Cass. civ. Sez. III, Sent., 05-04-2012, n. 5533 CE Formazione professionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p. 1. La Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero della Salute, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze hanno proposto ricorso per cassazione contro D.C.G. e C.B. avverso la sentenza del 14 settembre 2010, con la quale la Corte d’Appello di Salerno, provvedendo sull’appello principale degli intimati (riunito ad altro appello principale di G.E., non più coinvolto nel presente giudizio di cassazione), in parziale riforma della sentenza resa primo grado inter partes dal Tribunale di Salerno, ha condannato solidalmente le dette Amministrazioni al pagamento della somma di Euro 65.767,64 in parte a titolo di remunerazione per due anni di frequenza dei relativi corsi di specializzazione medica a titolo di risarcimento del danno per la mancata percezione della remunerazione che sarebbe loro spettata qualora lo Stato avesse attuato le direttive comunitarie CEE 75/362/CEE e 82/76/CEE, rimaste inadempiute a far tempo dal 31 dicembre 1982, ed in parte per la perdita, sempre in ragione del detto inadempimento, della chance di conseguire all’esito del corso di specializzazione un diploma idoneo al riconoscimento in ambito comunitario. p. 2. Al ricorso, che propone quattro motivi, gli intimati hanno resistito con controricorso, nel quale hanno proposto ricorso incidentale basato su tre motivi. p. 3. Le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

p. 1. Preliminarmente si rileva che il ricorso incidentale proposto in seno a quello principale va trattato unitamente a quest’ultimo. p. 1.1. Sempre in via preliminare va rilevato che nè il ricorso principale nè quello incidentale sono stati proposti e notificati ad G.E. e a A.V., nei confronti dei quali risulta pure pronunciata la sentenza impugnata. Detti soggetti avevano proposto domanda in primo grado facendo valere pretese analoghe a quelle dei qui resistenti e l’ A. era rimasto contumace nel giudizio sugli appelli riuniti proposti rispettivamente dai resistenti e dal G..

Essendo le domande proposte da ciascuno dei medici collegate secondo un nesso litisconsortile iniziale facoltativo ed essendo rimasto scindibile in sede di gravame il litisconsorzio, la notifica si sarebbe dovuta fare ai sensi dell’art. 332 c.p.c. Peraltro, non occorre provvedere più a quanto prevede tale norma, giacchè risulta ormai preclusa l’impugnazione da parte dei medici pretermessi sia dalla notifica del ricorso principale che di quello incidentale. p. 2. Con il primo motivo del ricorso principale si fa valere "violazione e falsa applicazione D.Lgs. n. 257 del 1991, Direttive 82/76, 93/16, 362/75; artt. 2935, 2943 cod. civ., Art. 360 c.p.c., n. 3".

Vi si censura la sentenza impugnata per avere – una volta ritenuto, in applicazione del principio di diritto affermato da Cass. sez. un. n. 9147 del 2009, che le pretese dei medici specializzandi fossero soggette ad un termine decennale di prescrizione – che tale termine decorresse dalla sentenza della Corte di Giustizia CE del 25 febbraio 1999, resa sulla causa C-135/97 (Carbonari).

Con il secondo motivo si denuncia "violazione D.Lgs. n. 257 del 1991 L. n. 370 del 1999; art. 2043 cod. civ. Direttiva CEE 82/76, 93/16;

vizio di motivazione. Art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5".

Vi si censura la motivazione gradatamente esposta dalla sentenza impugnata circa l’ipotesi alternativa della decorrenza del termine di prescrizione decennale dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991 e riguardo ad essa si critica l’affermazione del carattere decennale della prescrizione, assumendosi che non sarebbe condivisibile il principio di diritto in tal senso affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 9147 del 2009 nel presupposto della riconducibilità della pretesa dei medici ad un obbligo risarcitorio dello Stato derivante da atto lecito e non da illecito sul paino dell’ordinamento interno. La prescrizione applicabile all’azione risarcitoria sarebbe quella quinquennale, in quanto la pretesa dei medici sarebbe riconducibile ad un illecito aquiliano. p. 3. Il primo motivo ed il secondo motivo del ricorso principale possono essere trattati congiuntamente per la loro stretta interdipendenza.

Il primo è fondato ma inidoneo a giustificare la cassazione della sentenza.

Il secondo è infondato. p. 3.1. Prima di darne conto della loro infondatezza va considerata l’eccezione di inammissibilità alla stregua dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1 prospettata dai resistenti con riferimento al ricorso nella sua interezza.

Riguardo al primo motivo, concernendo esso il dies a quo del termine prescrizionale delle pretese di cui è processo va rilevato che al momento della proposizione del ricorso su questa questione non risultava una presa di posizione della giurisprudenza della Corte dopo la qualificazione dell’azione prospettata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9147 del 2009.

Rispetto al secondo motivo l’inammissibilità non sussiste.

La sollecitazione a rivedere la qualificazione dell’azione data dalla sentenza delle Sezioni Unite, che si concreta in rilievi direttamente svolti rispetto al suo argomentare, andava evidentemente intesa nel senso di auspicare una rimessione del ricorso ad esse perchè valutassero se procedervi. In sostanza, se il motivo avesse offerto elementi che avessero indotto a dubitare dell’orientamento delle Sezioni Unite e questa Sezione se ne fosse convinta si sarebbe dovuto provvedere nei sensi di cui all’art. 374 c.p.c., comma 3.

Peraltro, non occorre nella specie prendere posizione sul se il motivo fornisse elementi per un’eventuale sollecitazione delle Sezioni Unite a rimeditare il principio di diritto da Esse enunciato, perchè, successivamente alla proposizione del ricorso, quel principio di diritto si è consolidato con le sentenze (sostanzialmente gemelle) di questa Sezione nn. 10813,10814, 10815 e 10816 del 2011.

In tali sentenze questa Sezione, dopo avere ribadito la qualificazione proposta dalle Sezioni Unite, si è fatta carico del problema di individuazione del dies a quo ed ha affermato una serie di principi di diritto, che ha successivamente ribadito con le altre sentenze pronunciate su questioni simili nella stessa udienza del 18 aprile 2011 e depositate successivamente ad esse, nonchè in ulteriori decisioni pronunciate all’esito di udienze successive.

In particolare, nelle dette decisioni si è anzitutto inteso dare continuità all’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte circa la natura dell’azione esercitata per pretese come quella del ricorrente e circa il termine di prescrizione applicabile. Tale insegnamento si è espresso – va ricordato – nel seguente principio di diritto: In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, non autoesecutive, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi) sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto – anche a prescindere dall’esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria – allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all’adempimento di una obbligazione ex lege riconducibile all’area della responsabilità contrattuale, all’ordinario termine decennale di prescrizione.

