Cass. civ. Sez. II, Sent., 05-04-2012, n. 5504 Risoluzione del contratto per inadempimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- M.E. esponeva che: con scrittura privata del 6 -2- 1971 la società Mari del Sud s.p.a. le aveva trasferito la metà indivisa di un terreno sito in (OMISSIS) e nella medesima data si era obbligata con una seconda scrittura a curare, nell’interesse di entrambe le parti, la edificazione del terreno in questione;

la predetta società si era resa inadempiente agli obblighi di cui alla seconda scrittura.

Ciò posto, l’istante conveniva in giudizio la società Mari del Sud davanti al Tribunale di Messina per sentire: a) dichiarare l’acquisto della proprietà della metà del suddetto terreno; b) condannarsi la convenuta al risarcimento dei danni; C) procedersi allo scioglimento della comunione con divisione del terreno previa valutazione dei miglioramenti apportati dall’attore.

Si costituiva la convenuta che resisteva alla domanda, eccependo fra l’altro la estinzione per prescrizione del diritto di cui alla seconda scrittura.

Con sentenza non definitiva del 30 gennaio 1987 il Tribunale dichiarava l’avvenuto acquisto, da parte dell’attore, della metà indivisa del terreno de quo in forza della prima scrittura, mentre rigettava la domanda relativamente alla seconda scrittura ritenendo estinti per prescrizione gli obblighi da essa derivanti.

Procedutosi al prosieguo del giudizio, con sentenza definitiva del 24 gennaio 2001 il Tribunale disponeva la divisione dell’immobile in due lotti, condannando la convenuta a pagare al M. il 50% del costo delle opere eseguite dal medesimo e quest’ultimo a favore della convenuta il 50% del valore locativo degli immobili dal medesimo goduti.

Interposti avverso le predette decisioni appello principale da parte del’attore e incidentale da parte dalle società Pietro Barbaro s.p.a., subentrata alla società Mari del Sud s.p.a., con sentenza dep. il 9 luglio 2009 la Corte di appello di Messina, in parziale riforma della sentenza definitiva: a) poneva a carico dell’assegnatario del secondo lotto l’obbligo di corrispondere a favore dell’assegnatario del primo lotto il conguaglio di L. 5.312.000 con interessi e rivalutazione; b) condannava la società Pietro Barbaro s.p.a. a pagare al M. il 50% dei miglioramenti eseguiti Euro 3.116,18 con interessi e rivalutazione; e) condannava il M. al pagamento in favore della predetta società del 50% dei frutti civili ricavabili dagli immobili nel periodo 31-3-1973/30- 9-2001, liquidati in Euro 58.462,92 oltre interessi.

Per quel che ancora interessa nella presente sede, i Giudici ritenevano quanto segue.

Il diritto di cui alla seconda scrittura era da ritenersi prescritto, essendo esigibile ab initio, tenuto conto della natura delle complesse obbligazioni che, presupponendo un adempimento progressivo, comportavano che la mancata esecuzione di quella preliminare – avente a oggetto la predisposizione e approvazione del progetto – precludeva anche l’esecuzione degli obblighi successivi (realizzazione dell’edificio, anticipazione da parte della società del costo di costruzione, attribuzione pro quota alle parti delle unita immobiliari);

della insussistenza di un termine implicito di adempimento delle prestazioni;

del mancato esercizio da parte dell’attore della facoltà di cui all’art. 1183 cod. civ. di chiedere al giudice la fissazione del termine di adempimento determinavano.

In ogni caso, la domanda di danni doveva essere rigettata, posto che la mancata edificazione da parte della convenuta era stata determinata dalla condotta dell’attore che era immesso nel possesso del terreno e aveva proceduto a ristrutturare il vano A), a edificare i vani B) e C), le verande D) e E) utilizzandoli per attività commerciali.

Per quel che concerneva la divisione in due lotti dell’immobile, se, da un lato, la divisione era stata chiesta dallo stesso attore,d’altra parte il consulente tecnico d’ufficio ne aveva comunque accertato la comoda divisibilità.

Per legge erano a carico dei condividenti le spese della divisione, dovendo procedersi ad essa in ogni caso, cioè anche ove la società avesse, secondo gli accordi, eseguito l’obbligazione di edificare.

In relazione alla pretesa di ottenere le indennità di cui all’art. 1150 cod. civ. per le opere eseguite dall’attore, era confermata la decisione di primo grado che aveva riconosciuto il credito alla corresponsione del 50% soltanto delle spese sostenute, escludendo che potesse spettare al comproprietario il diritto sancito dalla norma invocata a favore del possessore.

