Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 15-07-2011) 24-10-2011, n. 38362

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Lecce, esclusa, quanto al reato di tentata estorsione aggravata, l’applicabilità dell’art. 116 c.p. e ritenuto invece il concorso ex art. 110 c.p. degli imputati con altro soggetto giudicato separatamente, ha confermato nel resto la sentenza in data 16 luglio 2008 del locale Tribunale, appellata da L.P., G.M. e P. G., che li aveva ritenuti responsabili dei delitti di estorsione, consumata e tentata, aggravati dall’esser stati commessi da più persone riunite ed ex L. n. 203 del 1991, art. 7 (esclusa peraltro l’aggravante di cui al cpv. dell’art. 629 cpv. c.p., riferita al n. 3 dell’art. 628 c.p., comma 3, n 3), commessi l’ (OMISSIS) in concorso con M.M., nei cui confronti si era proceduto separatamente, avendo chiesto gli attuali imputati il giudizio abbreviato condizionato all’audizione delle persone offese.

2. In sostanza, era loro ascritto di avere indotto con minaccia e violenza i fratelli C.E. e G., gestori della discoteca (OMISSIS), ai quali avevano imposto la loro presenza nel locale con atteggiamenti prevaricatori anche nei confronti degli altri avventori, a tollerare il mancato pagamento delle loro abbondanti consumazioni di superalcolici, e di aver usato minaccia e violenza al fine di imporre a quelli di versare somme di denaro al M., per assicurare una "protezione", che costui avrebbe garantito essendosi presentato come la persona che comandava a (OMISSIS), alla quale si doveva rispetto, così come ai suoi amici, nei cui riguardi la richiesta di pagare il conto delle consumazioni era stata vista come un affronto, da non più ripetere, pena la chiusura del locale o il danneggiamento di auto dei clienti, come sarebbe già avvenuto in precedenza, inconvenienti per ovviare ai quali avrebbero dovuto pagare la somma di Euro 2.000,00 entro pochi giorni.

3. Hanno presentato distinti ricorsi per Cassazione i tre imputati le cui doglianze si possono esaminare con riferimento ai diversi punti oggetto di contestazione.

4. Tutti i ricorrenti, con maggiore o minore ampiezza anche nella citazione dei relativi verbali, si dolgono della ritenuta partecipazione alle attività qualificate come estorsive, secondo loro addebitabili al solo M., sia quanto al mancato pagamento delle consumazioni presso il pubblico esercizio, sia quanto alle pretese di ottenere da parte dei gestori della discoteca il versamento di una somma di denaro per garantirsi la tranquilla prosecuzione dell’attività.

Si contesta, da parte di tutti, la valutazione dei giudici del merito delle dichiarazioni delle persone offese, sentite dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari e successivamente dal Tribunale come integrazione probatoria in sede di giudizio abbreviato.

Quanto all’estorsione consumata si contesta che possa risultare dagli atti un preventivo accordo per creare disturbo vessando i gestori del locale, che sia emerso un cenno di intesa fra L. e M. per chiedergli di intervenire sul gestore quando quello pretendeva il pagamento delle consumazioni e che i comportamenti dei tre, in sostanza unicamente presenti al fatto, possano essere collegabili al discorso minatorio fatto da M. al C. sulla mancanza di rispetto a lui ed ai suoi amici con la pretesa del pagamento delle consumazioni. Ed ancor di più lamentano che il loro atteggiamento passivo, mentre il M. prefigurava a C. il pericolo di dover chiudere l’attività se non avesse pagato quanto richiesto, non avrebbe avuto alcuna incidenza sull’azione del tutto autonoma del loro amico, che, nel minacciare le p.o., si era riferito, non tanto alla presenza di tutti loro, quanto alle possibilità del verificarsi di danneggiamenti nella loro attività.

Il G. peraltro lamenta che non si sia data risposta al proprio appello laddove si indicavano gli elementi di prova della sua assenza proprio mentre si sarebbero verificate le minacce da parte di M..

Il ricorso per G. deduce ulteriore violazione di legge non ritenendo corretto che i fatti fossero stati ricondotti all’ipotesi di cui all’art. 629 c.p., mentre sarebbe stata più adeguata una loro qualificazione in termini di minaccia, ex art. 612 c.p., essendo intervenute la violenza e la minaccia solo dopo la consumazione delle bevande.

