Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 05-04-2012, n. 5484 Pensioni, stipendi e salari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

Con sentenza del 16.12.2009, la Corte di Appello di Roma rigettava il gravame proposto da S.K.N. avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda intesa ad ottenere il riconoscimento del suo diritto a continuare a ricevere, con decorrenza dal primo maggio 2001, la retribuzione annua base di lire 55.000.000 (Euro 28.403,87), così come previsto dal D.M. 2 maggio 2001, 032/5348 nonchè a ricevere tale trattamento retributivo in Euro, o, in via subordinata, la declaratoria del diritto a ricevere, anche dopo il 1.5.2001, la retribuzione annua di Euro 27.786,30 corrispondenti a dollari USA 24.677, al cambio alla citata data, prevista dal contratto di lavoro 18.12.91, rinnovato senza soluzione di continuità sino all’instaurazione dell’attuale rapporto a tempo indeterminato, o, in via ulteriormente subordinata, il riconoscimento del diritto a ricevere dalla stessa data il trattamento retributivo annuo pari ad Euro 20.760,20, previsto per gli altri impiegati a contratto di eguale livello che svolgono uguali mansioni ed in possesso di doppia cittadinanza iraniana/italiana.

Rilevava la Corte territoriale che l’appellante, cittadina iraniana, era stata assunta presso l’Ambasciata d’Italia in Iran, quale traduttrice/interprete, con contratto 29.12.89 regolato dalla legge locale e che la retribuzione annua base era stata stabilita in riali iraniani; che, con Decreto 1858 del Ministero degli Affari Esteri, di concerto con il Ministero del Tesoro, del 21 marzo 1990, era stato stabilito che la retribuzione del personale a contratto di nazionalità non italiana in servizio in Iran fosse fissata in dollari USA e corrisposta, per il 25%, in detta moneta e per il 75% in riali a decorrere dal 1.9.1990; che, conseguentemente, con atto aggiuntivo era stata riconosciuta una retribuzione base di Usa 24.677,00, da corrispondersi, per il 25% in tale moneta e per il 75% in riali; che, con successivo decreto 7108 del Ministero degli Affari Esteri de 21.12.1993, era stato disposto che la retribuzione del personale a contratto con cittadinanza non italiana fosse fissata e corrisposta in valuta locale a decorrere dal 1.1.1994, determinata, in attuazione di tale decreto, in riali iraniani 22.100.000; che la stessa retribuzione, in virtù di aumenti convenuti, era aumentata a riali 55.000.000 e, con atto aggiuntivo del 1.5.2001, il contratto era stato trasformato a tempo parziale, con retribuzione pari a riali 50.529.193, con assegno personale riassorbibile di riali 4.042.335,40. Tale retribuzione era stata, poi, aumentata a riali 81.095.300.

Avendo la ricorrente assunto la cittadinanza italiana il 25.7.2002, la stessa sosteneva di avere diritto al corrispondente importo di lire 55.000.000, di Euro 28.405,87, ma la Corte del merito riteneva che il contratto sottoscritto dalle parti vincolava le stesse a quanto pattuito con riferimento ad una retribuzione annua espressa in riali e che il D.L. n. 7108 del 1993 aveva evidenziato che la retribuzione dovesse essere corrisposta in valuta locale. Anche il D.M. 032/5348 confortava tale conclusione, atteso che il controvalore in lire italiane era stato stabilito a fini di imputazione in conformità alle norme della Contabilità dello Stato e che, peraltro, tale controvalore era stabilito solo nel decreto, ma non anche nel contratto individuale. Con successivo D.L., l’uso della moneta Europea era stato esteso a tutti i dipendenti a contratto a decorrere dal 1.7.2003, previa opzione del lavoratore ed al tasso di ragguaglio disposto, ma la ricorrente aveva rinunciato all’opzione ingiustificatamente ritenendo di avere diritto all’importo di lire 55.000.000 e non alla conversione in Euro della retribuzione pattuita in riali.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la lavoratrice con tre motivi, illustrati con memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Il Ministero si costituisce, con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, artt. 155 e 157, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, assumendo che, poichè il contratto individuale è condizionato nella sua efficacia e validità all’approvazione successiva con D.M., esso è chiaramente soggetto alle integrazioni e/o modificazioni che detto provvedimento può introdurre e che nella fattispecie non può esservi dubbio che la misura dello stipendio è stata ancorata al controvalore in lire italiane, a tutela e garanzia sia dell’amministrazione, che della lavoratrice, a fronte di moneta soggetta a improvvise oscillazioni di valutazione. La indicazione del controvalore in lire non è stata prevista solo a fini di bilancio per la relativa iscrizione tra le relative poste, perchè una tale necessità sarebbe stata ivi specificata e, peraltro, il D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, comma 3, nel prevedere che di norma la retribuzione dei contrattisti del Ministero degli Affari Esteri in servizio all’estero viene stabilita in valuta locale, precisa che, agli effetti di cui al corrispondente titolo, il corrispettivo in lire della retribuzione viene calcolato secondo una tasso di ragguaglio stabilito dall’art. 209 del medesimo decreto.

