art. 40 cpv, postula che chi ha un dovere giuridico di impedire il verificarsi di eventi penalmente rilevanti deve ottemperarlo facendo tutto quanto è in proprio potere.

Nella cd. equivalenza causale, la fattispecie è completa quando si realizza l’evento del reato che il preposto aveva l’obbligo giuridico di impedire e per la cui prevenzione egli non ha fatto nulla (o nulla di significativo), pur essendo stato in condizione di prospettarsi anche solo il rischio del verificarsi dell’illecito, pur essendo consapevole delle proprie prerogative funzionali e pur avendo la possibilità di fare qualcosa, nell’ambito delle proprie competenze.

Non è però vero (come sostiene al Corte) che se – nonostante la diligente attivazione di chi di competenza per evitare l’evento delittuoso – esso si verifica ugualmente, è lecito concludere che, in realtà, non vi sarebbe stato alcun obbligo di intervento perchè superfluo. Portando il ragionamento alle estreme conseguenze, si dovrebbe arrivare a negare lo stesso principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale in tutti quei casi nei quali, nonostante la sua attivazione il delitto non è stato impedito.

In realtà tutto questo modo di ragionare è errato perchè paradossale ed avulso dal concreto come è – appunto – la motivazione della Corte d’appello nella parte in cui esamina la posizione dell’imputata M.. Mentre, infatti, la conformità del decisum con quella di primo grado aveva permesso – nel trattare la posizione degli altri imputati -di integrare la motivazione (talvolta generica ed incompleta) con quella del G.u.p., avallando, quindi, le conclusioni perche adeguatamente riscontrate dai dati processuali evidenziati nella prima sentenza, la direzione diametralmente opposta presa dai giudici di secondo grado, quanto alla M., ne ha messo a nudo la genericità, gravi lacune motivazionali e, persino, l’erroneità di alcuni principi sui quali essa si è fondata.

La qual cosa, impone un annullamento della decisione impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro, per nuovo giudizio alla luce di tutti i rilievi fin qui mossi.

Alla reiezione dei rispettivi ricorsi, segue, invece, per legge, la condanna dei ricorrenti M., D.V. e T. al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Visti gli artt. 637 e ss. c.p.p., annulla senza rinvio la sentenza impugnata, nei confronti di C.D., limitatamente al capo 9), perchè il fatto non sussiste ed elimina, la relativa pena, infettagli a titolo di continuazione, di mesi 2 di reclusione;

rigetta il ricorso nel resto;

annulla la sentenza impugnata, nei confronti di M.M. A. e R.V., con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro, per nuovo giudizio;

rigetta i ricorsi di M.G., D.V.P. e T. A. che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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