5.1 ricorsi proposti per P.G. e L.P. denunciano violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. in L. n. 203 del 1991, con riguardo sia all’episodio di tentata estorsione, sia a quello (il mancato pagamento delle consumazioni) contestato come estorsione consumata. Erroneamente i giudici del merito avrebbero fatto riferimento al rispetto, che i prevenuti avrebbero preteso dai gestori della discoteca, che non sarebbe da intendersi necessariamente come "mafioso"; potendosi con ogni probabilità far rientrare nell’orbita di quel concetto tradizionale di "onore" non legato ad un sentire malavitoso. Si tratterebbe al più di una bravata di giovani in un locale pubblico, dove all’utilizzo della parola rispetto non poteva essere connessa alcuna valenza di agire da mafioso, nè i prevenuti potevano conoscere in quel momento gli episodi relativi alle auto incendiate di cui avrebbe parlato, ma solo in seguito, M..

La Corte d’appello non avrebbe poi dato adeguate risposte alle prospettazioni in contrario dei motivi di gravame, fermandosi ad una mera conferma delle argomentazioni del primo giudice. Quanto al tentativo di estorsione, rileva il P. che la contestazione dell’aggravante sarebbe incompatibile con la concreta inesistenza di un clima di intimidazione, assoggettamento e omertà; invero, le prospettazioni del M. non avevano avuto alcun concreto effetto sul C. (come ritiene di dover dimostrare con la citazione di brani delle relative dichiarazioni) e di conseguenza si sarebbe dovuta valutare l’incidenza in concreto del comportamento dell’agente, essendo questo uno dei casi in cui, per il configurarsi dell’aggravante in un’ipotesi di tentativo occorrerebbe, secondo la giurisprudenza più recente di questa sezione, la realizzazione dell’evento che costituisce oggetto di quella determinata circostanza; nel caso, la concreta intimidazione mafiosa.

6. In tema di trattamento sanzionatorie, L. deduce difetto di motivazione sia quanto al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche con criterio di prevalenza, fondato sull’esistenza di precedenti penali, sia sulla ritenuta adeguatezza della misura della pena come stabilita dal Tribunale, senza che il giudice d’appello avesse specificamente motivato. G. deduce violazione di legge per non essere stata riconosciuta l’attenuante del danno di speciale tenuità, atteso che oggetto dell’estorsione sarebbe stato il mancato pagamento della consumazione di bevande in discoteca per importi plausibilmente non superiori ad Euro 80/100, dopo che era stato pagato il biglietto di ingresso. Inadeguata sarebbe la motivazione della Corte territoriale riferita all’impossibilità di determinare in modo certo il valore del danno cagionato reato.

P. quanto al trattamento sanzionatorio articola più doglianze.

Deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli aumenti di pena, applica – per l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, stabilito in anni 1 e mesi 8 (1/3 rispetto alla pena base di anni 5 di reclusione), che la Corte, territoriale avrebbe dovuto escludere per la sua incompatibilità col tentativo – per le ulteriori aggravanti di cui all’art. 629 cpv. c.p. in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, e art. 99 c.p.p, commi 2 e 5, stabilito, ai sensi dell’art. 63 c.p., comma 4, in ulteriori anni 1 e mesi 4 di reclusione, che ritiene sproporzionati al reale disvalore del fatto, considerato anche che, per tutti gli imputati, era stata ritenuta insussistente l’aggravante di cui all’art. 629 c.p., comma 2 riferita all’art. 628 c.p., comma 3, n. 3 in mancanza di dimostrazione dell’appartenenza degli imputati ad un’associazione mafiosa.

Lamenta poi l’erronea applicazione dell’aumento per recidiva in quanto i giudici del merito gli avrebbero applicato l’aumento di pena collegato alla recidiva reiterata infraquinquennale (per la quale è previsto dall’art. 99 c.p., comma 4, seconda parte, un aumento pari a 2/3 della pena) quando invece, essendogli stata contestata la sola recidiva reiterata, gli si sarebbe dovuto applicare un aumento di pena pari alla metà e non ai 2/3.

Sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito, avrebbe in ogni caso interesse all’impugnazione sul punto (anche se l’aumento di pena in concreto inflittogli per recidiva era stato inferiore sia ai 2/3 che alla metà, a causa dell’applicazione dell’art. 63 c.p., comma 4) in quanto, a fronte di una differente tipologia di recidiva contestata, il trattamento sanzionatorio riservatogli non sarebbe dovuto essere uguale a quello dei coimputati. In definitiva, l’applicazione dell’art. 63 c.p., comma 4 avrebbe avuto effetti negativi rispetto alla sua posizione per l’avvenuta parificazione della pena con i suoi coimputati, pur in presenza di una situazione soggettiva meno grave, un termini di recidiva, rispetto a quella degli altri. Il ricorrente si duole infine della mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche in considerazione dei numerosi precedenti penali, anche gravi, ritenuti dal giudice di merito dimostrativi di forte capacità a delinquere, con una valutazione censurabile poichè le precedenti condanne si riferivano a fatti risalenti nel tempo.

7. I ricorsi proposti per P.G. e G.M. denunciano sotto profili lievemente diversi fra loro la violazione dell’art. 597 c.p.p. da parte della Corte di merito che, pur avendo ritenuto congrua, e da confermare, la misura della pena di anni sei di reclusione ed Euro 1.600,00 di multa irrogata dal primo giudice, avrebbe in ogni caso violato il divieto di reformatio in peius, con il ritenere, non il contestato concorso anomalo riguardo al quale non v’era stata impugnazione del Pubblico Ministero, ma il concorso ex art. 110 c.p. con il M. nel tentativo di estorsione rubricato sub b).

P. evidenzia anche che la conferma dell’entità della pena fissata dal primo giudice avrebbe comportato un aumento della misura della pena base, illegittimo in assenza di impugnazione della pubblica accusa.

Motivi della decisione

8. Le censure concernenti il ritenuto concorso dei ricorrenti con M. sono, ad avviso del Collegio inammissibili in questa sede in quanto tendono a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi all’esclusiva competenza del giudice di merito e già adeguatamente valutati sia dal Tribunale che dalla Corte d’appello.

Nel caso in esame, difatti, entrambe le pronunce hanno evidenziato con ampia motivazione gli elementi dai quali avevano tratto la prova della partecipazione di tutti e tre gli attuali ricorrenti all’azione intimidatoria nei riguardi, in un primo momento, di C. G., non solo con una presenza incombente di tutti, ma anche con interventi personali di ciascuno di loro, nessuno escluso neppure il G., a cominciare da L. e poi dagli altri due che erano stati uditi profferire minacce anche da C.E., sopraggiunto nel frattempo in aiuto del fratello.

In definitiva, dalle sentenze di merito emerge che ad opera di tutti, e non del solo M., a cui gli attuali imputati facevano corona e davano supporto, si era generata una situazione di ingravescente pressione, con una vera e propria progressione di minacce da parte dell’intero gruppo che aveva il proprio esponente di spicco e di riferimento in soggetto noto, nel ristretto ambito di (OMISSIS), quale appartenente ad associazione di tipo mafioso, denominata sacra corona unita, in relazione alla cui appartenenza era stato condannato per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., e che si presentava come persona in grado di sottoporre al proprio controllo le attività della zona e ad assoggettare gli altri ai propri voleri.

Le conclusioni circa la responsabilità dei ricorrenti appaiono quindi congruamente giustificate dai giudici di merito attraverso una puntuale valutazione delle prove, che ha consentito una ricostruzione del fatto esente da incongruenze logiche e da contraddizioni, e tanto basta per rendere la sentenza impugnata incensurabile in questa sede perchè nel momento del controllo di legittimità la Corte di Cassazione non deve ripercorrere l’iter cognitivo e valutativo del giudice, ma deve limitarsi a verificare se questa sia sorretta da validi elementi dimostrativi e non abbia trascurato elementi in astratto decisivi, sia compatibile con il senso comune e la giustificazione della decisione, data come valida la premessa in fatto, sia logica: sia insomma esauriente e plausibile. Nè possono condurre a diversa conclusione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., le puntigliose indicazioni contenute nei ricorsi sulla possibilità di leggere in modo difforme certuni risultati probatori, che non possono comunque essere considerate da questa Corte, alla cui funzione istituzionale è estranea la possibilità di sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito.