Le citate sentenze gemelle, facendosi carico delle critiche rivolte alle Sezioni Unite quanto a detta qualificazione, hanno precisato che il concetto di responsabilità contrattuale è stato usato dalle Sezioni Unite palesemente nel senso non già di responsabilità che suppone un contratto, ma nel senso – comune alla dottrina in contrapposizione all’obbligazione da illecito extracontrattuale – di responsabilità che nasce dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, considerato dall’ordinamento interno, per come esso deve atteggiarsi secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, come fonte dell’obbligo risarcitorio, secondo la prospettiva scritta nell’art. 1173 c.c.. p. 3.2. In secondo luogo, sulla base di un’ampia ricognizione dell’evoluzione della giurisprudenza comunitaria a partire dalla invocata sentenza sul caso Emmott (ivi compresa quella sulla causa C- 445/06, considerata dalla sentenza impugnata come determinativa del suo superamento) si sono affermati i seguenti principi di diritto: la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in tema di azione risarcitoria di diritto interno, da inadempimento di direttiva sufficientemente specifica nell’attribuire ai singoli diritti, ma non self-executing, evidenzia conclusioni certe nel senso: a) la regolamentazione delle modalità, anche quoad termini di decadenza o prescrizione, dell’azione risarcitoria da inadempimento di direttiva attributiva di diritti ai singoli compete agli ordinamenti interni;

b) in mancanza di apposita disciplina da parte degli Stati membri, che dev’essere ispirata ai principi di equivalenza ed effettività, il giudice nazionale può ricercare analogicamente la regolamentazione dell’azione, ivi compresi eventuali termini di decadenza o prescrizione, in discipline di azioni già regolate dall’ordinamento, purchè esse rispettino i principi suddetti e, particolarmente, non rendano impossibile o eccessivamente gravosa l’azione; c) l’applicazione di un termine di prescrizione che così ne risulti, cioè che derivi dal riferimento che il giudice nazionale fa ad una disciplina interna regolamentante altra azione, è possibile comunque solo se essa può considerarsi sufficientemente prevedibile da parte dei soggetti interessati, dovendo, dunque, il giudice nazionale procedere necessariamente a tale apprezzamento; d) l’eventuale termine di prescrizione può decorrere anche prima della corretta trasposizione della direttiva nell’ordinamento nazionale, se il danno, anche solo in parte (è questo il significato del riferimento ai primi effetti lesivi contenuto nella sentenza nella sentenza Danske Slagterier) per questo soggetto si è verificato anteriormente; e) l’applicazione del termine di prescrizione decennale, della quale sopra si è data giustificazione, ove sia apprezzata sotto il profilo della prevedibilità da parte dei soggetti interessati, appare prevedibile, tenuto conto che il termine di prescrizione decennale (di cui all’art. 2946 c.c.) è quello generale e certamente più favorevole rispetto ai termini speciali, più brevi. Risponde, quindi, al principio comunitario di effettività. p. 3.3. Dev’essere, poi, rilevato che questa Corte, con la sentenza n. 17868 del 2011, deliberata sempre nella udienza del 18 aprile 2011 e depositata il 31 agosto successivo, ha precisato, altresì, che la ricostruzione dello stato della giurisprudenza comunitaria fatta dalle citate sentenze gemelle risultava conforme a quanto, successivamente al loro deposito, aveva deliberato la Corte di Giustizia con la sentenza 19 maggio 2011, resa sulla causa C-452, su un rinvio pregiudiziale operato dal Tribunale di Firenze (e considerato dalla dette sentenze, le quali avevano escluso, invece, ch’esso fosse necessario ed erano state, peraltro, depositate senza che le parti avessero fatto presente l’imminenza della discussione davanti a quella Corte il 19 maggio 2011 ed in situazione nella quale nel sito della Corte di Giustizia non risultava all’epoca della camera di consiglio e del deposito delle decisioni la calendarizzazione dell’udienza).

A sua volta Cass. n. 25993 del 2011 ha precisato, scrutinando eccezione della difesa erariale in analoga controversia che è infondato l’assunto (adombrato anche da parte della dottrina) secondo cui la citata sentenza comunitaria avrebbe contraddetto le argomentazioni della giurisprudenza inaugurata dalle sentenze gemelle: la sentenza comunitaria si è occupata, infatti, solo di ribadire che cosa la giurisprudenza comunitaria dispone in punto di obblighi del legislatore degli Stati membri in punto di applicazione di regime prescrizionali o decadenziali che interferiscano sulle pretese basate sul diritto comunitario rimasto inadempiuto. E lo ha fatto ribadendo i risultati esegetici cui erano pervenute le sentenze gemelle.

Queste ultime (sono sempre considerazioni di Cass. n. 25993 del 2011) hanno, poi, ricostruito il regime prescrizionale della pretesa risarcitoria sulla base del diritto interno, sul quale la giurisprudenza comunitaria anche nell’ultima decisione non si è espressa in alcun modo, esulando il problema dalla sua giurisdizione, che pertiene – com’è noto – solo alla individuazione della compatibilità del diritto interno con l’ordinamento comunitario. Ed è palese che nella specie la ricostruzione operata dalle sentenze gemelle del regime interno di prescrizione dell’azione come individuata dalle Sezioni Unite non si pone in alcun modo in contrasto con il diritto comunitario, del quale è anzi diretta a preservare l’osservanza da parte del nostro ordinamento ed a garantirne massimamente l’effettività.

Sempre la sentenza da ultimo citata ha discusso l’ulteriore eccezione della difesa erariale che adombrava un contrasto della qualificazione dell’azione – operata dalle Sezioni Unite e ribadita, anche con gli argomenti esplicativi sopra ricordati, dalle sentenze gemelle – con una inesistente qualificazione in termini di illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c. che sarebbe stata operata dalla giurisprudenza comunitaria. L’assunto è stato considerato privo di fondamento sul rilievo che non si comprende come il riferimento delle detta giurisprudenza all’obbligo statuale di risarcimento del danno possa essere inteso in ambito di ordinamento interno come una scelta a favore di una certa qualificazione normativa, quale quella della lex aquilia, piuttosto che di un’altra. L’individuazione della collocazione nel diritto interno dell’azione risarcitoria compete, infatti, ai giudici di diritto interno sulla base della normativa vigente oppure al legislatore, che bene può disciplinare specificamene l’azione. Dopo di che il problema, in termini di rispetto del diritto comunitario, è solo quello del se la disciplina ritenuta applicabile dal giudice interno o individuata dal legislatore consenta il ristoro dell’obbligo risarcitorio previsto dal diritto comunitario in nuce con la sentenza Francovich e, come adombrato dalle sentenze gemelle, in realtà definito soltanto dalla sentenza sul caso Brasserie du Pescheur.

Per tali ragioni la citata Cass. n. 25993 del 2011 ritenne priva di fondamento la richiesta di reinvestire le Sezioni Unite della questione (e ciò non senza avere osservato che la richiesta era disciplinata dagli artt. 374 e 376 c.p.c. ed andava rivolta al Primo Presidente).

