Cass. civ. Sez. II, Sent., 05-04-2012, n. 5510 Vendita di cosa futura

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 10-9-1992 le società Alfa, Beta e Gamma e la Società Generali Costruzioni convenivano in giudizio F.A. e T.M.C., per ottenere il rilascio di un appartamento, di proprietà della Società Generali Costruzioni, sito in (OMISSIS), detenuto senza titolo dai convenuti. Le attrici affermavano che la Società Generali Costruzioni era stata dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Pescara del 5-6-1974, e che le società Alfa, Beta e Gamma erano divenute assuntrici del concordato fallimentare, divenendo cessionarie di tutte le attività fallimentari.

Nel costituirsi, i convenuti contestavano la fondatezza della domanda e chiedevano in via riconvenzionale che venisse accertato che l’appartamento in questione era stato acquistato dalla loro dante causa F.M. in virtù di scrittura privata del 4-10-1966, contenente una vendita di cosa futura, ovvero, in subordine, era divenuto di loro proprietà per intervenuta usucapione.

Nel corso del giudizio veniva integrato il contraddittorio nei confronti della Curatela della Società Generali Costruzioni e, a seguito della morte di F.A., si costituiva la sua unica erede F.E..

Con sentenza del 21-4-2004 il Tribunale di Pescara accoglieva la domanda, condannando i convenuti al rilascio dell’immobile.

Avverso tale decisione proponevano appello F.E. e G.A. (quale erede testamentaria di T.C.).

Con sentenza depositata il 12-1-2007 la Corte di Appello di L’Aquila, in accoglimento del gravame, dichiarava che F.M. aveva acquistato la proprietà dell’appartamento per cui è causa con scrittura privata del 6-7-1970, e dichiarava compensate le spese di doppio grado. In motivazione la Corte territoriale rilevava che, pur essendo la scrittura in contestazione intestata "preliminare di contratto di compravendita", e pur essendo in essa ravvisabili affermazioni tipiche di un preliminare ("si obbliga a vendere"; "si obbliga ad acquistare"), la valutazione complessiva dell’atto induceva a qualificare il medesimo come vendita di cosa futura ex art. 1472 c.c., assumendo valore indicativo, al riguardo: 1) la corresponsione dell’integrale pagamento del prezzo pattuito; 2) la mancata assunzione dell’obbligo di prestazione del consenso in sede di un contratto successivo e definitivo; 3) il fatto che F. M., in data 24-9-1971, aveva corrisposto alla Società Generali Costruzioni la somma di L. 1.070.000 per "onorare l’impegno relativo al comma c) del paragrafo 3" dell’atto di cui trattasi, con ciò adempiendo ad ogni sua obbligazione, senza esigere la stipula del definitivo; 4) il fatto che la Società Generali Costruzioni, in data 6-7-1970, aveva consegnato alla F. l’appartamento, senza esigere la stipula del definitivo.

Per la cassazione di tale sentenza ricorrono le società Alfa s.r.l., Beta s.r.l. e Gamma s.r.L, sulla base di due motivi.

Resistono con controricorso F.E. e G.A..

Le ricorrenti hanno presentato istanza di persistenza, ai sensi della L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 26.

In prossimità dell’udienza le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo le ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg. e la contraddittorietà della motivazione. Deducono che il chiaro tenore letterale della scrittura privata del 4-10-1966, desumibile sia dalla intestazione ("preliminare di contratto di vendita") che dalle inequivoche espressioni usate dai contraenti ("la Società Generali Costruzioni … promette e si obbliga a vendere alla signora…che promette e si obbliga ad acquistare"; "la vendita sarà effettuata"), denotano che non si è in presenza di una vendita di cosa futura, bensì di un preliminare, "propedeutico e programmatico" rispetto a un futuro contratto di vendita. Sostengono, pertanto, che la Corte di Appello avrebbe dovuto arrestarsi al significato letterale delle parole usate dai contraenti, senza avvalersi degli altri criteri ermeneutici indicati dall’art. 1362 c.c., ai quali è possibile ricorrere solo in caso di mancanza di chiarezza, precisione ed univocità delle espressioni letterali adottate dalle parti nella redazione del testo negoziale.

