Cons. Stato Sez. VI, Sent., 23-11-2011, n. 6173 Contratti

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il ricorso n. 1619 del 2010, proposto al Tar del Lazio, la s.r.l. D. Costruzioni ha impugnato i provvedimenti con i quali diverse Amministrazioni (la s.p.a. A., la s.p.a. RFI, l’Autorità portuale di Messina, il Comune di Agrigento, il Comune di Lentini, la s.p.a. Italferr) hanno disposto il recesso da rapporti contrattuali già instaurati per l’esecuzione di pubblici appalti, ovvero la sospensione di lavori o l’esclusione da gare di appalto.

Tutti gli atti oggetto del giudizio sono stati determinati dalle risultanze dell’informativa antimafia ex art. 10, comma 7, del d.P.R.n. 252 del 1998, anch’essa impugnata, di cui alla nota della Prefettura di Roma in data 4 febbraio 2010.

La sentenza impugnata ha ritenuto che il provvedimento prefettizio fosse congruamente motivato, alla luce degli elementi emergenti dagli specifici accertamenti in esso richiamati, che evidenziano situazioni relative a tentativi di infiltrazione mafiosa.

Tali elementi sono relativi al ruolo di influenza dominante esercitato sull’amministratrice unica della società D., signora R. F., dal padre P. F., titolare di quote di proprietà della s.r.l. Construction Company della quale la società D. ha preso in affitto il ramo d’azienda destinato ai lavori pubblici; dalla contiguità parentale e dalla vicinanza di interessi, valorizzata dal nucleo regionale della Guardia di Finanza con nota del 7 ottobre 1992, tra il signor P. F. e il cugino sig. C. F., già "noto esponente mafioso di cui è divenuto, successivamente al decesso di quest’ultimo, il naturale sostituto nella conduzione delle società e nella gestione degli affari"; nel rinvio a giudizio di P. F., in data 16 giugno 2004, per il reato di bancarotta fraudolenta con l’aggravante del fine di agevolazione dell’attività mafiosa e nell’indagine che lo riguarda nel procedimento penale n. 13422 del 2006, pendente al Tribunale di Palermo per lo stesso reato e con la stessa aggravante.

Con l’appello in esame, la società ricorrente oppone che:

– il procedimento penale n. 13422 a carico del signor P. F. si è concluso con l’ archiviazione disposta dal GIP con decreto del 1° marzo 2011, su conforme richiesta del PM presso la locale direzione distrettuale antimafia;

– la società D. è amministrata dalla signora R. F., sulla quale non grava alcun sospetto;

– l’ingerenza del sig. P. F. nell’impresa della figlia sarebbe stata apoditticamente desunta dalla circostanza dell’affitto di ramo d’azienda, che è stato risolto e che è, di per sé, irrilevante ai fini probatori, essendo dovuto a scelte imprenditoriali liberamente assunte;

– non può essere imputato al sig. F. alcun comportamento rivelatore di collegamenti con ambienti della criminalità organizzata; gli viene, infatti, contestato di aver avuto rapporti di lavoro e frequentazioni con il cugino sig. C. F., deceduto nel 1993;

– a sua volta, il sig. C. F. non è stato mai condannato per reati di mafia; nel procedimento di prevenzione attivato nei suoi confronti è stato emesso un provvedimento di sospensione di amministrazione di beni di cui era titolare pro quota il sig. P. F., ma tale procedimento si è estinto per la morte del cugino;

– il sig. P. F. non ha avuto rapporti o frequentazioni con il noto pregiudicato di cui è cenno nella nota della direzione investigativa antimafia del 25 gennaio 2010, né con gli altri soggetti indicati, né sono stati evidenziati elementi a suo carico successivi alla data del decesso del cugino;

– la revoca del porto d’armi e il divieto di detenzione d’armi sono provvedimenti privi di rilevanza, in quanto determinate dai rapporti col cugino e sulla base della pendenza del provvedimento ora archiviato;

– la parentela tra il sig. P. F. e l’amministratrice della società D., tra l’altro non conviventi, è inidoneo a giustificare un giudizio di permeabilità mafiosa a carico della società;

– il potere discrezionale dell’Amministrazione in materia di provvedimenti antimafia deve essere contemperato con la tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti, tra i quali il diritto al lavoro, il diritto alla conduzione dell’impresa, il diritto alla tutela dei beni patrimoniali e quello di difesa.

La società appellante ha quindi proposto istanze per la sospensione della sentenza impugnata, istanze che sono state respinte dalla Sezione con le ordinanze rese in data 15 febbraio 2011, 12 aprile 2011 e 31 maggio 2011.

Si sono costituite per resistere all’appello le Amministrazioni in epigrafe indicate.

Alla pubblica udienza del 18 ottobre 2011 l’appello è passato in decisione.

Motivi della decisione

I) Elemento centrale delle doglianze proposte con il ricorso al Tar, deciso con la sentenza impugnata, è la legittimità dell’informativa che il Prefetto di Roma ha emesso in data 4 febbraio 2010 ai sensi dell’art. 10, comma 7, del d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, a carico della società appellante.