Ancora meno fondata venne ritenuta la richiesta stessa in quanto basate sul rilievo che due sentenze del Tribunale di Roma non si sarebbero conformate "sulla base di un approfondito excursus della giurisprudenza comunitaria" alla giurisprudenza inaugurata dalle sentenze gemelle: al riguardo questa sezione ritenne – sempre nella citata sentenza -sufficiente rimandare alla lettura dell’art. 65 dell’Ordinamento Giudiziario.

In fine non si mancò di rilevare che le sentenze gemelle si erano fatte carico della giurisprudenza delle sezioni Semplici successiva alla sentenza delle Sezioni Unite. p. 3.4. Ora, il problema della individuazione del dies a quo del termine prescrizionale dell’azione qualificata nei sopra ricordati termini nelle citate sentenze gemelle era stato risolto da esse con l’affermazione del seguente principio di diritto: il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, insorto a favore dei soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica negli anni dal 1 gennaio 1983 all’anno accademico 1990-1991 in condizioni tali che se detta direttiva fosse stata adempiuta avrebbero acquisito i diritti da essa previsti, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, art. 11.

Successivamente, questa Corte con la citata sentenza n. 25993 del 2011 ed anche con quella di poco anteriore n. 24816 del 2011, a precisazione del riportato principio ha, altresì, chiarito che esso è applicabile anche agli specializzandi che, avendo iniziato il corso di specializzazione in anni fino all’anno accademico 1990-1991, non potevano vedere la loro situazione disciplinata dal D.Lgs. n. 257 del 1991, ancorchè parte del corso fosse stato seguito sotto la sua vigenza. Infatti, ai sensi dell’art. 8, comma 2, di tale D.Lgs. le disposizioni di cui all’art. 6 di esso, che aveva attuato tardivamente il diritto comunitario in parte qua le disposizioni del decreto si applicavano a decorrere dall’anno accademico 1991-92, il che comportava che esse fossero applicabili soltanto agli specializzandi che avessero iniziato il corso di specializzazione a decorrere dall’anno accademico de quo e non anche, sia pure per il periodo successivo all’entrata in vigore del D.Lgs., a coloro che avessero iniziato la specializzazione prima di quell’anno accademico e non l’avessero ancora terminata. In pratica, si è osservato nelle dette sentenza si è statuito che la situazione di costoro rimase priva di disciplina statuale attuati va del diritto comunitario non diversamente da quella degli specializzandi che avessero frequentato corsi terminati nell’anno accademico 1990-1991.

Si è, quindi, riespresso il principio di diritto che viene in rilievo riguardo all’annosa vicenda degli specializzando in questi termini, comprensivi anche del caso degli specializzandi c.d. "a cavallo", cioè che, avendo iniziato la specializzazione prima dell’intervento del D.Lgs. n. 257 del 1991, l’avessero terminata quando esso era già entrato in vigore: il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, insorto a favore dei soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica iniziati negli anni dal 1 gennaio 1983 all’anno accademico 1990-1991 in condizioni tali che se detta direttiva fosse stata adempiuta avrebbero acquisito i diritti da essa previsti, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, art. 11. p. 3.5. L’applicazione di tale principio di diritto a questo punto comporta che il primo motivo di ricorso, pur avendo la sentenza impugnata stabilito una data erronea di decorrenza della prescrizione, non può portare alla cassazione della sentenza ma solo alla correzione della motivazione della sentenza nel senso del decorso della prescrizione dalla data individuata da principio di diritto sopra riportata anzichè dalla nota sentenza sul ricorso Carbonari.

A sua vola il secondo motivo si rivela infondato al lume dell’orientamento che ha portato alla sua affermazione. p. 3.6. Tuttavia, a questo punto il Collegio deve farsi carico di una sopravvenienza normativa rispetto alla proposizione del ricorso.

Essa è stata prospettata dalla difesa erariale nella sua memoria (e, peraltro, trattandosi di quaestio iuris il cui esame non comporta accertamenti di fatto e che non è e non può essere preclusa da alcun giudicato interno proprio per essere sopravvenienza, si sarebbe dovuta valutare ex officio). Si tratta di verificare se essa incida sulla validità del sopra ricordato principio di diritto.

Con la L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 4, comma 43, (Legge di stabilità 2012, ex legge finanziaria), approvata in via definitiva dal Parlamento il 12 novembre 2011 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale 14 novembre 2011, n. 265, infatti, è stato disposto che La prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento nell’ordinamento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatovi comunitari soggiace, in ogni caso, alla disciplina di cui all’art. 2947 c.c. e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato.

Ai sensi dell’art. 36 della stessa legge la norma è entrata in vigore il 1 gennaio 2012.

In sentenze pubblicate successivamente alla pubblicazione della legge e, quindi, all’entrata nell’ordinamento come mera disposizione della norma, questa Sezione ha ritenuto implicitamente inopportuno darsi carico della sopravvenienza – previa riconvocazione dei Collegi – proprio perchè essa non era vigente.

Sopravvenuta la sua vigenza occorre ora farsene carico. p. 3.6.1. Il Collegio ritiene che essa, operando solo per l’avvenire, secondo il criterio generale fissato dall’art. 12 preleggi, e, quindi potendo spiegare la sua efficacia rispetto ai fatti verifica tisi successivamente alla sua entrata in vigore, risulta irrilevante nel presente giudizio, come nei giudizi similari. Infatti, essendo il suo oggetto di disciplina la regolamentazione della prescrizione del diritto al risarcimento del danno, derivante da mancato recepimento di normative comunitarie cogenti e dal verificarsi in capo ad un soggetto di un fatto che, se fosse stata attuata la direttiva, avrebbe dato al soggetto il diritto da essa previsto, la norma potrà disciplinare soltanto la prescrizione di diritti di tal genere insorti successivamente alla sua entrata in vigore e, quindi, derivanti da fattispecie di mancato recepimento verifica tesi dopo di essa e non da fattispecie di mancato recepimento verifica tesi anteriormente. Con la conseguenza che non può regolare in via sopravvenuta il diritto al risarcimento del danno da mancato recepimento, oggetto del presente giudizio, posto che esso concerne un mancato recepimento verificatosi ben prima.

Non v’è alcuna espressione nella norma, d’altro canto, che consenta di ritenere che l’oggetto di disciplina riguardi anche termini di prescrizione di diritti del genere indicato già sorti ed ancora non consumati, o per mancata decorrenza del termine di prescrizione originario o, nel caso di interruzione di esso o di quelli successivi, per pendenza di un termine successivo, nonchè termini di prescrizione non consumati alla stregua della disciplina applicabile precedentemente (come nella fattispecie) e che, invece, risulterebbero consumati alla stregua della nuova.

Sotto il primo aspetto la norma non reca alcun indice che evidenzi la sua direzione alla disciplina dei termini di prescrizione originari successivi ancora in corso, perchè la norma avrebbe dovuto disporre – se del caso in aggiunta alla sua previsione, che è diretta ad individuare la prescrizione e, quindi, il decorso del tempo dalla nascita – riguardo ai termini di prescrizione pendenti ed all’uopo avrebbe dovuto contenere elementi testuali idonei ad evidenziare l’assunzione come oggetto di disciplina anche di essi.