Con il secondo motivo le ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1363 e 1472 c.c., nonchè l’omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo. Sostengono, in particolare, che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Appello, nella specie non vi è stato l’integrale pagamento del prezzo; che, comunque, l’integrale pagamento del prezzo, al pari della consegna del bene, non vale a trasformare un contratto obbligatorio in un contratto ad effetti reali; che è immotivata e incomprensibile l’affermazione secondo cui le parti non avrebbero assunto l’obbligo di prestare il consenso "in sede di futuro contrahere", a fronte di espressioni come "preliminare di contratto di vendita" e, nel corpo dell’atto, di altre quali "promette e si obbliga a vendere", "promettono e si obbligano ad acquistare", "la vendita sarà effettuata".

All’esito dell’illustrazione delle censure mosse, le ricorrenti formulano tre quesiti di diritto (i primi due riferibili al primo motivo e il terzo al secondo), con cui chiedono di accertare: 1) se in presenza di espressioni, nel testo di un contratto, il cui significato letterale appaia non equivoco, sia consentito al giudice adottare elementi di interpretazione sussidiari; 2) se, ritenuta la non univocità e chiarezza delle espressioni negoziali, il giudice possa omettere di spiegare le ragioni di tale suo convincimento, pur costituendo questo il dato presupposto del ricorso a criteri di interpretazione sussidiari; 3) se il pagamento del prezzo pattuito e la consegna dell’immobile promesso in vendita possano costituire elementi interpretativi bastevoli a qualificare come vendita di cosa futura un preliminare di compravendita.

2) I due motivi, che per ragioni di connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

E’ noto che il contratto preliminare e il contratto definitivo di compravendita si differenziano per il diverso contenuto della volontà dei contraenti, che nel primo caso è diretta ad impegnare le parti a prestare, in un momento successivo, il loro consenso al trasferimento della proprietà, e nel secondo ad attuare il trasferimento stesso, contestualmente o a decorrere da un momento successivo alla conclusione del contratto, senza necessità di ulteriori manifestazioni di volontà.

Più specificamente, il contratto preliminare di vendita di cosa futura e il contratto di vendita di cosa futura si distinguono tra loro in quanto il primo ha come contenuto soltanto la stipulazione di un successivo contratto definitivo, e costituisce un contratto in formazione produttivo di semplici effetti preliminari, laddove il secondo si perfeziona "ab initio" ed attribuisce lo "ius ad habendam rem" nel momento in cui la cosa venga ad esistenza (Cass. 1-12-2010 n. 24396; Cass. 1-3-2007 n. 4888; Cass. 27-5-1992 n. 6383).

Lo stabilire se le parti abbiano inteso stipulare un contratto definitivo ovvero un contratto preliminare di compravendita, rimettendo l’effetto traslativo ad una successiva manifestazione di consenso, si risolve in un accertamento di fatto riservato al giudice di merito; tale accertamento è incensurabile in Cassazione se è sorretto da una motivazione sufficiente ed esente da vizi logici o da errori giuridici e sia il risultato di un’interpretazione condotta nel rispetto delle regole di ermeneutica contrattuale dettate dall’art. 1362 c.c. e segg. (Cass. 9-6-2011 n. 12634; Cass. 20-11- 2007 n. 24150; Cass. 4-10-2006 n. 21381; Cass. 21-5-2002 n. 7429).

Nel caso di specie, la Corte di Appello, attenendosi alla regola fondamentale dettata dall’art. 1362 c.p.c., comma 1, non si è limitata a prendere in considerazione il senso letterale, solo apparentemente univoco, delle parole adoperate nella redazione del testo contrattuale, ma ha indagato sulla reale volontà dei contraenti; e, nel procedere a tale operazione, ha rilevato che, pur essendo la scrittura privata del 4-10-1966 intestata "preliminare di contratto di compravendita", e pur contenendo la stessa affermazioni tipiche di un preliminare (usi obbliga a vendere ", "si obbliga ad acquistare "), la valutazione complessiva dell’atto induce a ritenere che con esso i contraenti abbiano inteso porre in essere una vendita di cosa futura, ex art. 1472 c.c..

