Cass. civ. Sez. III, Sent., 05-04-2012, n. 5529 Responsabilità civile per ingiurie e diffamazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p. 1. L’Università degli Studi di Catania e D.F.F. M. e R.M., queste ultime due nella qualità di eredi di R.G. (parte originaria, deceduta in appello) hanno proposto ricorso per cassazione contro M.G. B. e nei confronti di Ru.Ca., avverso la sentenza del 29 settembre 2009, con la quale la Corte d’Appello di Catania, pronunciando sull’appello della B., in parziale riforma della sentenza resa in primo grado inter partes dal Tribunale di Catania, ha condannato i ricorrenti e il Ru. al pagamento a titolo di risarcimento danni della somma di Euro 12.000,00 oltre interessi dalla decisione al soddisfo.

Il giudizio era stato introdotto dalla B. per ottenere il risarcimento dei danni a suo dire sofferti in conseguenza: a) dell’enunciazione di essere affetta da mania di persecuzione contenuta in una nota di risposta inviata al R. dal Ru., nella qualità di direttore dell’Istituto di Aziende Agrarie di Catania, presso la cui segreteria la B. prestava servizio, per rispondere alla richiesta del R., Rettore dell’Università, di chiarimenti in ordine ad un diverbio avuto dalla B. con un collega, riguardo al quale era stato instaurato un procedimento disciplinare a carico di entrambi; b) di un riferimento a suo comportamento improntato a mania di persecuzione, contenuto nella successiva nota del R., con cui era stato formulato alla B. un addebito disciplinare.

Il procedimento disciplinare si era concluso senza l’emissione di provvedimenti sanzionatoli nei riguardi della B. e la stessa, adducendo che le due note erano rimaste nel suo fascicolo personale, quale allegati agli atti del detto procedimento, aveva chiesto il risarcimento dei danni per il loro carattere ingiurioso e diffamatorio. p. 2. Il Tribunale – per quello che si legge nella sentenza impugnata – aveva rigettato la domanda sia perchè le espressioni usate nelle due note erano "innocue ed insignificanti" sia perchè comunque non era stato dimostrato un danno.

La Corte d’Appello ha ritenuto le espressioni usate nelle due note gravemente offensive della dignità e del decoro della B., tanto più ove si consideri che le frasi sono state adoperate, nell’ambito di una corrispondenza informativa volta a chiarire e contestare i fatti da cui è scaturito un procedimento disciplinare, da soggetti che professionalmente rivestivano un ruolo di preminenza nel luogo lavorativo della B. … e che sono pervenute, quindi, alla conoscenza non solo dell’interessata ma anche di altri soggetti estranei. Ha poi, affermato che le espressioni usate, infatti, descrivono la B. quale soggetto affetto da malattia psichiatrica che a causa di tale comportamento provocava disturbo nell’ambiente di lavoro e manifestano negative ed infondate considerazioni che senza dubbio concretano un illecito diffamatorio ed ingiurioso, offendendo il decoro e la dignità dell’appellante.

Quindi, nel presupposto che tale illiceità si connotasse sul piano penale e la relativa valutazione potesse farsi da parte del giudice civile, ha ravvisato il danno ai sensi dell’art. 185 c.p. e dell’art. 2059 c.c.. p. 3. Al ricorso per cassazione ha resistito la B. con controricorso, nel quale ha anche svolto ricorso incidentale condizionato.

All’esito dell’udienza la B. ha depositato osservazioni scritte ai sensi dell’art. 379 c.p.c., u.c..

Motivi della decisione

1. Preliminarmente si rileva che il ricorso incidentale va trattato congiuntamente a quello principale, in seno al quale è stato proposto.

2. Con il primo motivo si denuncia "Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3".

Vi si sostiene, sulla premessa che l’atto di citazione di primo grado e l’atto di appello dedussero come causa petendi della domanda la sussistenza del reato di diffamazione nella frase "mania di persecuzione" contenuta nelle due note del Rettore e del Direttore dell’Istituto, che la Corte d’Appello sarebbe incorsa in una parziale ultrapetizione, là dove, ritenendo che il contenuto delle note integrava un illecito diffamatorio ed ingiurioso, avrebbe mutato, con il riferirsi al reato di ingiuria, la causa petendi ed il petitum sostanziale della domanda, tenuto conto delle diverse modalità di realizzazione dei reati di ingiuria e di diffamazione.