Sotto il secondo aspetto, che è quello che rileverebbe nel caso in esame, come nelle vicende similari, la disposizione avrebbe dovuto contenere espressioni dirette ad evidenziare il suo carattere espressamente retroattivo oppure auto qualificarsi, expressis verbis o in via indiretta attraverso indici testuali all’uopo idonei, come interpretativa.

Ed in questo caso, si sarebbe, peraltro, posto il problema della costituzionalità di una individuazione della prescrizione applicabile addirittura successiva al decorso del termine di prescrizione originario delle situazioni di cui trattasi, ormai compiutosi il 27 ottobre 2009 secondo il sistema normativo precedente, pur evidenziato all’esito di una complessa vicenda giurisprudenziale (e, peraltro, quoad durata del termine da una pronuncia delle Sezioni Unite risalente ad oltre due anni fa). p. 3.6.2. E’ da avvertire che un indice linguistico idoneo ad evidenziare la natura retroattiva o interpretativa (e, quindi, patimenti retroattiva, com’è nella natura della norma effettivamente interpretativa) non può essere ravvisato nell’uso dell’espressione "in ogni caso", perchè essa non è nè idonea ad evidenziare una volontà legislativa derogatoria del principio per cui la legge provvede per l’avvenire, se il legislatore non dispone diversamente, nè tanto meno una volontà interpretativa.

Sotto il primo aspetto l’espressione non partecipa alla funzione di individuare l’oggetto di disciplina della norma quoad tempus, essendo esso definito dall’espressione La prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento nell’ordinamento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari. Detta espressione, invece, essendo inserita dopo il verbo che esprime la vis normativa della soggezione all’art. 2947 c.c. ed essendo il riferimento a tale soggezione, in ragione del riferimento di essa all’azione di risarcimento del danno da fatto illecito, necessariamente ad una disposizione che ha come oggetto di disciplina un’azione di tale natura, è diretta a suggerire all’interprete che la soggezione ha luogo indipendentemente dalla qualificazione del relativo diritto negli stessi termini. p. 3.6.3. Va ancora rimarcato che le situazioni come quelle di cui è processo, riguardo alle quali il diritto è stato già esercitato con l’azione in giudizio, al momento dell’entrata in vigore della legge, non sono situazioni rispetto alle quali il diritto debba essere esercitato, ma situazioni nelle quali il diritto lo è già stato ed essendosi verificato l’effetto interruttivo c.d. permanente (scilicet sospensione) del termine prescrizionale risultante dalla legge del momento di introduzione del giudizio, il termine di prescrizione non correva al 1 dicembre 2012 e nemmeno doveva e poteva iniziare, atteso che era interrotto. Onde, sarebbe occorsa un’espressione linguistica idonea a rivelare l’intentio legis di disciplinare anche tali situazioni in via necessariamente retroattiva, cioè sovrapponendo il nuovo termine a quello a suo tempo interrotto dalla domanda giudiziale e risultante dalla disciplina legislativa pregressa.

Per mera completezza ed in ipotesi denegata, se anche sorgesse il dubbio che l’espressione sia polisenso, cioè si presti ad assumere sia questo significato sia quello di implicare la retroattività o il carattere interpretativo della norma, l’interprete dovrebbe concludere a favore della prima opzione, perchè il carattere retroattivo o interpretativo di una norma non tollera ambiguità. p. 3.6.4. Va ancora aggiunto, sempre per completezza, un ulteriore rilievo.

Qualora la materia del mutamento da parte del legislatore del termine di prescrizione di un determinato diritto si reputasse soggetta, in assenza di contraria volontà del legislatore, ad un principio generale dell’ordinamento che si volesse ravvisare esistente sulla base dell’art. 12 preleggi, comma 2 e che si individuasse nella norma di diritto transitorio temporibus illis introdotta dal legislatore all’atto dell’entrata in vigore del codice civile, cioè l’art. 252 disp. att. e tranz. c.c. (come ritenuto dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 6173 del 2008, sulla scia dell’espressa affermazione di Corte cost. n. 20 del 1994), le conclusioni raggiunte nel senso dell’ininfluenza della norma sopravvenuta nel presente giudizio non muterebbero.

Infatti, quella norma lasciò immutati i termini di prescrizione in relazione ad atti di esercizio di diritti avvenuti secondo la previgente disciplina e si preoccupò soltanto di somministrare un criterio per gli atti di esercizio di diritti sorti anteriormente all’entrata in vigore del codice ma non ancora esercitati, imponendo che il termine per il loro esercizio, se stabilito in misura più breve rispetto al passato ed eventualmente ancora in corso, decorresse dalle date di entrata in vigore delle varie parti del codice.

Applicando il criterio al caso di specie si avrebbe allora che la nuova norma sarebbe applicabile ad atti di esercizio di diritti come quelli oggetto di causa che avessero determinato l’interruzione del corso della prescrizione nei termini ricostruiti dalla giurisprudenza di questa Corte e che ancora, in situazione di mancato decorso del termine decennale di prescrizione, fossero esercitabili dopo la sua entrata in vigore. In questo caso il termine quinquennale di cui al primo comma dell’art. 2947 decorrerebbe dal 1 gennaio 2012.

E’ palese che non si tratta e non si potrebbe trattare delle situazioni oggetto di esercizio in giudizio in fieri, come quelle di cui è processo, riguardo alle quali il termine operante secondo la disciplina anteriore è rimasto sospeso per l’effetto interruttivo permanente determinato dall’esercizio dell’azione giudiziale.

Queste considerazioni sono già state espresse da questa Sezione nella sentenza n. 1917 del 2012. p. 4. Con il terzo motivo si denuncia "violazione degli artt. 2043, 2946, 2947, 2948 cod. civ.; omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa n fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5".

Vi si sostiene che la Corte d’Appello, avendo ritenuto di applicare i principi di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 9147 del 2009 avrebbe dovuto, in coerenza con essa, riconoscere ai ricorrenti solo un indennizzo, cioè un mero ristoro economico per riparare parzialmente la diminuzione economica da loro subita in conseguenza di un atto lecito, e non invece il danno, con gli incrementi per danno da svalutazione monetaria, ed anche la perdita di chance. In tal modo la Corte salernitana sarebbe incorsa in una contraddizione, perchè riconoscendo il ristoro del danno avrebbe dovuto collocare la vicenda nell’ambito dell’art. 2043 c.c. e, quindi, ritenere applicabile la prescrizione quinquennale. p. 4.1. Il motivo è fondato nei sensi di cui si dirà di seguito.