Con il secondo motivo, la S.K. si duole della omessa insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Rileva che, a decorrere dal 18.12.1991, era stata riconosciuta una retribuzione comunque rapportata al valore reale di dollari USA 24.677,00 anche se prima corrisposta, in parte, in valuta locale, ed invoca il principio del divieto della reformatio in peius, atteso che la sua retribuzione era stata illegittimamente ritenuta non agganciata alla lira italiana o al dollaro e si era pertanto ridotta ad un valore reale irrisorio per un funzionario che svolge mansioni di concetto di traduttore/interprete (circa Euro 9000,00).

Con il terzo motivo, lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157, comma 3, degli artt. 36 e 37 Cost., della L. 13 luglio 1966, n. 657, art. 14, violazione e falsa applicazione della L. 25 ottobre 1977, n. 881, della L. 3 luglio 1965, n. 929, art. 4, art. 7 dell’accordo successivo del 12.4.2001 per il personale assunto con contratto a tempo indeterminato presso le rappresentanze italiane all’estero, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Assume la mancanza di corrispondenza con la retribuzione percepita da altri colleghi di pari grado ed anzianità ed in possesso della doppia cittadinanza e richiama il D.Lgs. n. 103 del 2000, art. 1, che ha introdotto il nuovo testo di art. 157, il quale esclude ogni disparità di trattamento economico, nonchè il principio espresso dall’art. 36 Cost. di uguale remunerazione a parità di prestazione lavorativa. Lamenta la violazione anche della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che, all’art. 23, comma 2, prevede che ogni individuo, senza discriminazioni, ha diritto ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro, e della Convenzione Generale dell’OIL, che ha previsto la soppressione di ogni discriminazione, nonchè del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, adottato a New York il 16 e 19 dicembre 1966, ratificato con L. n. 881 del 1977.