2.1. Il motivo, che avrebbe dovuto evocare l’art. 360 c.p.c., n. 4 piuttosto che il suo n. 3, integrando l’ultrapetizione la violazione di una norma del procedimento, qual è l’art. 112 c.p.c., è inammissibile perchè articolato in violazione della norma dell’art. 366 c.p.c., n. 6, che, com’è noto costituisce il precipitato normativo del principio di autosufficienza nell’esposizione del motivo di ricorso per cassazione.

Detta norma prescrive che il ricorrente per cassazione a pena di inammissibilità del ricorso e, quindi, nell’ambito del motivo su cui esso si basa, fornisca l’indicazione specifica del documento e/o dell’atto processuale su cui esso si fonda.

Nella specie, vertendosi in tema di vizio del procedimento fondato sul contenuto originario della domanda proposta dalla B., che si asserisce essere stata proposta soltanto con l’evocazione della riconducibilità dei fatti alla figura delittuosa della diffamazione, detta indicazione specifica avrebbe richiesto la riproduzione del tenore della domanda introduttiva del giudizio nella parte in cui avrebbe assunto quello specifico contenuto ed inoltre, la riproduzione del contenuto dell’atto di appello per la parte in cui aveva mantenuto alla devoluzione del giudizio in appello la correlazione a quel contenuto. In mancanza dell’indicazione specifica nei termini ora detti la Corte non è messa in grado di procedere allo scrutinio del motivo di ricorso confrontando la prospettazione dei ricorrenti con gli atti processuali de quibus, ma dovrebbe procedere alla soggettiva ricerca di quale contenuto di essi in ipotesi possa corrispondere a detta prospettazione generica. Con la conseguenza che la Corte dovrebbe sostituirsi ai ricorrenti nell’attività di specificazione che la legge vuole affidata al ricorrente a pena di inammissibilità. E con il congiunto rischio che l’attività di riscontro non si indirizzi verso la parte dell’atto processuale che in niente dei ricorrenti avrebbe dovuto dare riscontro alla loro prospettazione (sul rilievo della mancata indicazione specifica degli atti processuali nei termini ora detti, si veda da ultimo fra tante: Cass. n. 11974 del 2011 e (ord.) n. 15341 del 2011; anteriormente Cass. (ord.) n. 22266 del 2008, fra tante; con riferimento ad ipotesi di deduzione della violazione dell’art. 112, sia pure in fattispecie anteriore all’introduzione dell’art. 366 c.p.c., n. 6 e, quindi, risolta con l’evocazione della autosufficienza, ma i cui argomenti sono perfettamente riproponibili sotto la vigenza di quella norma, si veda Cass. n. 6361 del 2007; con riguardo all’art. 366, n. 6 si veda invece Cass. (ord.) n. 9108 del 2011).

