Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-04-2012, n. 5784 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 7.7.09 la Corte d’appello di Ancona rigettava il gravame di Poste Italiane S.p.A. contro la sentenza del Tribunale di Pesaro che, in accoglimento della domanda presentata da P.E., dichiarata l’illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro stipulato fra le parti il 3.11.99, aveva condannato detta società al ripristino del rapporto, convertito in uno a tempo indeterminato, e a pagare alla P. medesima le retribuzioni maturate dalla data dell’offerta della prestazione lavorativa.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre Poste Italiane S.p.A. affidandosi a tre motivi.

Resiste con controricorso la P..

Motivi della decisione

1- Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., art. 1363 c.c., e segg., nonchè vizio di motivazione per avere la gravata pronuncia, sul presupposto della natura "eccezionale" della clausola di apposizione del termine, arbitrariamente ritenuto, malgrado la L. n. 56 del 1987, art. 23, che l’ipotesi deve essere necessariamente correlata ad una precisa limitazione temporale, ravvisata nella data del 30.4.98 che, invece, l’accordo integrativo 25.9.97 e i successivi non prevedono; inoltre – prosegue il ricorso – ancora erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto non soddisfatto l’onere probatorio circa l’esistenza di un nesso funzionale tra le esigenze della società e l’assunzione a termine della lavoratrice.

Il motivo è infondato.

L’impugnata sentenza non ha affatto statuito la necessità di un qualche limite temporale alla possibilità di assunzione a termine, ma ha semplicemente attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto di lavoro in oggetto è stato stipulato – ai sensi dell’art. 8 CCNL del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25.9.97 – in data successiva al 30.4.98, allorquando era espressamente venuta meno la copertura autorizzatoria prevista dalla stessa autonomia collettiva.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al CCNL de 2001 e al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’affermata nullità del termine apposto ai contratti de quibus.

A tale riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2.3.2006 n. 4588 è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4.8.2008 n. 21063; cfr., altresì, Cass. 20.4,2006 n. 9245; Cass. 7.3.2005 n. 4862; Cass. 26.7.2004 n. 14011).

Ove però – come accaduto nel caso di specie – un limite temporale (quello del 30.4.98) sia stato in concreto previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v., ex aliis, Cass. n, 316/2011; Cass. 23.8.2006 n. 18383; Cass. 14.4.2005 n. 7745; Cass. 14.2.2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, ari.

7" (cfr., ex aliis, Cass. n. 316/2011, cit.; Cass. r.10.2007 n. 20608; Cass. 28.1.2008 n. 28450; Cass. 4.8.2008 n. 21062; Cass. 27.3.2008 n . 7979; Cass. n. 18376/2006).

In base a tale orientamento consolidato non merita, quindi, censura la statuita la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de qua, il che assorbe ogni ulteriore argomentazione a riguardo svolta nel motivo in esame.

2- Con il secondo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione di norme di diritto e vizio di motivazione laddove la gravata pronuncia ha confermato la condanna risarcitoria emessa in prime cure nonostante che la lavoratrice, pur onerata della relativa prova, non abbia dimostrato il danno conseguente all’accertata natura a tempo indeterminato del rapporto di lavoro de qua.

Il motivo, per quanto basato su argomenti non condivisibili, è comunque da accogliersi in forza dell’applicazione dello ius superveniens costituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, nei sensi e nei limiti appresso chiariti.

Si cominci con il dire che proprio la giurisprudenza richiamata dalla società ricorrente, nell’escludere l’automatismo di un danno pari alle retribuzioni perdute, ammette che esso possa essere ridotto in ragione dei differenti compensi riscossi per prestazioni svolte – nel periodo considerato – presso altri datori di lavoro (aliunde perceptum), compensi la cui percezione deve essere provata non già dal lavoratore, bensì dal datore di lavoro, che deve dimostrare non solo che il lavoratore abbia nel frattempo trovato altra occupazione, ma anche quanto egli abbia percepito, essendo questo il fatto che riduce l’entità del danno presunto (ed anche in proposito la giurisprudenza di questa S.C, è assolutamente costante: cfr., ex aliis, Cass. 26,10.2010 n. 21919, ord.).