Infine, l’attore era condannato al pagamento del 50% dei frutti civili sulla base del valore commerciale stimato dal consulente per il godimento degli immobili fino al 30-9-2001, "non risultando le vicende successive dell’immobile". 2.- Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il M. sulla base di cinque motivi.

Resiste con controricorso l’intimata proponendo ricorso incidentale affidato a un unico motivo.

Il M. ha depositato controricorso al ricorso incidentale. Le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

RICORSO PRINCIPALE. 1.1. – Il primo motivo, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 1183 c.c., dell’art. 1353 c.c. e segg., dell’art. 1362 c.c. e segg., dell’art. 2935 cod. civ., censura la decisione gravata laddove aveva ritenuto prescritto il diritto azionato, erroneamente considerando esigibile l’obbligazione assunta dalla società quando in relazione al complesso contenuto delle diverse obbligazioni l’adempimento era correlato al verificarsi degli eventi indicati nella seconda scrittura del 6-2-1971 la cui attuazione era rimessa alla parte obbligata: l’obbligo della società poteva decorrere dalla data in cui fossero stati realizzati gli adempimenti. La sentenza non aveva operato il necessario collegamento funzionale fra le due scritture del 6-2-1971: il che avrebbe escluso l’applicabilità della prima parte dell’art. 1183 cod. civ., dovendo considerarsi che non è necessario che la parte inadempiente faccia richiesta del termine di adempimento, essendo rimessa al giudice la verifica della congruità del termine trascorso; nella specie, la decorrenza del dies a quo sarebbe stato da individuare tenendo conto dei comportamenti contrattualmente imposti alla società.

I Giudici avevano erroneamente escluso l’esistenza di un termine implicito: quando, come nella specie, l’articolazione del rapporto risulti condizionata ad eventi che ne condizionano l’efficacia, l’esigibilità dell’adempimento va verificata alla stregua di tali eventi; la mancanza di un termine non comporta la esigibilità immediata.

La prescrizione non poteva decorrere dalla stipulazione del contratto e il M. non avrebbe potuto pretendere l’adempimento nè sarebbe stato conforme a buona fede costituire in mora il debitore richiedendo la fissazione del termine prima che si fossero verificate le condizioni ovvero che fosse trascorso un ragionevole lasso di tempo dal quale potesse presumersi l’inadempimento: d’altra parte, secondo la giurisprudenza di legittimità, la prescrizione decorre dal momento in cui si manifesta il danno.

La ricorrente censura quindi le motivazioni in base alle quali la sentenza aveva comunque rigettato la domanda di risarcimento del danno, evidenziando come le ragioni ivi indicate fossero inconferenti.

1.2.- Il motivo è fondato per quanto di ragione.

La sentenza, nel considerare che il dies a quo della prescrizione iniziava a decorrere dal momento della stipula della seconda scrittura, ha ritenuto immediatamente esigibile la prestazione, facendo riferimento alle obbligazioni pattuite con tale scrittura e, in particolare, alla prima di esse – predisposizione e approvazione del progetto del nuovo edificio – essendo ritenute da essa dipendenti le altre. Al riguardo i Giudici hanno, da un lato, escluso l’esistenza di un termine implicito e, quindi di eventi indipendenti dalla condotta della obbligata – che avrebbe dovuto attivarsi per rendere possibile l’attuazione del programma negoziale – dall’altro, hanno ritenuto che l’attore avrebbe potuto fare richiesta del termine di adempimento al giudice ai sensi dell’art. 1183 cod. civ..

Ciò posto, occorre rilevare che non avendo l’attore proposto una domanda di adempimento del contratto, l’obbligazione dedotta in giudizio non aveva oggetto l’esecuzione della prestazione pattuita quanto piuttosto quella – succedanea e distinta dalla prima – di risarcimento del danno derivante dalla mancata attuazione del programma negoziale. Ma, ai fini di stabilire l’inizio della decorrenza del termine di prescrizione della pretesa risarcitoria conseguente alla mancata esecuzione del contratto, dovevano assumere rilievo decisivo l’inadempimento colpevole del debitore e il danno causalmente ad esso collegato. In proposito, va considerato che la prescrizione, decorrendo dai momento in cui il diritto può essere fatto valere, presuppone la violazione del diritto: soltanto dal momento e per effetto di tale violazione sorge nel creditore l’interesse ad azionare la tutela per ottenere il soddisfacimento della pretesa.