L’art. 366 c.p.c., n. 6 è, inoltre, inosservato anche per il fatto che i ricorrenti, oltre a non riprodurre il contenuto degli atti su cui il motivo di fonda (il che è già decisivo), non hanno indicato se e dove essi siano stati prodotti in questo giudizio di legittimità e nemmeno se essi siano presenti nel fascicolo di ufficio e, quindi, se si sia inteso assolvere all’onere di indicazione specifica assumendo che essi sarebbero presenti in quel fascicolo e ciò anche agli effetti del diverso onere della loro produzione, ad altri effetti imposto dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4. Un siffatto modo di adempimento dell’onere di indicazione specifica sarebbe stato consentito in base alla recente esegesi di quest’ultima norma fornita da Cass. sez. un. n. 22726 del 2011, che ha lasciato invece immutato il rilievo della indicazione specifica ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6 per gli atti processuali in non diversa guisa che per i documenti, così statuendo: In tema di giudizio per cassazione, l’onere del ricorrente, di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7 di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, "gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda" è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 3, ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi. Quest’ultima precisazione significa che se la parte intende assolvere all’onere di indicazione specifica di atti presenti nel fascicolo d’ufficio facendo riferimento alla loro presenza in esso o in fascicoli di parte che si trovavano in esso nella fase di merito precedente deve dirlo espressamente. p. 2.2. L’inammissibilità del motivo, pur esimendo dal prendere specifica posizione sul rilievo che esso svolge nel senso che l’ipotizzata prospettazione della vicenda come diffamazione nella domanda giudiziale avrebbe escluso che la Corte di merito qualificasse parte del fatto come ingiuria nell’esercizio del potere di qualificazione in ture dei fatti, non esclude la considerazione che una simile prospettazione si sarebbe dovuta confrontare con l’essere le figure della ingiuria e della diffamazione fattispecie giuridiche da applicare a fattispecie concrete e, quindi, nella specie ai fatti posti a fondamento della domanda. p. 3. Con il secondo motivo si lamenta "violazione e falsa applicazione dell’art. 595 c.p.", nonchè "violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ." in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Il motivo è illustrato con l’asserto che la Corte territoriale avrebbe affermato il contenuto diffamatorio delle due comunicazioni scritte … rilevandone l’avvenuta conoscenza da parte di altri soggetti estranei e sotto tale profilo avrebbe violato il principio dell’onere della prova, poichè la B. non ha provato e neppure chiesto di provare l’avvenuta conoscenza delle due lettere da parte di altri soggetti diversi da sè medesima, dal Rettore e dal Direttore dell’Istituto. Dalla mancata rilevazione dell’inadempimento dell’onere della prova sarebbe derivato l’errore della Corte di merito nel ritenere l’esistenza del delitto di diffamazione, difettando la pluralità delle persone interessate alla comunicazione ritenuta lesiva. p. 3.1. Il motivo è gradatamente inammissibile per inosservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6, perchè è generico e perchè non si rapporta alla motivazione della sentenza impugnata. p. 3.1.1. Quanto al primo rilievo, si osserva che il motivo si fonda sul contenuto intrinseco e sul valore delle due note nel procedimento in relazione al quale vennero redatte, ma non fornisce nè l’indicazione specifica riguardo al se e dove siano state prodotte nella sede di merito e soprattutto in questa sede di legittimità al fine di poter essere esaminate dalla Corte e ciò anche al di là della parziale riproduzione del contenuto che se ne fornisce nella parte del ricorso dedicata all’esposizione del fatto (riproduzione, peraltro, che non è conforme a quanto riprodotto nella sentenza, rispetto alla nota di provenienza rettorale, con conseguente alterazione del possibile suo significato). In tal modo risultano violati i principi esegetici elaborati dalla ormai consolidata giurisprudenza della Corte a proposito dell’onere dell’art. 366, n. 6 riguardo ai documenti (ex multis, si veda originariamente Cass. (ord.) n. 22303 del 2008, e, quindi, Cass. sez. un. nn. 28547 del 2008 e 7161 del 2010). p. 3.1.2. Sotto il secondo aspetto, il motivo, sottacendo ogni riferimento alla collocazione procedimentale dei detti documenti e, quindi, al loro profilo funzionale ed omettendo di riferire quale era stata la prospettazione della B. circa la loro idoneità diffamatoria sotto il particolare profilo della comunicazione con più persone, si presenta del tutto generico, sì da impingere nel seguente principio di diritto, che ne determina l’inammissibilità;