L’impugnata sentenza non si è discostata da tali principi, di guisa che non merita le censure rivoltele.

Tuttavia, il motivo in oggetto – in quanto non inammissibile – ha comunque devoluto a questa S.C. la questione inerente al quantum delle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, il che rende applicabile d’ufficio la L. n. 183 del 2010, art. 32, intervenuto nelle more di fissazione dell’udienza, che al comma 5 così dispone: "Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8".

I successivo comma 7 stabilisce che "Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ.".

Secondo costante insegnamento di questa S.C. (cfr., ex aliis, Cass. 26.7.11 n. 16266), nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto una nuova disciplina del rapporto controverso può applicarsi purchè pertinente rispetto alle questioni poste in ricorso, atteso che i principi generali dell’ordinamento in materia di processo per cassazione richiedono che il motivo di impugnazione, con cui è investito, anche indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta, sia ammissibile secondo la disciplina sua propria. Ne consegue che -riguardo alla L. n. 183 del 2010, art. 32, sulle conseguenze economiche della nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro – è necessario che i motivi del ricorso, purchè ammissibili, investano specificamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine medesimo.

Nel caso di specie, i motivi concernenti la decorrenza della mora accipiendi del datore di lavoro si ripercuotono direttamente sulle conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato il 1.3.04 fra le odierne parti, di guisa che il cit. ius superveniens va applicato anche d’ufficio al giudizio di legittimità.

Nel caso particolare dell’applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5 e 7, anche ai giudizi di legittimità, questa S.C. si è già pronunciata con ordinanza n. 2112 del 28.1.2011 e, proprio sulla scorta di tale assunto, Corte cost. n. 303/2011 ha poi ammesso la rilevanza – anche se non la fondatezza – della prospettata questione di legittimità costituzionale.

In senso analogo cfr. altresì, da ultimo, Cass. 29.2.2012 n. 3056.

Pur essendo la citata sentenza della Corte cost. vincolante solo nel giudizio a quo (trattandosi di pronuncia di rigetto), restano tuttavia insuperate le considerazioni svolte dalla summenzionata ordinanza n. 2112/2011 di questa Corte Suprema, che qui vanno sviluppate mediante un’interpretazione costituzionalmente conforme.

Orbene, per quanto il tenore testuale del comma 5 del cit. art. 32 – riferendosi alla fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – evochi attività proprie della sede di merito e non di quella di legittimità, nondimeno escludere il giudizio di cassazione dalla sfera di operatività della norma in discorso equivarrebbe a discriminare irragionevolmente tra loro situazioni, pur analoghe, in base alla circostanza – del tutto fortuita – della pendenza della lite in una fase piuttosto che in un’altra, assoggettando le parti del rapporto di lavoro ad un regime risarcitorio diverso a seconda che i processi pendano in primo o secondo grado oppure innanzi a questa S.C..

E poichè una discriminazione di siffatto tipo è stata già dichiarata costituzionalmente illegittima da Corte cost. n. 214/09 con riferimento alla circostanza, accidentale, della pendenza di una lite (in quella occasione si trattava del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 4 bis, introdotto dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 21, comma 1 bis, convertito, con modificazioni, in L. 6 agosto 2008, n. 133), a fortiori lo sarebbe se, all’interno della medesima ipotesi fattuale (pendenza della lite), si operasse un’ulteriore irragionevole distinzione (lesiva, quanto meno, dell’art. 3 Cost.) fra processi pendenti in sede di merito e altri innanzi ai giudici della legittimità.

Nè la doverosa interpretazione costituzionalmente conforme incontra, nel caso di specie, il limite di un insuperabile contrario tenore letterale della norma.