Nella specie, il riferimento alla immediata esigibilità della prestazione pattuita contrattualmente ovvero il mancato ricorso al giudice per la fissazione del termine di adempimento erano erronei posto che l’interesse ad agire del creditore per ottenere il ristoro patrimoniale non poteva farsi risalire al momento in cui era sorto il diritto all’esecuzione del contratto – coincidente con la stipula del contratto costitutivo del diritto stesso – posto che esso assumeva consistenza soltanto quando si fossero effettivamente prodotte le conseguenze negative sul suo patrimonio determinate dall’accertato inadempimento imputabile al debitore. D’altra parte, al fine di stabilire l’esistenza di un inadempimento colpevole, non è necessaria la determinazione giudiziale del termine, essendo rimessa alla valutazione del giudice la congruità del tempo trascorso senza che la prestazione sia stata eseguita.

Alla stregua delle considerazioni che precedono il Collegio ritiene di non condividere l’orientamento seguito da Cass. 1547/2004, dal momento che in tema di danno contrattuale – al fine di determinare il dies a quo della prescrizione – occorre verificare il momento in cui si sia prodotto nella sfera patrimoniale del creditore il danno causato dal colpevole inadempimento della convenuta: nella specie tale indagine è mancata e dovrà essere compiuta dal giudice di rinvio, tenuto conto che – anche per quanto riguarda le argomentazioni con le quali è stata rigettata nel merito la domanda di danni – l’addebitabilita alla società della mancata esecuzione della obbligazione di edificare è stata esclusa facendo riferimento a circostanze – il possesso e la edificazione da parte dell’attore – che non sono sul piano logico decisive per giungere alle conclusioni alle quali è pervenuta la sentenza.

Vanno, quindi, esaminati congiuntamente il secondo e il quarto motivo stante la stretta connessione.

2.1. – Il secondo motivo, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1113, 1116, 1322 c.c., dell’art. 1362 c.c. e segg., degli artt. 724 e 725 cod. civ. insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia, censura la sentenza impugnata laddove aveva considerato divisibili il terreno in oggetto e gli immobili ivi edificati senza pregiudizio alcuno per i diritti di servitù delle parti: al riguardo lamenta l’erronea interpretazione della volontà delle parti manifestata con l’atto di citazione e la carenza di motivazione della sentenza anche con riferimento al mancato esame delle osservazioni formulate con l’atto di appello circa quanto aveva rilevato con la prima relazione il consulente e all’applicabilità delle norme sulla divisione ereditaria.

Non era stata valutata la volontà delle parti dichiarata con le scritture del 1971 e, in particolare, con la scrittura con cui era stato definito un precedente giudizio, era stato pattuito un vincolo di infrazionabilità; la natura indivisibile del compendio immobiliare era stata riconosciuta dalla sentenza n. 64 del 1987. Ai sensi dell’art. 720 cod. civ., doveva essere esclusa la comoda divisibilità non essendo stato tenuto conto del pregiudizio economico e commerciale che dalla divisione sarebbe derivato all’utilizzabilità del bene de quo, secondo quanto rilevato dallo stesso consulente tecnico.

All’attore sarebbe dovuto spettare l’intero immobile, tenuto conto che, per effetto dei miglioramenti e delle addizioni apportate, il medesimo era titolare di un diritto di portata maggiore.

2.2. Il quarto motivo, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 820 e 1150 cod. civ. insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo, censura la sentenza impugnata laddove aveva escluso il diritto alle indennità per i miglioramenti e le addizioni a favore dell’attore, in quanto comproprietario: tale conclusione non potrebbe essere accolta nel caso in cui fosse accolto il primo motivo del ricorso, perchè – acclarato l’inadempimento della società convenuta, si verrebbe alla paradossale conseguenza che la parte inadempiente verrebbe ad avvantaggiarsi dell’incremento di valore del bene.

In ogni caso, nella determinazione degli oneri sopportati dall’attore, dovrebbe tenersi conto dei criteri in materia di indebito arricchimento.