Come questo Consiglio di Stato ha avuto modo di osservare (cfr., per tutte, sez. VI, 15 giugno 2011, n. 3647), la consistenza dei poteri discrezionali esercitabili dall’Amministrazione in ordine al rilascio di informative antimafia sono stati precisati da orientamento ormai consolidato, secondo il quale il provvedimento non trova quale presupposto ineludibile un provvedimento penale a carico degli appartenenti all’impresa (sia pure di carattere preventivo o anche assolutorio), ma può prescindere da qualsiasi precedente penale, giustificandosi sulla considerazione del pericolo dell’infiltrazione mafiosa, purché non immaginifico né immaginario. Neppure occorre che tale pericolo sia concretamente provato, purché sia fondato su elementi presuntivi e indiziari, la cui valutazione è rimessa alla lata discrezionalità del prefetto, sindacabile in sede di legittimità unicamente sotto il profilo della illogicità, incoerenza o inattendibilità.

L’informativa antimafia non risponde, infatti, a finalità di accertamento di responsabilità, ma ha carattere accentuatamente preventivocautelare, con la conseguenza che gli elementi che, in sede penale, non sono valsi ad accertare la sussistenza di un reato possono ben essere suscettibili di diversa valutazione in sede amministrativa, al fine di fondare un giudizio di possibilità che l’attività considerata possa subire condizionamenti da soggetti legati alla criminalità organizzata.

Il Prefetto, nel rendere le informazioni antimafia richieste ai sensi dell’art. 10, comma 7, del d.P.R. n. 252 del 1998, non deve quindi basarsi necessariamente su specifici elementi aventi rilevanza penale, ma deve effettuare la propria valutazione sulla scorta di un complessivo quadro indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni.

Correlativamente, il sindacato del giudice è circoscritto a verificare sotto il profilo della logicità la congruenza della conclusione alla quale il Prefetto è pervenuto, con le risultanze evidenziate dalla relativa, necessaria istruttoria.

II) In base ai principi così puntualizzati, emerge l’infondatezza delle censure riproposte con l’atto di appello avverso la determinazione prefettizia che è stata posta a base degli ulteriori provvedimenti lesivi per la società.

Non è dato, infatti, riscontrare vizi di legittimità, nei limiti estrinseci che, come si è detto, appartengono alla valutazione in questa sede.

In effetti l’informativa è motivata con riferimento agli elementi evidenziati con le note del 25 e del 29 gennaio 2010 dalla Direzione informativa antimafia, centro operativo di Roma, che a sua volta richiama le attività investigative effettuate dal Nucleo regionale di Polizia tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, svolte dal 1992, elementi dai quali emerge la non illogicità della determinazione assunta e la sua congruenza rispetto alle risultanze istruttorie

In tale contesto, l’episodio della cessione delle armi a titolo gratuito da parte del sig. C. F. – latitante colpito da un ordine di cattura – al cugino P. F. è stato ragionevolmente considerato significativo da parte dell’Amministrazion, così come l’ulteriore della constatata frequentazione di soggetti denunciati per gravi reati (sia pure non pregiudicati).

In contrario, non possono valere le considerazioni svolte dall’appellante, riassunte in fatto, poiché, come si è premesso, né l’archiviazione del più recente procedimento penale a carico del sig. P. F., né la risalenza nel tempo della sua frequentazione con il cugino pregiudicato possono assumere valore dirimente: non la prima, atteso che, come si è premesso, le vicende penali, anche se concluse in senso favorevole per l’indiziato, non costituiscono presupposto per il provvedimento in esame; non la seconda, poiché i pregressi indizi di contiguità con la criminalità organizzata possono essere superati solo se successivi comportamenti (riferibili ad una diuturna trasparente attività imprenditoriale) siano tali da scolorirne la rilevanza, e, nel caso di specie, la condotta del soggetto, come descritta nelle risultanze istruttorie, non è stata tale da rendere ingiustificata o illogica la valutazione prefettizia sfociata nel provvedimento oggetto del ricorso di primo grado.

D’altra parte, negli atti poste a base delle determinazioni del Prefetto, l’Amministrazione ha legittimamente tenuto conto delle risultanze emerse nel corso delle indagini svolte nel procedimento penale n. 5848 del 2000, anche se l’ordinanza del Tribunale di Termini Imerese, in data 11 luglio 2008, ha dichiarato la nullità del rinvio a giudizio, per la ravvisata indeterminatezza della imputazione, disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero.

Quanto alla pretesa irrilevanza della condotta del sig. F. ai fini della valutazione della società della quale è amministratrice unica la figlia R., valgono le considerazioni generali che si sono premesse: la circostanza dell’affitto del ramo d’azienda dalla società della quale è comproprietario il padre, insieme al sig. Fr. F., con il quale risulta avere cointeressenze, la proprietà di quote della società cedente, il rapporto di parentela, sono tutti elementi tali da far ritenere non illogicamente dedotto il legame in forza del quale l’effettivo controllo della società appellante possa ritenersi appartenente, o quantomeno influenzato, dal soggetto sospettato di legami con la criminalità organizzata e, attraverso di lui, dall’organizzazione criminosa.

III) In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto.

Le spese del secondo grado del giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe indicato n. 10709 del 2010, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

Condanna la società appellante a rifondere alle Amministrazioni resistenti le spese del secondo grado del giudizio, nella misura di 1.500 (millecinquecento) euro per ognuna di esse, oltre IVA e CPA se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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