La sentenza impugnata ha riconosciuto, dopo avere fatto riferimento alla sentenza n. 9147 del 209 delle Sezioni Unite, ha riconosciuto il danno a favore dei due medici qui resistenti in una duplice componente, la prima legata alla mancata percezione della remunerazione corrispondente all’attività formativa in regola con la disciplina comunitaria e la seconda, legata appunto alla perdita della chance di ottenere i benefici – essenziali per consentire un percorso formativo scevro, almeno in parte, da preoccupazioni esistenziali – che sarebbero stati resi possibili da una tempestiva attuazione delle direttive medesime. p. 4.2. La prima componente del danno è effettivamente esistente, ma è stata liquidata in modo eccessivo, perchè la Corte territoriale – dopo avere considerato dimostrato nell’on il danno per gli anni di durata del corso che in via presuntiva ha ritenuto essere stata di due anni, in dipendenza indicazione da parte dei medici della data di conseguimento del diploma di specializzazione e della mancanza di indicazione, viceversa, della data di inizio e della durata del corso – ha ritenuto di individuare il danno liquidabile parametrandolo all’ammontare di L. 21.500.000 annue riconosciuto dal D.Lgs. n. 257 del 1991 quale borsa di studio per i medici che iniziarono la specializzazione dall’anno accademico 1991-1992 ed ai quali la disciplina di detto D.Lgs., quale attuazione de futuro delle note direttive, era applicabile.

Questo criterio di liquidazione non è condivisibile.

Queste le ragioni, che sono state già esposte da questa Sezione nella sentenza n. 1917 del 2012.

Nella detta sentenza è stato osservato quanto segue:

"…. Va rilevato che, con riferimento a una fattispecie nella quale il giudice si merito aveva ritenuto direttamente estensibile la disciplina della L. n. 370 del 1999 agli specializzandi da essa non contemplati, venutisi a trovare in condizioni tali che se le note direttive fossero state adempiute, avrebbero potuto beneficiare del riconoscimento di una remunerazione per lo svolgimento del corso di specializzazione in condizioni conformi a quanto imposto dal diritto comunitario, questa Sezione ha già avuto modo di affermare il seguente principio di diritto: In tema di corresponsione di borse di studio agli specializzandi medici ammessi alle scuole negli anni 1983- 1991, la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11 pone delle condizioni dettagliate per il riconoscimento del relativo diritto, coerenti con le corrispondenti disposizioni delle direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, così da doversi applicare retroattivamente a tutti coloro che si sono trovati nella situazione contemplata dal medesimo art. 11, in quanto la più idonea al raggiungimento dello scopo di attuare le citate direttive a far tempo dalla scadenza del termine dato allo Stato per la relativa trasposizione (nella specie, 31 dicembre 1982).

Non trova, invece, giustificazione, alla luce del diritto comunitario, la limitazione del riconoscimento operata dallo stesso art. 11 in favore dei destinatari delle sentenze passate in giudicato emesse dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sicchè, sotto questo specifico profilo, la disciplina è disapplicabile, in quanto essa subordina il riconoscimento, in ambito interno, di un diritto attribuito ai singoli da direttive comunitarie a condizioni (quella di aver adito l’autorità giudiziaria ed aver ottenuto una sentenza favorevole addirittura ancor prima dell’emanazione della Legge di trasposizione) non contemplate da tali direttive. (Cass. n. 17682 del 2011).

Successivamente, sempre questa Sezione, scrutinando questa volta un ricorso che si innestava su uno svolgimento del giudizio di merito che aveva visto atteggiarsi la pretesa dei medici specializzandi sub specie risarcitoria, ha affermato che In tema di risarcimento dei danni, per la mancata tempestiva trasposizione delle direttive comunitarie 75/362/CEE e 82/76/CEE (in materia di adeguata remunerazione della formazione dei medici specializzandi), in favore dei medici frequentanti le scuole di specializzazione in epoca anteriore all’anno 1991, la relativa liquidazione non può che avvenire sul piano equitativo, secondo canoni di parità di trattamento per situazioni analoghe, dovendo utilizzarsi come parametro di riferimento le indicazioni contenute nella L. 19 ottobre 1999, n. 370, con cui lo Stato italiano ha proceduto ad un sostanziale atto di adempimento parziale soggettivo nei confronti di tutte le categorie astratte in relazione alle quali, dopo il 31 dicembre 1982, si erano potute verificare le condizioni fattuali idonee all’acquisizione dei diritti previsti dalle citate direttive comunitarie e che non risultano considerate nel D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257. (Cass. n. 23275 del 2011).

Come si vede il punto di approdo della individuazione del criterio di liquidazione del danno nell’uno e nell’altro caso è stato il medesimo, cioè il riferimento agli importi indicati dalla L. n. 370 del 1999. p. 7.2.1. A questo approdo il Collegio intende dare continuità e farne affermazione in linea generale sulla base dei seguenti rilievi, che si riferiscono alla pretesa risarcitoria che individui il danno non solo nella mancata consecuzione della adeguata remunerazione, ma anche sotto altri possibili profili derivanti dall’inidoneità del diploma sul piano comunitario.

Punto di partenza dev’essere la constatazione che, giusta la costruzione della fattispecie risarcitoria nei sensi indicati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 9147 del 2009, il diritto al risarcimento del danno, spettante agli specializzandi in relazione alla perdita della remunerazione e degli altri vantaggi che essi avrebbero potuto conseguire per il caso che la normativa comunitaria fosse stata adempiuta e fosse stata loro assicurata la possibilità di seguire corsi conformi ad essa, ha natura di credito di valore, sia pure originante da responsabilità contrattuale (nel senso specificato dalle sentenze gemelle).

La giurisprudenza di questa Sezione nelle sentenze gemelle ha, come si è visto, riconosciuto che fino all’emanazione della L. n. 370 del 1999 l’obbligo risarcitorio, pur insorto con riguardo alle posizioni dei singoli che si erano venuti a trovare nella condizione di fatto che avrebbe dato diritto al beneficio ricollegato all’attuazione delle direttive, si era connotato come un obbligo di natura permanente fino al momento dell’entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, con la conseguenza che il corso della prescrizione non era iniziato prima di quel momento.

In ordine al momento di insorgenza dell’obbligo risarcitorio, sempre le dette sentenze avevano sottolineato che esso si doveva rinvenire, peraltro, non già con riferimento al momento di verificazione della situazione di fatto che a direttive adempiute avrebbe giustificato la corresponsione della remunerazione e la consecuzione degli altri vantaggi, bensì solo dal momento della sopravvenienza della nota sentenza comunitaria sul caso Francovich.

Le sentenze gemelle, infatti, avevano sottolineato quanto segue: il dictum della sentenza (poi ribadito qualche anno dopo dalla sentenza Brasserie du Pecheur), attesa l’efficacia vincolante nell’ordinamento interno della decisioni della Corte di Giustizia in guisa sostanziale di una vera e propria fonte del diritto oggettivo, ha avuto l’efficacia di introdurre nell’ordinamento italiano (come in buona sostanza hanno affermato le Sezioni Unite) una particolare fonte di obbligazioni risarcitorie, il cui fatto costitutivo è l’inadempienza ad una direttiva di quel contenuto. Ne deriva che solo dalla pubblicazione della sentenza Francovich le situazioni fattuali degli specializzandi che avevano conseguito il diploma dopo il 31 dicembre 1982 a seguito di un corso che, in base alle note direttive avrebbe giustificato l’attribuzione dei diritti da esse previste, sono state giuridificare nel nostro ordinamento come idonee a giustificare l’obbligo risarcitorio. L’assunto, naturalmente, vale per qualsiasi ipotesi di inadempienza a direttive di contenuto sufficientemente specifico nell’attribuzione di diritti da giustificare l’obbligo risarcitorio, verificatasi anteriormente alla sentenza Francovich.