Il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso per cassazione è diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorchè la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo ( art. 156 c.p.c., comma 2). Tali principi, applicati ad un atto di esercizio dell’impugnazione a motivi tipizzati come il ricorso per cassazione e posti in relazione con la particolare struttura del giudizio di cassazione, nel quale la trattazione si esaurisce nella udienza di discussione e non è prevista alcuna attività di allegazione ulteriore (essendo le memorie, di cui all’art. 378 cod. proc. civ., finalizzate solo all’argomentazione sui motivi fatti valere e sulle difese della parte resistente), comportano che il motivo di ricorso per cassazione, ancorchè la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello), debba necessariamente essere specifico, cioè articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarlo. In riferimento alla deduzione di un "error in procedendo" e, particolarmente, con riguardo alla deduzione della violazione di una norma afferente allo svolgimento del processo nelle fasi di merito, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 4 il rispetto dell’esigenza di specificità non cessa di essere necessario per il fatto che, com’è noto, la Corte di Cassazione, essendo sollecitata a verificare se vi è stato errore nell’attività di conduzione del processo da parte del giudice del merito, abbia la possibilità di esaminare direttamente l’oggetto in cui detta attività trovasi estrinsecata, cioè gli atti processuali, giacchè per poter essere utilmente esercitata tale attività della Corte presuppone che la denuncia del vizio processuale sia stata enunciata con l’indicazione del (o dei) singoli passaggi dello sviluppo processuale nel corso del quale sarebbe stato commesso l’errore di applicazione della norma sul processo, di cui si denunci la violazione, in modo che la Corte venga posta nella condizione di procedere ad un controllo mirato sugli atti processuali in funzione di quella verifica. L’onere di specificazione in tal caso deve essere assolto tenendo conto delle regole processuali che presiedono alla rilevazione dell’errore ed alla sua deducibilità come motivo di impugnazione (Cass. n. 4741 del 2005, seguita da numerose conformi). p. 3.1.3. Il terzo rilievo di inammissibilità si giustifica, perchè la scarna illustrazione del motivo non si fa carico del punto della motivazione della decisione impugnata, nel quale si dice espressamente che le due note sarebbero pervenute a conoscenza anche di altri soggetti, essendo la corrispondenza con esse attuatasi volta a chiarire e contestare fatti da cui è scaturito un procedimento disciplinare. Ne consegue l’applicazione del seguente principio di diritto: Il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un "non motivo", è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4 (Cass. n. 359 del 2005, seguito da numerose conformi). p. 4. Con il terzo motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione dell’art. 595 c.p.", in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3", sotto il profilo che erroneamente la Corte etnea avrebbe considerato che per la ricorrenza della fattispecie di cui all’art. 595 c.p. sia sufficiente che la comunicazione offensiva sia conosciuta da più persone, mentre invece occorre che essa sia rivolta a più persone. Nella specie la comunicazione del Ru. era diretta al solo Rettore e quella di Costui alla sola B.. p. 4.1. Anche questo motivo è inammissibile perchè merita i tre gradati rilievi di inammissibilità svolti a proposito del primo, atteso che si fonda sulle note, di cui non s’è fornita l’indicazione specifica, si connota come generico per le stesse ragioni poco sopra indicate, e nuovamente trascura di farsi carico della circostanza che le due note, per quello che suggerisce la sentenza impugnata, si inserivano nell’ambito di un procedimento disciplinare e tale è stata la ragione, secondo la sentenza, per cui si sarebbe evidenziata la loro idoneità alla conoscenza di altri soggetti estranei, affermazione che – pur non scevra da genericità e tecnicità – avrebbe richiesto una specifica argomentazione per negare che le note fossero "rivolte" a più persone, nel senso che avessero una idoneità a comunicare il loro contenuto a più persone. Sotto quest’ultimo aspetto sarebbe stato necessario evidenziare le caratteristiche del procedimento disciplinare nel quale le due note si inserivano onde disvelarne il profilo dinamico.