Il primo motivo di ricorso è infondato. Il D.P.R. n. 18 del 1967, art. 157 prevede, anche nella versione di cui al D.Lgs. n. 103 del 2000 – che, all’art. 1, ha introdotto il nuovo della testo della disposizione – che la retribuzione annua base per gli impiegati assunti a contratto dagli uffici all’estero è fissata dal contratto individuale e che la stessa (art. 157, comma 3) è di norma fissata e corrisposta in valuta locale, salva la possibilità di ricorrere ad altra valuta in presenza di particolari motivi. Stabilisce, poi, che "agli effetti di cui al presente titolo" il corrispettivo in lire della retribuzione corrisposta all’estero viene calcolato secondo un tasso di ragguaglio stabilito ai sensi dell’art. 209" dello stesso decreto. Tale norma prevede che "le indennità, i contributi ed i rimborsi da corrispondere al personale in servizio o in missione all’estero sono pagati in valuta locale secondo un rapporto di ragguaglio da stabilirsi dal Ministero degli Affari Esteri di concerto con quello del Tesoro". La detta disposizione ha subito modifiche per effetto dell’art. 6 "Revisione indennità di servizio all’estero" del D.L. 22 maggio 1993, n. 155, che, dopo avere previsto la soppressione dei rapporti fissi di ragguaglio di cui al D.P.R. n. 18 del 1967, art. 209 per la conversione nella valuta di pagamento delle stesse, ha previsto, al secondo comma, che le indennità in oggetto fossero fissate in lire italiane, con trasferimento del relativo controvalore all’estero. Tale modifica, tuttavia, non è stata trasfusa nella legge di conversione 19 luglio 1003, n. 243, e, pertanto, deve ritenersi conforme alla normativa enfiata nel tempo in materia il principio secondo il quale deve aversi riguardo al contratto sottoscritto dalle parti, che, unitamente al patto aggiunto del 1.5.2005 e dell’ulteriore del 27.6.2005, fa riferimento alla retribuzione espressa in riali. Il riferimento alla moneta italiana è contenuto esclusivamente nel D.M. 32/5348 e previsto solo ai fini dell’imputazione al bilancio dello Stato di Previsione de Ministero degli Affari Esteri, che non consente di inserire costi in valuta diversa da quella nazionale e quanto previsto nel contratto individuale della S. e nel D.M. 032/5428 è conforme anche alla previsione del D.M. 21 dicembre 1993, n. 7108, che dispone che "la retribuzione del personale a contratto di cittadinanza non italiana in servizio presso l’Ambasciata d’Italia e il Console Generale d’Italia a Teheran è fissata e corrisposta in valuta locale a decorrere dall’1.1.1994".

Priva di rilievo è, dunque, l’affermazione della ricorrente secondo cui, se l’esigenza di indicazione del controvalore in lire fosse stata giustificata solo dall’inserimento della spesa nelle poste del bilancio, una tale necessità sarebbe stata specificata nello stesso provvedimento, posto che l’applicazione del tasso di ragguaglio rileva evidentemente nel senso di consentire volta per volta la conversione del costo da inserire nelle poste del bilancio e non nel senso di fissare in via definitiva il valore in lire cui parametrare anche le retribuzioni annue successive soggette alle variazioni della moneta di pagamento delle stesse.

Il secondo motivo è ugualmente destituito di fondamento per le stesse ragioni esposte con riferimento al primo, ove si consideri che, dopo il decreto 1858 del 21.3.1990, che aveva stabilito la fissazione in dollari Usa della retribuzione e la corresponsione della stessa, per il 25%, in detta moneta e, per il 75%, in riali, con successivo decreto n. 7108 del 1993 era stato previsto che la retribuzione fosse determinata in valuta locale e che in tale moneta, soggetta alle oscillazioni del mercato locale, era stata poi sempre corrisposta, non essendosi avvalsa la lavoratrice dell’opzione che le avrebbe consentito, a decorrere dal 1.7.2003, di ottenere la conversione, al tasso di ragguaglio disposto, della retribuzione a tale data percepita (in riali) in moneta Europea.

Infine, per quanto attiene alle censure avanzate con il terzo motivo di ricorso, deve rilevarsi che non risultano specificati gli elementi di raffronto con la retribuzione corrisposta nella stessa sede da rappresentanze diplomatiche, uffici consolari, istituzioni culturali di altri Paesi cui la ricorrente ha fatto riferimento, invocando un generico divieto di disparità di trattamento economico e di trattamenti discriminatori, che non rilevano tuttavia nei sensi voluti da essa istante, la quale, con contratto individuale, ha accettato in modo vincolante di essere retribuita in moneta locale.

Nè può ritenersi che ciò solo sia sufficiente ad integrare un trattamento discriminatorio, ove non sia dimostrato che la retribuzione in moneta locale sia difforme da quella corrisposta ad altri impiegati di diversi paesi con uguali funzioni, non rilevando che in sede di conversione al tasso di ragguaglio il cambio possa risultare sfavorevole rispetto al trattamento economico goduto da altri dipendenti ci o abbiano optato per il pagamento della retribuzione in diversa valuta, essendo non omogenee i termini del raffronto.

Alla stregua delle esposte considerazioni, il ricorso deve essere respinto e le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, cedono a carico della ricorrente nella misura determinata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 3000,00 per onorario, Euro 40,00 per esborsi, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 13 marzo 2012.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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