… Potrebbe addirittura sostenersi che, essendosi la giurisprudenza comunitaria definitivamente assestata, dopo l’irruzione della sentenza Francovich nei suoi esatti termini soltanto con la sentenza Brasserie du Pecheur, come non manca di rilevare la dottrina quando deve individuare i caratteri dell’obbligo risarcitorio, addirittura solo dalla data di quella sentenza l’obbligo sia insorto nell’ordinamento italiano … Il diritto degli specializzandi, infatti, si potrebbe dire sorto addirittura soltanto dall’ottobre del 1996.

Ora, sopravenuta la L n. 370 del 1999, si è verificata nell’ordinamento, secondo la giurisprudenza inaugurata dalle sentenze gemelle, innanzitutto una situazione nella quale la permanenza dell’obbligo risarcitorio de quo è venuta a cessare, perchè come si rilevò in esse fu chiaro che lo Stato, riconoscendo un risarcimento a taluni specializzandi, appartenenti alle categorie riguardo alle quali non aveva operato la tardiva attuazione delle direttive solo de futuro di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991, palesò che non vi sarebbe stato più un adempimento spontaneo e che, pertanto, la situazione di inadempimento era diventata ormai stabile. L’obbligo risarcitorio cessò di essere qualificabile come permanente e divenne un obbligo risarcitorio ormai nella sostanza definitivamente inadempiuto.

Tuttavia la L. n. 370 del 1999 si caratterizzò anche ulteriormente come un intervento del legislatore italiano che, per i soggetti contemplati, sulla sola condizione dell’essere beneficiari di taluni giudicati, procedette alla quantificazione del dovuto per l’obbligo risarcitorio.

Poichè tale obbligo risarcitorio era riferibile anche ai soggetti non contemplati e la relativa quantificazione è avvenuta con un atto legislativo, la posizione degli specializzandi rimasti esclusi, in relazione all’operare del principio di eguaglianza sul piano del diritto interno ed a maggior ragione rispetto alla posizione dello Stato Italiano di fronte all’obbligo comunitario, non ne rimase indifferente, bensì restò anch’essa qualificata come meritevole dello stesso trattamento. L’attività statuale di quantificazione del danno da tardivo adempimento per taluni, in sostanza, non potè che assumere rilievo anche per gli altri soggetti.

Si deve allora considerare che la quantificazione assunse anche nei confronti degli specializzandi non contemplati il valore di una sorta di aestimatio dell’obbligo risarcitorio, fatta spontaneamente dallo Stato.

Tale aestimatio in certo qual modo operata dallo stesso soggetto debitore non deve sorprendere, perchè dipese dalla particolarità della situazione nascente, secondo la giurisprudenza comunitaria, dall’inadempimento di direttive non self-executing. Essa risultò effettuata dallo Stato quale soggetto obbligato, sul piano dell’ordinamento comunitario, a rimediare alla situazione di inadempimento del diritto comunitario nell’esercizio della sua attività legislativa e, quindi, con necessari riflessi sul piano dell’ordinamento interno riguardo al diritto al risarcimento dei singoli.

Si deve allora ritenere che, a seguito della sopravvenienza della L. n. 370 del 1999, stante la identità di posizione degli specializzandi non contemplati rispetto a quelli contemplati dalla legge (identità che, naturalmente va apprezzata con riguardo all’atteggiasi della loro posizione non già secondo l’ordinamento interno e, quindi, in relazione all’essere essi beneficiari di giudicati amministrativi, bensì in relazione all’ordinamento comunitario), si verificò nell’ordinamento interno una situazione per cui il "valore" dell’obbligo risarcitorio risultò apprezzato dallo Stato italiano nella misura prevista dall’art. 11 della legge stessa. Tale situazione determinava che agli specializzandi non contemplati, i quali erano ormai messi nella condizione di doversi attivare nell’esercizio della pretesa risarcitoria per scongiurare la prescrizione, fosse palesata una precisa quantificazione dell’obbligo risarcitorio da parte dello Stato. Quantificazione che l’ultima proposizione del comma 1 dell’articolo diceva comprensiva di interessi e rivalutazione, così rispettando la natura di valore del credito nel procedimento che condusse a ima sorta di auto-aestimatio dello Stato legislatore.

Ne deriva che, emergendo una precisa quantificazione del valore dell’obbligo risarcitorio, ad essa si doveva e si deve commisurare la pretesa degli specializzandi.

E ciò non tanto sulla base di considerazioni equitative, che in relazione alla singola controversia sia dato al giudice italiano di formulare, bensì quale necessario riflesso della facoltà dello Stato di individuare il contenuto economico dell’obbligo risarcitorio per i doveri nascenti dalla ricostruzione operata dalle sentenze sul caso Francovich e, quindi, sul caso Brasserie du Pecheur e, quindi, dall’ordinamento comunitario.

Infatti, la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Brasserie du Pecheur ebbe a precisare che in mancanza di norme comunitarie in materia di risarcimento del danno da inadempimento di direttive non self-executing, spetta all’ordinamento giuridico di interno di ciascuno stato membro fissare i criteri che consentono di determinare l’entità del risarcimento, fermo restando che essi non possono essere meno favorevoli di quelli che riguardano reclami analoghi fondati sul diritto interno e che non possono in nessun caso essere tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile il risarcimento.

Il che giustifica che, in relazione al noto inadempimento, spettasse allo Stato di determinare l’entità del risarcimento, naturalmente in modo da non renderlo apparente.

E gli importi riconosciuti dalla citata legge non potevano essere riconosciuti tali, tenuto conto della oggettiva risalenza delle situazioni dei soggetti vittima dell’inadempimento.

Tanto comporta che …. la sentenza impugnata debba essere cassata con rinvio nel punto in cui, sulla base dell’erronea applicazione del dies a quo della prescrizione, ha liquidato il danno per la parte di domanda riconosciuta fondata parametrandolo alle somme di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991.

E’ appena il caso di rilevare che la posizione degli specializzandi rimasti esclusi dal D.Lgs. n. 257 del 1991 in alcun modo poteva essere assimilata a quella degli specializzandi da esso contemplati, per l’assorbente ragione che detto D.Lgs. non solo operava esclusivamente in relazione a situazioni future, cioè per coloro che avessero iniziato il corso di specializzazione nell’anno accademico 1991-1992, e non in relazione a situazioni ormai verificatesi, ma, soprattutto, riguardava soggetti che frequentavano corsi oramai organizzati in conformità a quanto imposto dalla normativa comunitaria, là dove, invece, i corsi frequentati o iniziati anteriormente all’entrata in vigore della disciplina del D.Lgs. erano organizzati secondo il sistema previgente, non conforme al diritto comunitario, il che aveva integrato la situazione di inadempienza statuale. Anche la situazione di fatto degli specializzandi esclusi era ontologicamente diversa da quella degli specializzandi a partire dall’anno accademico 1991-1992.