A tali conclusioni il giudice del gravame è pervenuto sulla base di un percorso argomentativo esaustivo e congruente, con cui ha valorizzato una serie di circostanze convergenti (quali la corresponsione dell’integrale pagamento del prezzo pattuito; la mancata assunzione dell’obbligo di prestazione del consenso per un successivo contratto; il fatto che nè l’acquirente nè la venditrice, al momento in cui hanno provveduto rispettivamente ad onorare ogni impegno economico ed alla consegna dell’immobile, abbiano chiesto la stipulazione dell’atto definitivo) che, pur prestandosi astrattamente, attraverso una valutazione parcellizzata (quale si otterrebbe, ad esempio, prendendo in considerazione il solo dato del pagamento del prezzo), a una diversa interpretazione, in modo non irragionevole sono state considerate sintomatiche dell’intenzione dei contraenti di concludere, con la scrittura privata in esame, un contratto definitivo di compravendita di cosa futura. Gli elementi considerati, infatti, valutati nel loro insieme, offrono una base giustificativa plausibile e non illogica all’opzione ermeneutica recepita dal giudice di appello.

L’indagine esperita dalla Corte territoriale, inoltre, appare rispettosa delle regole dettate dagli artt. 1362 e 1363 c.c., dovendosi osservare che, nel contrasto insorto tra le parti in ordine alla natura giuridica della scrittura privata in questione, legittimamente il giudice di merito ha ritenuto di attribuire alla stessa una qualificazione diversa da quella (di contratto preliminare) assegnatale dai contraenti. Per costante giurisprudenza, infatti, il nomen juris utilizzato dalle parti non vincola il giudice, il quale deve aver riguardo all’effettivo contenuto del rapporto e, in applicazione delle regole ermeneutiche dettate dall’art. 1362 c.c. e segg., può ben discostarsi dal nomen impiegato, allorquando esso risulti incompatibile con l’effettiva volontà contrattuale (v. Cass. 11-6-1991 n. 6610; Cass. 29-11-1988 n. 6439).

Orbene, al fine di verificare se il contenuto del contratto fosse o meno compatibile con il predetto nomen juris, la Corte territoriale ha correttamente ricercato, ai sensi degli artt. 1362 e 1363 c.c., quale fosse stata la comune intenzione dei contraenti, senza limitarsi al senso letterale delle parole usate dai contraenti, ma tenendo conto sia del comportamento complessivo delle parti successivo alla stipula del contratto, sia del complesso delle pattuizioni. Il tutto in linea con il principio affermato dalla giurisprudenza, secondo cui, al fine di individuare la natura preliminare o definitiva di un contratto di vendita, non sono decisivi nè il trasferimento del possesso del bene ed il pagamento ". del prezzo, non incompatibili con la natura preliminare del contratto, nè il mero dato letterale costituito dalla intitolazione dell’atto come "compromesso" e dall’impiego di espressioni quali "promette di vendere, promette di acquistare", nè, infine, la riserva di futura formazione di atto pubblico, che può avere funzione meramente riproduttiva e/o ricognitiva di una precedente definitiva compravendita, bensì occorre ricostruire la "comune intenzione" delle parti, con il ricorso ad ogni elemento utile nell’ambito della cosiddetta interpretazione soggettiva e, se del caso, agli strumenti di interpretazione oggettiva ex art. 1366 c.c. e segg. (v. Cass. 5-4-1984 n. 2204; Cass. 13-5-1982 n. 3001; Cass. 5-11- 1980 n. 5940).

Non sussistono, pertanto, i vizi denunciati dalle ricorrenti.

E’ evidente, al contrario, che questi ultimi, con le censure mosse, tendono sostanzialmente ad ottenere una interpretazione della scrittura privata in contestazione diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, che, in quanto sorretta da una motivazione corretta sul piano logico e giuridico, si sottrae al sindacato di questa Corte.

3) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese sostenute dalle resistenti nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese, che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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