Cass. civ. Sez. I, Sent., 10-04-2012, n. 5657 Cessione dei beni Concordato preventivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La società Simis s.r.l. chiedeva al Tribunale di Teramo ammissione alla procedura di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori, che veniva quindi disposta con decreto del 12 ottobre 2007. Nel corso della procedura, i commissari esprimevano parere negativo sulla prima proposta ed evidenziavano il carattere fraudolento degli atti commessi dalla società che, preso atto dei rilievi, emendava alla loro luce l’iniziale proposta. Con sentenza 5 giugno 2008, il Tribunale fallimentare, in applicazione della L. Fall., art. 173, nel testo disciplinato dal D.Lgs. n. 5 del 2006, applicabile ratione termporis dichiarava la risoluzione del concordato ed il fallimento della società d’ufficio. La sentenza veniva reclamata dalla fallita innanzi alla Corte d’appello di L’Aquila che, con sentenza n. 269/2009 depositata il 16 settembre 2009 e notificata il 29 gennaio 2010, ha accolto il reclamo revocando per l’effetto il fallimento. Avverso questa decisione ricorre per cassazione il curatore del fallimento della società Simis sulla base di unico motivo non resistito dall’intimata società Simis ed ulteriormente illustrato con memoria difensiva depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 173, nel testo vigente ante riforma D.Lgs. n. 169 del 2007, ex art. 14 e dell’art. 15 disp. prel. c.c. e, ponendo la questione di diritto se lo jus superveniens in materia di concordato preventivo sia in contrasto con la precedente disciplina, critica l’impugnata statuizione assumendo l’irrilevanza degli argomenti che ne sorreggono la conclusione. Il fatto che lo stato di crisi non sia omologabile all’insolvenza non preclude la sanzione della commutazione della procedura di concordato nel fallimento in presenza di atti fraudolenti dell’imprenditore ammesso al concordato, e dal momento che la possibilità di dichiarare il fallimento d’ufficio non viola la regola del giusto processo, il suo esercizio rappresenta sanzione immanente nella logica della procedura concordataria. Il precedente di legittimità n. 4632/2009 citato a sostegno nell’impugnata statuizione non offre infine puntuali spunti di conferma della ricostruzione esegetica applicata dal giudice d’appello, riferendosi a fattispecie concreta non omologabile a quella dedotta in giudizio.

Il motivo espone censura priva di pregio. Secondo quanto questa Corte ha già affermato con sentenza n. 18236/2009, le novità introdotte dalla riforma della legge fallimentare, ed in particolare la previsione per cui non l’insolvenza ma lo stato di crisi giustifica l’apertura del concordato, la connotazione dell’istituto essenzialmente privatistica, e in particolare l’abrogazione del fallimento d’ufficio a mente della L. Fall., art. 6, depongono nel senso che tale iniziativa officiosa deve reputarsi abrogata anche in relazione al caso previsto dal disposto della L. Fall., art. 173, e ciò pur nel testo riformato dal D.Lgs. n. 5 del 2006, applicabile nella specie, nella parte in cui consentiva al giudice delegato di attivare l’apertura del fallimento. L’abrogazione espressa della dichiarazione d’ufficio introdotta dal decreto correttivo n. 169/2007 che all’art. 173, comma 2 subordina la declaratoria di fallimento all’istanza di un creditore o alla richiesta del pubblico ministero, ha invero valore esplicativo di un meccanismo operativo che già nel precedente testo aveva espunto l’iniziativa officiosa anche nelle ipotesi residue, che pur ancora la prevedevano secondo una tralaticia riedizione del vecchio testo normativo, in quanto prive di una giustificazione coerente alla riformata sistematica concorsuale.

Rappresenta insomma una norma di coordinamento che esplicita un meccanismo che già aveva soppresso, uniformandosi alla logica immanente al riformato sistema, le ipotesi tuttora in vigore d’iniziativa officiosa antitetiche al ruolo di terzietà ritagliato in via programmatica e generale per il giudice fallimentare. A questa costruzione esegetica, che s’intende ribadire, è ispirata la decisione impugnata che, sulla base della lettura sistematica della disciplina dettata in materia ha ricondotto la soppressione dell’automatica sanzione del fallimento d’ufficio prevista dal decreto correttivo n. 169/2007 alla generale esclusione del fallimento d’ufficio operante anche nella versione del D.Lgs. n. 5 del 2006, applicabile all’ipotesi esaminata. Il ricorso spende argomenti che non inducono ad una rivisitazione di questo percorso critico sì che deve esserne disposto il rigetto senza farsi luogo alla regolamentazione delle spese del presente giudizio in assenza d’attività difensiva dell’intimato.

P.Q.M.

La Corte: rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2012.

Depositato in Cancelleria il 10 aprile 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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