2.3.- I motivi vanno disattesi per le seguenti considerazioni, a) Per quanto concerne il vincolo di indivisibilità pattuito dalle parti, la doglianza si risolve nella censura dell’interpretazione compiuta dai Giudici della volontà delle parti, dovendo qui ricordarsi che l’interpretazione del contratto, consistendo in un’operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in un’indagine di fatto riservata al giudice di merito, il cui accertamento è censurabile in cassazione soltanto per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle regole ermeneutiche, che deve essere specificamente indicata in modo da dimostrare – in relazione al contenuto del testo contrattuale – l’erroneo risultato interpretativo cui per effetto della predetta violazione è giunta la decisione, che altrimenti sarebbe stata con certezza diversa la decisione; la deduzione deve essere, altresì, accompagnata dalla trascrizione integrale del testo contrattuale in modo da consentire alla Corte di Cassazione, che non ha diretto accesso agli atti, di verificare la sussistenza della denunciata violazione decisività.

Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente – come nella specie – nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto già dallo stesso esaminati; per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra. (Cass. 7500/2007; 24539/2009). b) La sentenza ha ritenuto la comoda divisibilità in concreto degli immobili, facendo riferimento proprio alle conclusioni in tal senso rassegnate dal consulente tecnico d’ufficio con la prima relazione:

il ricorrente, invocando quanto in senso addirittura contrastante avrebbe affermato lo stesso consulente, deduce sostanzialmente un travisamento dei fatti o addirittura un errore di fatto riconducibile al vizio revocatorio di cui all’art. 395, c.p.c., n. 4) che evidentemente non sono deducibili con il ricorso per cassazione, considerato che il vizio di motivazione denunciatale ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 deve consistere in un errore intrinseco al ragionamento del giudice che va verificato in base al solo esame del contenuto del provvedimento impugnato e non può risolversi nella denuncia della difformità della valutazione delle risultanze processuali compiuta dal giudice di merito rispetto a quella a cui, secondo il ricorrente, si sarebbe dovuti pervenire.

Inoltre, il motivo difetta di autosufficienza non riportando il testo integrale della consulenza, non essendo al riguardo sufficiente lo stralcio di alcuni passi, atteso che, se è vero che l’acritica adesione alle conclusioni della consulenza può integrare il vizio di inadeguata motivazione, il ricorrente deve non soltanto allegare i presunti errori ma dimostrare la decisività di tali errori in modo da offrire la certezza che il risultato dell’accertamento sarebbe stato diverso. c) Alla stregua delle valutazioni di fatto compiute sulla scorta degli accertamenti del consulente i Giudici hanno fatto corretta applicazione dell’art. 720 cod. civ.,dovendo qui rilevarsi che i miglioramenti e le addizioni apportati non avrebbero di per sè potuto determinare a favore dell’attore l’attribuzione una quota maggiore rispetto a quella di cui era titolare la società e, quindi, incidere nell’assegnazione dei beni da dividere. d) Per quel che concerne il diritto alle indennità per i miglioramenti e le indennità, va ritenuta manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 1150 cod. civ. che è stata sollevata dal ricorrente in relazione all’art. 3 Cost. qualora si ritenesse di accogliere il principio secondo cui non spetta al comproprietario – compossessore l’indennità prevista dall’art. 1150 cod. civ. per il possessore, anche se di mala fede.

Al riguardo, deve considerarsi che in tema di scioglimento della comunione, alla quale trovano applicazione le norme della comunione ereditaria in quanto compatibili, il comproprietario il quale abbia migliorato i beni comuni da lui posseduti non può invocare l’applicazione dell’art. 1150 cod. civ., che riconosce il diritto ad una indennità pari all’aumento di valore della cosa determinato dai miglioramenti, ma – agendo quale mandatario o utile gestore degli altri compartecipi alla comunione ereditaria – può pretendere il rimborso delle spese eseguite per la cosa comune, le quali si ripartiscono al momento della attribuzione delle quote, secondo il principio nominalistico: tale principio trova giustificazione nella peculiarità della posizione dei comunisti, atteso che i miglioramenti sono conferiti alla intera massa, per cui in sede di divisione dei beni attribuiti ai comunisti e della loro stima si tiene necessariamente conto del maggior valore determinato dai miglioramenti effettuati. D’altra parte, l’inadempimento della convenuta – comproprietaria può in astratto assumere rilievo sotto il profilo dell’eventuale danno arrecato dalla sua condotta.

3.1.- Il terzo motivo, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., censura la sentenza impugnata che, incorrendo in ultrapetizione, aveva posto a carico delle parti pro quota le spese notarili della divisione: oltre alla illegittimità conseguente a quanto denunciato con i motivi che precedono, l’atto di divisione non era riconducibile alla volontà e alla condotta dell’attore ma al comportamento della convenuta.

3.2.- Il motivo va disatteso.