4.2. Il Collegio, inoltre, osserva che, avendo la Corte ritenuto le due note contemporaneamente ingiuriose (e, quindi, integranti il delitto di ingiuria) e diffamatorie (e, quindi, integranti quello di diffamazione), l’ipotetica esclusione del rilievo della diffamazione non sarebbe di per sè idonea ad escludere la responsabilità, ma semmai, attribuendo al fatto solo il valore dell’ingiuria verrebbe ad incidere sul profilo della gravità del fatto e, quindi, sul danno, riguardo alla cui liquidazione non v’è specifica impugnazione. Onde sotto tale profilo il motivo sarebbe anche inidoneo a giustificare la cassazione della sentenza e semmai potrebbe giustificarne – se il suo esame fosse possibile – una correzione della motivazione. p. 5. Con il quarto motivo si è dedotta "violazione e falsa applicazione dell’art. 594 c.p.", in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Vi si sostiene che la comunicazione del Ru. al Rettore non avrebbe potuto integrare il delitto di ingiuria, perchè non si trattava di comunicazione diretta alla B., onde la Corte territoriale avrebbe erroneamente ravvisato quel delitto in una comunicazione offensiva diretta ad un soggetto diverso dalla persona offesa. p. 5.1. Il motivo non è ammissibile, perchè non è pertinente alla motivazione della sentenza impugnata, la quale non ha affermato affatto che la comunicazione proveniente dal Ru. avesse integrato il delitto di ingiuria. La sentenza impugnata non si è spinta a chiarire se entrambe le comunicazioni a suo dire integravano sia il delitto di ingiuria sia quello di diffamazione, o se, invece, l’una integrava un delitto e l’altra il delitto diverso. p. 6. Con il quinto motivo si denuncia "contraddittorietà della motivazione" in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Vi si osserva che la motivazione della sentenza, là dove ha affermato che le espressioni usate … manifestano negative ed infondate considerazioni che senza dubbio concretano un illecito diffamatorio ed ingiurioso, "sarebbe intrinsecamente contraddittoria poichè un medesimo atto non può realizzare l’illecito diffamatorio e insieme l’illecito ingiurioso", stante la differenza fra il reato di diffamazione ed il reato di ingiuria. La sentenza sarebbe, dunque, manifestamente contraddittoria nella parte in cui ha ritenuto che le due ridette comunicazioni integrassero sia l’illecito diffamatorio che ingiurioso. p. 6.1. Il motivo, in quanto proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 potrebbe sembrare prima facie privo di pertinenza con il paradigma normativo di cui a detta norma. Infatti, non lamenta un vizio della motivazione della sentenza impugnata quanto alla ricostruzione della c.d. quaestio facti (com’è coessenziale alla deduzione del vizo di cui al n. 5 citato), ma prospetta un vizio inerente una quaestio iuris e precisamente un vizio di c.d. sussunzione della fattispecie concreta sotto la normativa astratta che sarebbe stata ad essa adeguata. In tal modo si denuncia in buona sostanza un vizio di sussunzione sotto il profilo che la fattispecie concreta sarebbe stata contemporaneamente ricondotta a due diverse fattispecie astratte (ingiuria e diffamazione), mentre, invece, il modo di essere di ognuna a livello delle rispettive fattispecie astratte, non consentirebbe una simile congiunta sussunzione, dovendo la fattispecie concreta di cui è processo o essere ricondotta all’una o all’altra, cioè o al delitto di diffamazione o al delitto di ingiuria, oppure – trattandosi di condotte e, quindi, di comportamenti tenuti da e, pertanto, addebitabili a due diverse persone fisiche agenti nell’ambito delle loro funzioni – ipoteticamente ad una di tali figure per uno di essi ed all’altra per l’altro soggetto.

L’avere la Corte affermato che la fattispecie concreta, ma, in realtà, le due fattispecie concrete, quella addebitata al Ru. e quella addebitata al R., sarebbero state riconducibili tanto alla fattispecie della diffamazione quanto a quella dell’ingiuria evidenzia in realtà la denuncia di una contraddizione in iure della sentenza impugnata, perchè la stessa fattispecie concreta, per come ricostruita in fatto, sarebbe stata erroneamente ritenuta riconducibile a due diverse norme, ancorchè sia escluso in iure, proprio per essere la norma sull’ingiuria e quella sulla diffamazione due diverse figure di reato, che lo stesso fatto concreto possa essere sussumibile sotto entrambe ed essendo possibile solo che esso sia riconducibile per il suo modo di essere soltanto all’una o soltanto all’altra.

L’errore che si addebita alla sentenza impugnata è, pertanto, un errore di applicazione sia della norma disciplinatrice del delitto di diffamazione, sia della norma disciplinatrice del delitto di ingiuria.

Esso ha riguardato il procedimento con cui il giudice di merito, una volta ricostruita la fattispecie giudicata in fatto ed una volta assunta correttamente l’esegesi di una certa norma in astratto, ritiene o non ritiene che la fattispecie fattuale rientri oppure non rientri sotto l’ambito di quella norma. Siffatto errore è un errar iuris perchè, pur non afferendo alla ricostruzione del significato astratto della norma di cui trattasi ritiene che il suo ambito applicativo comprenda una fattispecie concreta che, in base a quel significato, pur assunto correttamente, non può esservi ricondotta.