Il ragionamento fatto sopra a proposito della L. n. 370 del 1999 circa il valore di aestimatio sotteso alla quantificazione da essa fatta dell’obbligo risarcitorio non potrebbe, dunque, in alcun modo essere giustificato, nè sul piano dell’intentio legis, nè su un piano meramente oggettivo, per quanto concerne gli importi di cui al D.Lgs.. Ed è per questo che non possono avere fondamento i tentativi di utilizzarla – una volta considerato che, trattandosi di direttive non self-executing la normativa statuale di adempimento sia necessariamente sul piano comunitario, sia direttamente estensibile ai soggetti esclusi – come parametro di determinazione del quantum del danno.

Si deve, dunque, escludere, in particolare che applicare il trattamento di cui alla L. n. 370 del 1999 rispetto al trattamento di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991 possa rappresentare un criterio meno favorevole (alla stregua della citata sentenza comunitaria) rispetto a casi analoghi, posto che la situazione degli specializzandi che seguirono i corsi cui non era applicabile il D.Lgs. n. 257 del 1991 non era affatto analoga a quella degli specializzandi che li seguirono. Così come si è dato rilievo ai fini della decorrenza della prescrizione a tale diversità, le si deve dare rilievo ai fini della individuazione del danno risarcibile. p. 7.4. Il Collegio rileva ancora che l’ancoraggio del risarcimento dovuto alle somme indicate dalla L. n. 370 del 1999, art. 11 appare anche giustificato anche alla luce della lettura che di tale norma ebbe a dare il Giudice delle Leggi nella Ordinanza n. 269 del 2005, allorchè, investita della questione di legittimità costituzionale della norma, ebbe ad osservare che "che la L. n. 370 del 1999, art. 11 attuativo dei giudicati, regola però esclusivamente i benefici economici spettanti ai medici ammessi presso le scuole di specializzazione in medicina negli anni 1983-1991". Il che, correlato all’obbligo risarcitorio che con tali benefici si intese assolvere verso i medesimi in quanto contemplati dai giudicati cui la norma si riferiva e ribadito che analogamente dev’essere trattata la condizione di tutti gli altri estranei ai giudicati, non solo rafforza il valore di aestimatio che alla norma si è sopra attribuito, ma conferma anche che l’ammontare del risarcimento (e, quindi, della riparazione) conseguibile è quello ricollegabile ad essa sotto ogni profilo, ivi compreso quello della mancanza nel diploma conseguito delle idoneità che avrebbe avuto quello conforme alla frequenza di un corso rispettoso della normativa comunitaria, attuata de futuro con il D.Lgs. n. 257 n. del 1991.

Non a caso la Corte sottolineò che l’art. 11 non ostava a che invece agli specializzandi di cui ai giudicati potesse invece in ipotesi (da verificare dal giudice amministrativo rimettente) spettare, con riferimento a concorsi che richiedevano determinati requisiti per l’attribuzione di certi punteggi, un trattamento simile a quello degli specializzati nei corsi ricaduti sotto la vigenza del D.Lgs. n. 257 del 1991.". p. 4.2.1. Dalla riportata motivazione della sentenza n. 1917 del 2012, le cui considerazioni il Collegio intende qui ribadire emerge che erroneamente la sentenza impugnata ha riconosciuto per ciascuno dei due anni di corso l’importo della borsa di studio di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991. L’importo riconoscibile era, invece, quello previsto dalla L. n. 370 del 1999, art. 11.

La sentenza impugnata dev’essere, pertanto, cassata sul punto ed il giudice di rinvio provvederà in conformità a tale principio di diritto. p. 4.2.2. Il Collegio ritiene necessario anche individuare le modalità con cui dovranno essere liquidati gli accessori sull’importo dovuto per i due anni di corso ed anche all’uopo intende ribadire i principi già affermati dalla sentenza n. 1917 del 2012, nei termini seguenti:

"Al riguardo va considerato che, per effetto della L. n. 370 del 1999, l’aestimatio dell’obbligo risarcitorio da parte del legislatore italiano si risolse in una attività di vera e propria autoliquidazione (consentita, come s’è visto, dato che lo Stato poteva nella sua qualità di legislatore disporre, dovendo rispettare solo esigenze di effettività rispetto all’ordinamento comunitario) del danno derivante dal suo inadempimento. Dal momento dell’entrata in vigore della legge si evidenziò, allora, una monetizzazione del danno derivante dall’inadempimento di quell’obbligo e si trattò di una monetizzazione correlata ad un inadempimento ormai definitivo di esso.

Ritiene il Collegio che tale monetizzazione, dal momento dell’entrata in vigore della legge, determinò la sostituzione all’obbligazione risarcitoria avente natura di debito di valore qual era stata quella dello Stato fino a quel momento, in mancanza di determinazione del suo ammontare, di un’obbligazione avente natura di debito di valuta, cioè avente ad oggetto diretto una somma di danaro.

Tale obbligazione aveva ad oggetto una somma di danaro liquida, ma non esigibile.

Ne consegue che essa era soggetta al regime dell’art. 1219 c.c. e, pertanto, per la produzione degli interessi e del diritto alla consecuzione del maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, occorreva un atto di messa in mora.

La Corte di rinvio, dovrà, dunque, riconoscere sulle somme dovute per ciascun anno, determinate alla stregua della L. n. 370 del 1999, art. 11 gli accessori soltanto dalla data dell’eventuale messa in mora o, in mancanza, dalla notificazione della domanda giudiziale.

Lo dovrà fare applicando il seguente principio di diritto: Nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero – attraverso la produzione dei bilanci -quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale. Competerà, quindi, la rivalutazione monetaria per preservare il valore della somma indicata (Cass. sez. un. n. 19499 del 2008). p. 4.2.3. Il giudice di rinvio dovrà, dunque, applicare i principi qui richiamati nella determinazione degli accessori. p. 4.3. Le considerazioni della sentenza n. 1917 del 2012 circa il valore da attribuire all’intervento della L. n. 370 del 1999, art. 11 evidenziano a questo punto che la sentenza impugnata è illegittima anche là dove ha individuato la seconda componente del danno risarcibile, cioè quella ricollegata alla mancata consecuzione da parte dei resistenti di un diploma di specializzazione corrispondente alle idoneità che avrebbe avuto un diploma conseguito a seguito di un corso che essi avessero potuto frequentare in conformità a quanto richiesto dal diritto comunitario.