Anche perchè non c’è elemento, per quanto determinante, che possa essere letto fuori dal contesto probatorio in cui è inserito e soltanto i giudici di merito hanno la possibilità di valutare complessivamente ed esaurientemente tale contesto.

9. Manifestamente infondata è poi la censura del G. sulla qualificazione del fatto come estorsione e non come minaccia ex art. 612 c.p.; irrilevante è invero che la minaccia fosse intervenuta quando già la consumazione era stata effettuata, atteso che era inequivocabilmente volta ad ottenere un ingiusto vantaggio realizzatosi con la disposizione patrimoniale dei due gestori consistita nel dover tollerare il mancato pagamento del conto delle consumazioni.

10. Le censure relative al ricorrere dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. in L. n. 203 del 1991 non sono fondate.

Nel caso era contestato di essersi avvalsi del metodo mafioso al fine di ottenere un atteggiamento compiacente da parte dei C., per il riferimento fatto, da M. in primis, ma avallato dall’atteggiamento degli altri che stavano intorno a quello con un’evidente apparenza fiancheggiatrice e rafforzatrice, del collegamento con la consorteria criminale cui notoriamente faceva riferimento e la relativa capacità di agire in modo tanto incisivo da poter far loro chiudere il locale, capacità di cui avevano dato plurimi esempi, tutti, con atteggiamenti prevaricatori anche nei riguardi degli altri avventori, con la richiesta di un rispetto considerato chiaramente come dovuto per chi si presentava dotato di forza intimidatrice tale da poter far prevalere le proprie pretese.

La contestazione dell’utilizzo del metodo mafioso comporta che nel valutare il ricorrere o meno dell’aggravante si debba prescindere dall’effettiva intimidazione delle vittime a seguito dell’azione dei prevenuti. Così, quand’anche si volesse dimenticare come i gestori abbiano finito per accondiscendere alle richieste del gruppo violento, il solo uso di quei metodi prevaricatori aveva integrato l’aggravante, il cui ricorrere presuppone l’idoneità ad ottenere l’intimidazione delle persone offese, senza che sia necessario che quel risultato sia raggiunto in concreto. Inconferente poi il riferimento dei ricorrenti ad un arresto giurisprudenziale di questa sezione in tema di violazione di domicilio aggravata dalla violenza alle cose, laddove il Collegio aveva ritenuto (cfr. Sez. 5, sent. n. 16313 del 24/1/2006, Rv. 234424, ric: Cartillone) che l’estensione al tentativo delle circostanze previste per il corrispondente delitto consumato comporta un problema di compatibilità logico-giuridica, che va verificata in concreto tenuto conto della tipologia dell’aggravante contestata, distinguendo i casi in cui è ontologicamente necessario che si sia realizzato l’evento che costituisce l’oggetto dell’aggravante, ovvero che si siano perfezionati i relativi presupposti costitutivi nel frammento di condotta posta in essere dall’agente, da quelli in cui non occorre che ciò si verifichi.

Il ricorrente non considera che non è connaturale al ricorrere dell’aggravante in questione che l’uso del metodo mafioso abbia raggiunto il risultato della concreta intimidazione, mentre nel caso sottoposto alla Corte la stessa aveva escluso la configurabilità dell’aggravante della violenza sulle cose, in relazione al delitto di tentata violazione di domicilio, laddove l’imputato aveva commesso il fatto colpendo con calci e pugni la porta d’ingresso di una abitazione, senza danneggiarla, proprio perchè per la sussistenza dell’ipotesi aggravata dell’art. 614 c.p., comma 4, art. 392, c.p., non basta, secondo il dettato della norma, che l’azione sia esercitata direttamente sulla res, occorrendo che la stessa abbia determinato la forzatura, la rottura, il danneggiamento della stessa, o ne abbia comunque alterato l’aspetto e/o la funzione, così che il mancato danneggiamento della cosa non consentirebbe di considerare aggravato il relativo tentativo di introduzione in luogo di privata dimora.