Si tratta di quello che viene definito errore di sussunzione (in proposito, si veda Cass. sez. un. n. 5 del 2001 e Cass. n. 22348 del 2007, nonchè Cass. sez. un. n. 23287 del 2010).

Esso, riguardo all’applicazione delle norme di diritto sostanziale è denunciabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. p. 6.2. Ora, i ricorrenti lo hanno denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e come tale il relativo motivo potrebbe considerarsi inammissibile, perchè la sua illustrazione non è idonea allo scopo di rappresentare un vizio ai sensi di detta norma.

In linea generale, in simili situazioni, la Corte, essendo monopolio del ricorrente in Cassazione prospettare il o i motivi di ricorso parametrandoli al paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., non potrebbe sostituire all’indicazione fatta dai ricorrenti quella corretta.

Tanto più in una situazione in cui, pur essendo articolata una quaestio iuris nessuna indicazione nell’illustrazione del motivo si è fatta delle norme di diritto violate.

Il motivo potrebbe, dunque, essere dichiarato inammissibile sulla base del seguente principio di diritto: qualora l’illustrazione di un motivo di ricorso per cassazione prospettato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 per contraddittorietà della motivazione riveli che il ricorrente non denuncia alcun vizio della motivazione relativo alla ricostruzione della quaestio facti, bensì un vizio relativo alla sussunzione della fattispecie in fatto (riguardo alla cui ricostruzione non si muovono contestazioni) sotto la fattispecie giuridica astratta ad essa applicabile (nella specie essendosi lamentato che il fatto concreto sarebbe stato ricondotto alle due fattispecie normative astratte della diffamazione e dell’ingiuria contemporaneamente, mentre, secondo i ricorrenti, poteva essere ricondotto solo all’una o solo all’altra), il motivo è inammissibile per inidoneità al raggiungimento dello scopo, in quanto avrebbe dovuto essere dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e tenuto conto che compete al ricorrente indicare nell’atto di impugnazione in sede di legittimità quale tra i motivi tipici e limitati per cui è proponibile intende prospettare. p. 6.3. Tuttavia, nella fattispecie, il Collegio reputa che l’applicazione di questo principio non sia nella specie giustificata, perchè nell’illustrazione del motivo di cui trattasi i ricorrenti hanno fatto riferimento con un si è già visto nei motivi precedenti, alla differenza, codicisticamente affermata, tra reato di diffamazione e reato di ingiuria. Ne deriva che l’evocazione del reato di diffamazione e del reato di ingiuria, se raccordata con i chiari riferimenti alle norme che nell’illustrazione dei motivi precedenti sono state evocate in riferimento ad esse, in realtà si concreta in una indicazione indiretta, cioè tramite i riferimenti normativi presenti nella detta illustrazione delle norme che l’erroneità de procedimento di sussunzione avrebbe violato.

Sicchè, non si può dire che l’illustrazione del motivo in esame sia inidonea al raggiungimento dello scopo di individuare l’esatta dimensione nel paradigma dell’art. 360 c.p.c. al di là della formale evocazione del n. 5 di detta norma. Ciò sarebbe stato se nella struttura del ricorso a proposito dei precedenti motivi non vi fossero stati i richiami alle norme concernenti diffamazione ed ingiuria e, quindi, l’espressa evocazione di tali figure di reato non fosse stata raccordabile ad essi. li motivo è, dunque, ammissibile. p. 6.4. Il motivo è fondato.

La sentenza impugnata ha proceduto alla sussunzione dei comportamenti tenuti dalle due persone fisiche agenti per conto della amministrazione con nesso di immedesimazione organica senza preoccuparsi di precisare quali tra queste alternative si fosse, a suo avviso, verificata e precisamente:

a) se e come i comportamenti tenuti da ciascuna di esse (o quelli di alcuna di esse) potessero essere riconducibili sia all’ingiuria che alla diffamazione, il che sarebbe potuto accadere solo se si fosse trattato per ciascuno di distinti comportamenti sul piano temporale, nel senso che ciascuna di esse avrebbe commesso prima un reato e poi un altro;

b) se invece e perchè il comportamento tenuto da una di esse fosse riconducibile ad una fattispecie di reato e quello tenuto dall’altra alla diversa fattispecie, cioè se rispettivamente il R. ed il Ru. avessero commesso l’uno un’ingiuria e l’altro una diffamazione o viceversa;

c) se e perchè, in ipotesi, uno dei due avesse commesso un reato e l’altro entrambi i reati.