Può semmai rilevarsi che una sottrazione al criterio di aestimatio di cui al citato art. 11 si potrebbe ipotizzare per casi nei quali il medico, dopo avere conseguito di diploma di specializzazione seguendo un corso in situazione di inattuazione delle direttive, non avesse perduto la generica chance che avrebbe avuto se il diploma fosse stato conforme alle direttive europee e, quindi, quella ricollegata alla mera idoneità del diploma, o meglio alle mere potenzialità del diploma, bensì avesse subito un vero e proprio danno emergente per non avere potuto effettivamente ed in concreto utilizzare il diploma per conseguire un beneficio, che, invece, sarebbe stato certamente acquisitole se il diploma fosse stato raggiunto all’esito di un corso rispettoso delle direttive (si pensi alla dimostrazione di avere perso un’occasione di lavoro in altro paese comunitario, per la non conformità del diploma alle direttive, che, com’è noto, prevedevano taluni standards proprio per garantire il riconoscimento del diploma in tutti i paesi comunitari). p. 4.4. Il terzo motivo è, dunque, accolto e la sentenza impugnata è cassata nei sensi su indicati. p. 5. Con il quarto motivo del ricorso principale si denuncia "violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. – Violazione e falsa applicazione D.Lgs. n. 257 del 1991; L. n. 370 del 1999 – art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4".

Vi si lamenta che la Corte territoriale avrebbe d’ufficio ed in violazione della prospettazione dei medici accolto la qualificazione della pretesa nei termini di cui alla citata sentenza delle SS.UU. p. 5.1. Il motivo è privo di fondamento, avendo la Corte territoriale proceduto soltanto ad un’operazione di individuazione dell’esatto diritto applicabile alla fattispecie (come del resto non mancò di sottolineare in riferimento alla fattispecie giudicata la stessa sentenza n. 9147 del 2009 e non mancarono di sottolineare le sentenze gemelle del 2011. 6. Con il primo motivo di ricorso incidentale si deduce "violazione e falsa applicazione dell’art. 113 c.p.c. e dell’art. 115 c.p.c., comma 2, dell’art. 2697 cod. civ., del D.P.R. n. 162 del 1982 (art. 360 c.p.c., n. 3)".

Dopo una serie di considerazioni generali del tutto astratte, si imputa alla sentenza impugnata di avere ritenuto di considerare il corso frequentato dai due medici ricorrenti incidentali di durata di due anni, in mancanza di allegazione della sua esatta durata. La Corte salernitana avrebbe, invece,dovuto desumere la durata dei corsi dagli statuti delle Università presso le quali essi erano stati frequentati, posto che il D.P.R. n. 162 del 1982, recante il titolo di "Riordinamento delle scuole dirette a fini speciali, delle scuole di specializzazione dei corsi di perfezionamento", all’art. 12 demandava agli statuti delle università di stabilire la durata dei corsi. p. 6.1. Il motivo è privo di fondamento.

Non si fornisce alcuna spiegazione di come e perchè la Corte territoriale fosse tenuta a conoscere lo statuto dell’università presso la quale i due medici frequentarono il corso. Al riguardo è da escludere che un siffatto dovere di conoscenza derivasse da una sorta di natura di fonti del diritto generale propria degli statuti.

Gli statuti universitari, infatti, costituiscono l’atto fondamentale in cui si esplica l’autonomia universitaria e con cui la stessa procede alla propria articolazione organizzativa e funzionale e, come tali vanno qualificati come atti di organizzazione a contenuto generale (Cons. Stato, Sez. 6^, 23 settembre 1998 n. 1268; Cons. Stato, 6^, 4 marzo 2003 n. 6273).

V’è poi da aggiungere che la sentenza impugnata da atto che le date di conseguimento dei diplomi di specializzazione del D.C. e del C. furono il 24 ottobre 1984 ed il 9 luglio 1985. Ora, l’inadempimento dello Stato Italiano si verificò a partire dal 1 gennaio 1983, posto che le note direttive dovevano essere adempiute entro il 31 dicembre 1982. Ne consegue che a stretto rigore, concernendo gli obblighi di adeguamento dello Stato Italiano i corsi di specializzazione iniziati dopo quella data, il primo anno accademico in relazione al quale l’inadempimento poteva acquisire rilievo era quello 1983-1984.

Avendo la sentenza impugnata riconosciuto il diritto ai medici qui ricorrenti incidentali per due anni di corso (e, per la verità, per l’anno 1982-1983 e per quello 1983-1984: ma nel 1982, come s’è detto, le direttive non erano rimaste ancora inadempiute, essendole diventate il 31 dicembre di quell’anno; inoltre è notorio che solitamente i corsi universitari si svolgono a cavallo fra due anni solari) è evidente che, se il corso fosse iniziato prima dei due anni antecedenti le date di conseguimento, risulterebbe addirittura configurare senza presupposto che ai medesimi sarebbe stata riconosciuta una situazione legittimante la pretesa fatta valere (ma ormai sulla relativa questione si è formato giudicato interno e la questione non potrà essere riesaminata in sede di rinvio). p. 7. Con il secondo motivo di ricorso incidentale si deduce "violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.c., commi 1 e 2.

Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Violazione e falsa applicazione dell’art. 175 c.p.c., e dell’art. 345 c.p.c., comma 3, (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)".

Dopo una serie di considerazioni astratte vi si espone la tesi che la Corte territoriale avrebbe dovuto invitare i medici a fornire la prova della durata dei corsi e non determinarla come ha fatto in asserita applicazione di meccanismi presuntivi. p. 7.1. Il motivo è infondato.

Non si specifica quale norma avrebbe dovuto imporre alla Corte territoriale quanto si ipotizza. Essa non è l’art. 115 c.p.c.: il precedente citato (Cass. n. 6118 del 1995) si riferisce alla possibilità (e no all’obbligo) che il giudice inviti a colmare lacune istruttorie e la dice non confliggente con detta norma.

Non solo: la Corte ha imputato ai medici, prima che un difetto di prova, un difetto di allegazione della durata dei corsi e, quindi, non si comprende come alla mancanza di assolvimento di tale onere si potesse pretendere di assolvere in appello, inerendo essa fatti principali del giudizio.

Inoltre, resterebbe ferma la mancanza di decisività del motivo, tenuto conto che la circostanza di una durata del corso maggiore dei due anni ritenuti dal giudice d’appello comporterebbe verosimilmente che i medici avrebbero seguito corsi iniziati quando le direttive non erano ancora rimaste inadempiute. p. 8. Il terzo motivo riguarda le spese e resta assorbito, dato che la sentenza viene cassata e, pertanto, la statuizione sulle spese viene travolta. p. 9. Il giudice di rinvio, che si designa nella Corte d’Appello di Salerno in diversa composizione, provvederà sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte provvedendo sui ricorsi riuniti, accoglie il terzo motivo del ricorso principale per quanto di ragione e rigetta gli altri motivi. Rigetta il primo ed il secondo motivo del ricorso incidentale. Assorbito il terzo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al rapporto processuale tra i ricorrenti principali ed i resistenti. Rinvia alla Corte d’Appello di Salerno in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 2 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *