Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 12-10-2011) 25-10-2011, n. 38650

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza del 17 marzo 2009 la Corte d’appello di Cagliari, accogliendo l’appello del pubblico ministero, così riformava la decisione di primo grado:

– dichiarava gli agenti della polizia stradale D.G. e L.G.L. colpevoli del delitto di concussione;

– proscioglieva i medesimi dal reato di omissione di atto d’ufficio, perchè estinto per prescrizione.

La Corte distrettuale ricostruiva i fatti come segue. La notte del (OMISSIS) gli imputati sorprendevano dentro un’autovettura parcheggiata nel piazzale del ristorante con annessa discoteca gestito da A.T., il cuoco C.L. mentre consumava dello stupefacente insieme a un amico. Di ciò informavano subito A., prospettandogli la possibile chiusura del locale. Alla sua obiezione che non potevano rovinargli la stagione per colpa di un dipendente che avrebbe subito licenziato, lasciavano capire che non avrebbero proceduto e si allontanavano senza prendere i nomi dei due consumatori di stupefacente nè perquisire la loro auto. La sera dopo gli imputati ritornavano nel ristorante e consumavano una pizza senza pagare perchè A. gliela offriva. Nei giorni successivi frequentavano la discoteca, astenendosi dall’ordinare consumazioni nel cui pagamento era compreso il prezzo di ingresso.

Orbene la Corte territoriale osservava anzitutto che gli imputati avevano commesso il reato previsto dall’art. 328 c.p., non avendo denunciato al prefetto – a norma del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 – C. e il suo amico sorpresi ad assumere sostanza stupefacente.

Poi, pur rilevando che A. negava di avere subito minacce o pressioni, riteneva che dalla complessiva ricostruzione del fatto risultasse palese che egli era stato indotto a prestazioni indebite (offerta di un pasto e accessi gratuiti alla discoteca) "dalla necessità di mantenere la benevolenza dei poliziotti", i quali avevano omesso l’atto d’ufficio al fine di esercitare una pressione psicologica e ottenere gli indebiti vantaggi in discorso.

La difesa degli imputati ricorre per cassazione e denuncia:

1. erronea applicazione dell’art. 317 c.p. e vizio di motivazione.

Censura che la sentenza impugnata attribuisca alla descrizione fornita da A. dei suoi rapporti con gli agenti (aveva offerto la cena "di sua spontanea volontà") un significato opposto a quello reso palese dalle parole usate, affermando arbitrariamente che il teste attraverso le espressioni verbalizzate avrebbe lasciato intendere l’esatto contrario e obbietta:

– che l’episodio della notte del 7 agosto si era concluso con l’allontanamento degli agenti che avevano deciso di lasciar correre, per cui l’offerta della cena (e degli altri benefici) non poteva essere vista come manifestazione di paura, da parte di A., di quanto sarebbe potuto succedere in un eventuale futuro; – che, se la cena e gli accessi gratuiti in discoteca furono offerti perchè gli agenti "chiusero un occhio" su quanto era accaduto la sera del 7 agosto e nell’ottica di mantenere buoni rapporti con i poliziotti, il fatto dovrebbe essere qualificato come corruzione ex art. 319 c.p., sempre che i servizi offerti siano sufficienti a integrare un’utilità penalmente rilevante; 2. vizio di motivazione in ordine al reato di cui all’art. 328 c.p., perchè emergerebbe dagli atti l’insussistenza del fatto, non avendo gli imputati acquisito la certezza che C. e l’amico stessero consumando sostanza stupefacente.

2. Il primo motivo di ricorso è fondato.

La Corte d’appello, nel riformare la sentenza di primo grado, non ha assolto il dovere di un’adeguata confutazione delle ragioni poste a base della decisione riformata.

Anzitutto non ha fornito una logica spiegazione del motivo per cui ha attribuito alle parole della presunta persona offesa un significato opposto a quello inteso dal primo giudice. Il capovolgimento interpretativo appare infatti arbitrario, essendo sorprendente che l’asserito uso retorico dell’espressione verbale sulla spontanea offerta della cena sia stato percepito non dal giudice di primo grado, che personalmente ascoltò la testimonianza dal vivo, ma da quello d’appello, che detta testimonianza ha conosciuto soltanto tramite l’asettica lettura di un verbale.

In secondo luogo non ha dato una spiegazione logica e plausibile del meccanismo concussivo mediante il quale sarebbe stata piegata la volontà della pretesa vittima. Invero il giudice d’appello, preso atto che l’iniziale minaccia di "far chiudere il locale" era subito rientrata, ha individuato l’origine della pressione psicologica che sarebbe stata esercitata su A. nell’abuso di avere omesso la denuncia al prefetto, per poi aggiungere che A. avrebbe offerto la cena spinto "dalla palese necessità di mantenere la benevolenza dei poliziotti".

E’ ben vero che l’imputazione, per il reato di omissione di atto d’ufficio, contesta la circostanza aggravante del nesso teleologia), ma non si comprende nè viene spiegato come la decisione dei poliziotti di non segnalare al prefetto l’episodio accertato abbia potuto svolgere nella vicenda una funzione di mezzo a fine rispetto alla concussione susseguente.

In merito, poi, alla "necessità di mantenere la benevolenza dei poliziotti", se per benevolenza si intende, come sembra voler dire la sentenza impugnata che pone la parola tra virgolette, una tolleranza contra legem, è evidente che l’esigenza di procurarsela non configura – come erroneamente opina il giudice d’appello – una "necessità" tale da costringere o indurre il soggetto privato a dare o promettere un’utilità indebita, ma piuttosto assume i connotati di una convenienza il cui perseguimento implica la libera scelta del soggetto interessato, il quale, se, mirando a quel risultato, da o promette denaro o altra utilità proporzionati al valore dell’atto contrario ai doveri d’ufficio, commetterà il delitto di corruzione propria antecedente.

Tornando al caso concreto, i poliziotti, facendo intendere per fatti concludenti che non avrebbero proceduto, avevano chiuso l’incidente e disinnescato l’effetto minatorio insito nella possibilità di un esercizio distorto del potere di denuncia connesso all’evento accertato. Ciò assodato, viene a cadere ogni ipotesi di pressione prevaricatrice esercitata nei confronti della vittima della pretesa estorsione e, invece, appare ben più coerente con le risultanze probatorie l’interpretazione del fatto propugnata dal giudice di primo grado, che ha ravvisato nell’offerta spontanea della cena un segno di deferenza verso i tutori dell’ordine, scevro di profili di rilevanza penale.

Pertanto la sentenza impugnata, con riferimento al delitto di concussione, va annullata per insussistenza del fatto.

Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Dalla lettura della sentenza impugnata non risulta evidente che il fatto non sussiste o non costituisce reato. Risulta invece che i ricorrenti ebbero contezza che la sostanza consumata dai due giovani aveva natura stupefacente, dato che ne percepirono l’odore caratteristico e ne ricevettero conferma dall’esplicita ammissione dei due consumatori.

P.Q.M.

La Corte di cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al delitto di concussione perchè il fatto non sussiste; rigetta nel resto il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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