La Corte territoriale avrebbe dovuto, sulla base delle risultanze degli atti, cioè dopo avere evidenziato chiaramente a quali di esse intendesse riferirsi, precisare quali note fattuali emergenti da essi intendesse assumere come premessa per il procedimento di sussunzione rispettivamente sotto la figura del reato di diffamazione e sotto la figura del reato di ingiuria. E, poichè tra gli elementi di un fatto compiuto da una persona fisica rientra necessariamente l’indicazione del soggetto che le compie, avrebbe dovuto dire quale comportamento del R. e quale comportamento del Ru. intendeva sussumere sotto la figura dell’ingiuria o della diffamazione oppure quali comportamenti dell’uno e/o dell’altro – in quanto temporalmente distinti – intendeva sussumere sotto una figura di reato e quali sotto l’altra.

Nulla di tutto ciò la Corte siciliana ha fatto con il riferimento assolutamente generico ad un illecito diffamatorio ed ingiurioso, sicchè il procedimento di sussunzione risulta nella sentenza assolutamente inesistente e, quindi, la sentenza stessa risulta assolutamente priva di motivazione in iure.

La sentenza va, dunque, cassata ed il giudice di rinvio dovrà procedere alla sussunzione dei fatti sotto le figure delittuose in questione spiegando quale comportamento del R. e quale comportamento del Ru. risulti riconducibile all’una o all’altra oppure se, in presenza di comportamenti temporalmente distinti, alcuno di essi possa in tempi diversi essere incorso in entrambe. Lo farà indicando preliminarmente in modo preciso i fatti da sussumere per come emergenti in atti. Le argomentazioni svolte dalle parti ricorrenti a sostegno dei motivi dichiarati inammissibili potranno, naturalmente, essere riproposte in relazione all’assolvimento da parte del giudice di rinvio del nuovo onere decisionale. p. 7. Con il sesto motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione dell’art. 51 c.p." e "violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c." in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Vi si lamenta che la Corte avrebbe omesso di esaminare l’eccezione che i ricorrenti avevano dedotto adducendo che le due comunicazioni scritte, pur se astrattamente offensive, erano stata redatte nell’adempimento di un dovere. Ne sarebbe derivata una violazione del principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato. Si sostiene, poi, che l’eccezione sarebbe stata anche fondata. p. 7.1. Il motivo è inammissibile per la ragione che è prospettato senza l’osservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto non si indica specificamene l’atto processuale su cui il ricorso si fonda, cioè il tenore dell’eccezione, la sede in cui nel giudizio di merito di primo grado era stata prospettata e – soprattutto – il tenore dell’atto di appello con cui sarebbe stata riproposta nel giudizio di appello. In proposito valgono gli stessi rilievi svolti in riferimento all’esegesi dell’art. 366 c.p.c., n. 6 nello scrutinio del primo motivo. p. 8. Il ricorso principale, conclusivamente va accolto quanto al quinto motivo, mentre tutti gli altri motivi su cui si fonda vanno dichiarati inammissibili. p. 9. Il ricorso incidentale della B. resta assorbito, in quanto, per effetto della cassazione disposta in accoglimento del quinto motivo, resta travolta la statuizione della sentenza impugnata sulla liquidazione del danno, alla quale quel giudice dovrà procedere se, all’esito della rinnovazione del giudizio sull’an nel rispetto del principio di diritto fissato sopra perverrà nuovamente a conclusione favorevole quanto ad esso nei confronti di tutti o anche solo di alcuni fra i ricorrenti. Le argomentazioni svolte dalla B. potranno essere riproposte davanti al giudice di rinvio.

10. Il giudice di rinvio si designa in altra Sezione della Corte d’Appello di Catania, comunque in diversa composizione. Detto giudice deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte decidendo sui ricorsi riuniti, accoglie il quinto motivo del ricorso principale. Dichiara inammissibili gli altri motivi. Dichiara assorbito il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia al altra sezione della Corte d’Appello di Catania, comunque in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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