Correttamente le Corte territoriale ha ritenuto l’aggravante in parola ed ha applicato il relativo aumento di pena.

11. Manifestamente infondati e tendenti a sottoporre a questa Corte valutazioni squisitamente di merito, ad essa sottratte, sono i motivi di ricorso con i quali i prevenuti censurano la sentenza sull’entità della pena e sulla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche a causa dei soli precedenti penali.

Del tutto legittimamente difatti la Corte di appello ha ritenuto giustificassero l’entità della pena in concreto irrogata e che fossero ostativi al riconoscimento delle attenuanti generiche, oltre alle intrinseche caratteristiche di pericolosità del fatto, i numerosi e gravi precedenti penali degli imputati, dimostrativi di una rilevante capacità a delinquere, indipendente dall’epoca di consumazione dei precedenti reati, trattandosi di parametri considerati dall’art. 133 c.p., applicabili anche ai fini dell’art. 62 bis c.p., a fronte del quale i ricorrenti non evidenziano alcun elemento di segno opposto che sia decisivo in senso loro favorevole e non sia stato considerato. Altrettanto priva di fondamento la censura al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p. n. 4, atteso che sul punto la Corte territoriale si è riferita ad una serie di consumazioni di quattro persone, reiterate in un’intera serata, ed ha individuato in modo del tutto logico un ammontare di danno che ha valutato superiore al limite minimo della speciale tenuità, nè viene evidenziato, a fronte di una motivazione adeguata e non illogica, l’emergere dalle acquisizioni processuali di elementi in senso contrario non considerati dalla Corte di merito.

Manifestamente infondata è poi la censura del P. sull’aumento di pena applicatogli in relazione alle aggravanti, ulteriori rispetto a quella di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. in L. n. 203 del 1991, in particolare alla recidiva ed a quella di cui all’art. 629 cpv. c.p., in riferimento all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, già essendo stata esclusa l’aggravante di cui all’art. 629 cpv. c.p., in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 3.

Invero i giudici del merito, considerata più grave fra le aggravanti ad effetto speciale quella di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, hanno applicato l’aumento per le restanti aggravanti della stessa specie sopra indicata, ai sensi dell’art. 63 c.p., comma 4, nella misura complessiva di un quinto della pena risultante dall’applicazione dell’aumento per la prima aggravante, e quindi in misura ben inferiore al limite di un terzo previsto dalla legge per gli aumenti di pena e con riferimento ad adeguati parametri di valutazione della gravità dei fatti e della personalità degli imputati, come sopra osservato.

Tanto considerato, si manifestano del tutto infondate e prive di concreto interesse le censure riservate dal P. all’aumento applicato per la recidiva, come già osservato dalla Corte di merito.

Invero, l’avvenuta applicazione di un aumento di pena per la recidiva che si è confuso nell’unico incremento di un quinto ai sensi dell’art. 63 c.p., comma 4, non comporta alcuna violazione di legge con riguardo all’applicazione della recidiva, essendo stato l’aumento contenuto ben al disotto dei limiti della metà applicabile in relazione al tipo di recidiva a lui contestato. Quanto poi alla concreta misura della pena inflitta, a fronte della motivazione della Corte di merito sui criteri con cui ha individuato le pene da irrogare ai prevenuti, con corretto esercizio del proprio potere discrezionale adeguatamente motivato, le doglianze del prevenuto che pretenderebbe una distinzione della propria posizione con riguardo alla recidiva, si manifestano del tutto infondate, se si considera innanzitutto che il Tribunale aveva ritenuto in dispositivo per tutti la recidiva ex art. 99 c.p., commi 2 e 5, ed in ogni caso che i fatti fondanti la recidiva per il prevenuto, particolarmente gravi, avevano comportato l’applicazione in passato della reclusione per un totale di anni tre e mesi otto, ben superiore alla misura delle pene irrogate ai coimputati. E ciò dimostra che, a prescindere dalla contestazione, la posizione del prevenuto non poteva essere valutata con minore severità di quella dei coimputati.