In proposito si muova dal rilievo che il riferimento alla fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. è contenuto nel secondo periodo del comma 7, in chiave all’affermazione, che si legge nel primo periodo dello stesso comma, di applicabilità delle disposizioni di cui ai commi 5 e 6 a tutti i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge.

In tal modo il legislatore, piuttosto che segnalare all’interprete un’incompatibilità del giudizio di legittimità rispetto ad attività proprie del merito, si è limitato a disciplinare gli effetti della norma una volta ripristinata la sede di merito mediante cassazione con rinvio conseguente, appunto, all’applicazione dello ius superveniens sancita nel primo periodo del comma.

In altre parole, il legislatore ha solo ricordato (sempre in ipotesi di previa applicazione in sede di legittimità dell’art. 32, comma 5 cit.) che il giudice del rinvio può ovviare al divieto di nuove istanze di prova mediante uso dei poteri istruttori d’ufficio, esercitabili anche in appello nei limiti di cui all’art. 437 c.p.c., comma 2, secondo periodo.

Indubbiamente prima facie resta un’apparente distonia sistematica, considerato che il divieto di nova in secondo grado contenuto nel primo periodo del cit. art. 437 c.p.c., comma 2, poco si amalgama con il richiamo alla possibilità di fissare alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni, ove ad essere cassata sia (come normalmente avviene, fatti salvi eventuali ricorsi per saltum) una sentenza di appello, oppure ove il processo penda ancora in tale fase.

Ma piuttosto che intendere detto richiamo come improbabile deroga all’art. 437 c.p.c. o come divieto di applicazione dell’art. 32, comma 5 ai giudizi pendenti in appello o in cassazione (di problematica legittimità costituzionale, come si è detto), è doveroso risolvere l’improprietà tecnica (nata dall’unificazione, in un solo periodo, di tutti gli effetti dell’immediata applicazione dello ius superveniens che, invece, meglio si sarebbe potuta articolare per ciascun grado del processo) valorizzando l’inciso "ove necessario" e il valore disgiuntivo/inclusivo (di operatore logico booleano "or") della congiunzione che precede l’ultima proposizione del comma 7 del cit. art. 32 ("ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ.").

L’inciso "ove necessario" dimostra che la possibilità di modifiche del petitum e di esercizio dei poteri istruttori d’ufficio va modulata in ragione, appunto, dello stato e del grado in cui si trova il processo e affidata all’opera razionalizzatrice dell’interprete.

Pertanto, tali modifiche (di domande ed eccezioni) potranno eventualmente rendersi necessarie solo in prime cure, se del caso anche con esercizio dei poteri istruttori d’ufficio, mentre in appello – proprio grazie al valore disgiuntivo/inclusivo della congiunzione che precede l’ultima proposizione del comma – resteranno consentiti solo questi ultimi.

In conclusione, deve ribadirsi che il combinato disposto dei commi 5 e 7 del cit. art. 32 è applicabile anche in sede di legittimità. 3- L’accoglimento del secondo motivo, nei sensi e nei limiti di detto ius superveniens, assorbe l’esame del terzo motivo di ricorso, con cui si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 210 e 421 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, per avere la Corte territoriale omesso qualsivoglia decisione in merito alla richiesta, avanzata da Poste Italiane S.p.A. in entrambi i gradi del giudizio, volta ad ottenere l’esibizione del libretto di lavoro e delle buste paga al fine di accertare se e in che misura il lavoratore abbia percepito compensi per attività svolte alle dipendenze e/o nell’interessi di terzi.

4- In conclusione, accolto il secondo motivo, rigettato il primo ed assorbito il terzo, questa S.C. cassa la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Bologna affinchè determini il risarcimento dovuto alla P. in una misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8, fermo restando che, proprio a seguito della cit. Corte cost. n. 303/2011, il danno in tal modo forfetizzato dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, copre solo il periodo c.d. intermedio, cioè quello compreso dalla scadenza del termine fino alla sentenza che ne accerta la nullità e dichiara la conversione del rapporto in uno a tempo indeterminato.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo, dichiara assorbito il terzo e cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Bologna.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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