La liquidazione delle spese dell’atto di divisione costituiva un provvedimento necessario delle operazioni di divisione e doveva essere adottato d’ufficio in sede di scioglimento della comunione:

con motivazione immune da vizi logici o giuridici la sentenza ha chiarito che la divisione, essendo stata voluta dalle parti secondo l’interpretazione della seconda scrittura, rientrava nel programma negoziale e sarebbe stata da porre in essere anche nel caso di adempimento delle obbligazioni pattuite.

4.1.- Il quinto motivo, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 820 e 1150 cod. civ., censura la sentenza impugnata laddove aveva condannato il ricorrente al pagamento del 50% dei frutti civili, posto che il medesimo aveva sempre usato personalmente del bene e nessun frutto era stato mai indebitamente percepito; il valore locativo era stato determinato in assenza di prove senza considerare le contestazioni alla consulenza; d’altra parte, lo stesso consulente aveva sollevato perplessità circa l’inizio da parte dell’attore dell’attività commerciale nel locale A); i Giudici non avevano indicato i criteri in base ai quali erano pervenuti alla determinazione del valore locativo medesimo.

5.2.- Il motivo è infondato.

Ai sensi dell’art. 820 c.c., comma 2, i frutti civili hanno la funzione di corrispettivo del godimento del bene utilizzato in via esclusiva da un comproprietario e possono essere liquidati con riferimento al valore figurativo del canone di mercato: a tale criterio si sono attenuti i Giudici i quali hanno tenuto conto appunto dell’uso da parte dell’attore e del valore locativo in base alle indagini compiute dal consulente per immobili di analoghe caratteristiche. Pertanto, appaiono del tutto fuori luogo i riferimenti alla mancata concessione in locazione a terzi degli immobili o ancora alla data di inizio dell’attività commerciale, non assumendo rilievo e non essendo stati presi in considerazione i proventi dell’attività svolta dall’attore.

Pertanto, va accolto il primo motivo del ricorso principale per quanto in motivazione mentre vanno rigettati gli altri.

RICORSO INCIDENTALE. 1.1.- La ricorrente incidentale, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 cod. civ., dell’art. 116 cod. proc. civ., insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo, censura la sentenza impugnata laddove aveva condannato l’attore al pagamento dei frutti civili esclusivamente fino alla data di emissione della sentenza di primo grado con la motivazione "non risultando le vicende successive", quando – secondo quanto ammesso dalla stessa Corte – l’attore aveva costruito tutte le opere, utilizzandole in via esclusiva anche nel corso del giudizio: tale circostanza era stata confermata dall’attore in sede di appello e di ricorso per cassazione. Erroneamente la Corte: aveva posto a carico di essa resistente un onere probatorio che era a carico della controparte; non aveva considerato la non contestazione da parte dell’attore della predetta circostanza.

1.2. Il motivo va accolto.

1.2.- Preliminarmente va disattesa l’eccezione di inammissibilità del motivo, sollevata dal ricorrente principale, tenuto conto che esso risponde al paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5: dal suo esame complessivo emerge che è stato indicato il fatto controverso (l’utilizzazione dei beni da parte dell’attore anche successivamente alla sentenza di primo grado) in relazione al quale è stato denunciato il vizio di omessa motivazione.

Il motivo è fondato.

Nel limitare la condanna dell’attore al pagamento dei frutti fino al momento della sentenza di primo grado, i Giudici in modo assolutamente apodittico hanno escluso che fosse stata fornita la prova di una utilizzazione del bene anche successivamente a tale momento, senza peraltro esaminare e analizzare criticamente le risultanze processuali ovvero verificando se anche a stregua delle affermazioni contenute nello stesso atto di appello proposto dall’attore non dovesse ritenersi pacifica anche l’utilizzazione successiva e ininterrotta degli immobili in oggetto.

Pertanto, va accolto il ricorso incidentale.

La sentenza va cassata in relazione al primo motivo del ricorso principale e al ricorso incidentale, con rinvio, anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Messina.

In relazione al primo motivo del ricorso principale va formulato il seguente principio di diritto.

"In tema di danno per responsabilità contrattuale, la prescrizione del diritto al risarcimento decorre dal momento in cui si è prodotto il danno derivante dal colpevole inadempimento del debitore".

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo del ricorso principale per quanto in motivazione rigetta gli altri accoglie il ricorso incidentale cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto del ricorso principale e al ricorso incidentale; rinvia, anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Messina.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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