12. Infine, non paiono fondate le censure mosse alla sentenza dai ricorsi P. e G., con riferimento alla denunciata violazione del divieto di reformatio in peius. La Corte di merito, che aveva ritenuto doversi configurare a carico dei ricorrenti un concorso pieno ex art. 110 c.p. con il M. in relazione al delitto tentato rubricato al capo b), invece del concorso anomalo ex art. 116 c.p. ritenuto dal primo giudice, aveva confermato la misura della pena irrogata ai prevenuti in anni sei di reclusione ed Euro 1.600,00 di multa ciascuno. Occorre osservare innanzitutto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte che il Collegio condivide, anche quando l’impugnazione sia stata proposta dal solo imputato, il giudice ha il potere-dovere di attribuire al fatto la sua esatta definizione giuridica anche se, per effetto di tale qualificazione, il reato risulti più grave di quello precedentemente ritenuto dal giudice aquo e in tal caso non si determina alcuna violazione del generale principio di divieto di "reformatio in peius", posto che tale principio è finalizzato unicamente a conservare integra la misura della pena ed a salvaguardare la preclusione nascente dal giudicato in ordine al trattamento sanzionatorio operato dal giudice a quo, in assenza di impugnazione da parte del P.M. E, a prescindere dalla qualificazione data dal giudice d’appello al concorso nel tentativo di estorsione dei ricorrenti, non s’è determinato alcun aggravamento della condizione degli imputati, essendo stata confermata l’entità della pena loro irrogata.

Nè appare, in ogni caso, fondata in concreto la complessa doglianza formulata dal ricorrente P. che l’ha portato a ritenere che la Corte territoriale avesse, anche se implicitamente, modificato, pur nell’ambito di un risultato finale rimasto immutato, la quantificazione della pena base, questo a seguito di un’espressione infelice dell’estensore della sentenza d’appello, che aveva giudicato errata l’indicazione della pena – anni cinque di reclusione – da parte del primo giudice.

Da ciò il ricorrente ha tratto la convinzione, seguendo una personale interpretazione della sentenza di appello, che la Corte territoriale avesse voluto fissare una misura della pena base più elevata di quella stabilita deprimo giudice. Tuttavia, nessuna indicazione al proposito è ricavabile dalla sentenza impugnata che, da parte sua, ha errato nell’attribuire all’applicazione dell’art. 116 c.p. l’indicazione di pena base in anni cinque ad opera del primo giudice, affermazione sulla base della quale il ricorrente ha poi articolato le sue censure.

Risulta evidente dalla motivazione della sentenza di primo grado che il giudice, a fronte del ricorrere di tre aggravanti ad effetto speciale (l’art. 629 cpv. c.p., il D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e la recidiva aggravata) dovendo applicare il disposto dell’art. 63 c.p., comma 4, ha ritenuto fosse più grave la disposizione ex art. 7, individuando quindi la pena base in relazione al disposto dell’art. 629 c.p., comma 1, in anni cinque di reclusione e multa, operando poi un aumento di anni uno e mesi otto di reclusione più multa (1/3 rispetto alla pena base) ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7, e conglobando gli aumenti ex art. 629 cpv. c.p. e art. 99 c.p., commi 2 e 5, nell’unico aumento di anni uno e mesi quattro di reclusione oltre alla multa, fino ad un totale di anni otto di reclusione più multa, sulla quale ha operato l’aumento di un anno di reclusione per la continuazione, fino ad anni nove di reclusione giungendo poi alla pena definitiva a seguito della diminuzione di un terzo per il rito.

Appare evidente da quanto sopra, a parte la non condivisibile valutazione di minor gravità dell’aggravante di cui all’art. 629 cpv. c.p. rispetto a quella ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7, che l’aver il giudice di primo grado ritenuto il concorso anomalo con riferimento alla sola tentata estorsione non aveva avuto alcuna incidenza sulla composizione, nelle sue diverse articolazioni, della pena inflitta ai ricorrenti, anche poichè il delitto di cui al capo b) aveva comportato, in aumento ex art. 81 cpv. c.p., l’applicazione di una pena di anni uno di reclusione con incidenza sul complessivo trattamento non modificatasi (correttamente) a seguito dell’intervento del giudice di secondo grado, nonostante la riqualificazione da parte sua della natura del concorso addebitarle ai prevenuti.

13. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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