Cass. civ., sez. V 21-10-2005, n. 20398 TRIBUTI ERARIALI DIRETTI – CONTENZIOSO TRIBUTARIO – IMPOSTA SUL REDDITO DELLE PERSONE FISICHE- Natura dell’avviso di accertamento – Poteri del giudice- Acquisto di azioni da un fondo comune d’investimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Sulla base di processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza l’ufficio distrettuale delle imposte dirette di Milano apportava, come rettifica al reddito 1992 della Banchi Maison s.r.l., la ripresa di minusvalenza per lire 291.872.000 su compravendita di azioni da fondi comuni d’investimento La società impugnava l’avviso di accertamento dinanzi alla commissione tributaria provinciale di Milano, deducendo che la minusvalenza, derivante dall’acquisto, e successiva rivendita, di 900.000 azioni della FIAT s.p.a., avvenute il 15 e 16 luglio 1992, evidenziava che l’art. 10 della legge n. 408 del 1990, nella versione all’epoca vigente, non contemplava tra le fattispecie elusive la cessione di valori mobiliari.

La commissione adita respingeva la censura, osservando che l’operazione era palesemente incompatibile con l’attività dell’impresa, operante nel settore tessile/abbigliamento, per cui il costo non poteva considerarsi deducibile, con la conseguenza della non riconoscibilità del credito d’imposta; inoltre, il dividendo scaturito dall’operazione andava stornato dal conto ricavi.

Proponeva appello la Banchi Maison (trasformatasi in s.p.a.), deducendo vizio di ultrapetizione, per avere la commissione fondato la decisione sulla non inerenza dell’operazione all’attività aziendale, e cioè su una ratio decidendi non prospettata dalle parti, e per essere stata omessa ogni motivazione sulle ragioni addotte a sostegno del ricorso introduttivo.

Con sentenza 29 novembre – 13 dicembre 2000 la commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva l’impugnazione, osservando che l’interpretazione sostenuta dall’ufficio poteva essere condivisa solo nella vigenza della modifica introdotta dalla legge 5 novembre 1992, n. 42, che limitava l’utilizzo del credito d’imposta (dividend washing) nel caso di acquisto di titoli da un fondo d’investimento mobiliare dopo la percezione del dividendo.

Nella specie, l’acquisto era avvenuto quando il titolo era ancora gravido del dividendo non ancora staccato e la successiva vendita era stata effettuata ad un prezzo inferiore, quando il titolo risultava privo del dividendo. Da ciò la minusvalenza relativamente compensata dal dividendo riscosso e dotato di credito d’imposta. La tesi dell’ufficio, secondo cui l’operazione suddetta risultava compiuta al solo scopo di ottenere un risparmio fiscale, era infondata, stante la non contestata validità dei fissati bollati in date 15 e 16 luglio 1992. Nè risultava dimostrata un’interposizione fit-tizia o simulazione (art. 37 del d.P.R. n. 600/73) o una sostituzione di reddito (art. 6 t.u.i.r. n. 917/86). In altri termini, il titolare di azioni che vende le stesse prima d’incassare i dividendi compie un’operazione legittima ed opponibile al fisco.

Avverso tale sentenza il Ministero delle finanze e l’Agenzia delle Entrate hanno proposto ricorso per Cassazione, sulla base di un mezzo d’annullamento.

La Banchi Maison s.p.a. resiste con controricorso.

2. Il motivo di ricorso.

2.1. Con unico, articolato motivo, le Amministrazioni ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli articoli 37, comma 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600; 1414, 1415, 1325, 1345, 1418, 2727, 2729 cod. civ.; 6, comma 2,14, comma 6 bis, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917; omessa o insufficiente motivazione; in relazione all’art. 360, comma 1", n. 3 e 5, cod.proc.civ..

Riportano in premessa il contenuto dell’accertamento sulla ripresa relativa al dividend washing. L’ufficio aveva ritenuto indeducibile il disavanzo di fusione considerando:

che le operazioni di acquisto e di successiva rivendita delle azioni erano state concluse in stretta successione temporale (il 15 e il 16 luglio 1992) a cavallo della riscossione del dividendo. Più precisamente, la Banchi Maison, dopo la delibera di distribuzione dei dividendi parte della FIAT s.p.a., aveva acquistato il 15 luglio 1992, tramite commissionaria, 900.000 azioni FIAT da un fondo comune d’investimento, per il prezzo di lire 4.693.416.750. Riscosso il dividendo di lire 207.000.000 il giorno successivo, 16 luglio 1992, aveva rivenduto, tramite commissionario, le azioni al medesimo fondo per il prezzo di lire 4.399.200.000, evidenziando così una perdita da negoziazione di lire 291.871.000. Secondo l’ufficio, la finalità dell’intera operazione era quella di realizzare un vantaggio fiscale, mediante imputazione: a) al fondo comune d’investimento di una plusvalenza da negoziazione di titoli fiscalmente irrilevante (art. 9, 1 comma, l. n. 77/83), invece di un dividendo soggetto a ritenuta a titolo d’imposta; b) alla società di capitali, di una minusvalenza fiscalmente deducibile e di un dividendo, con relativo credito d’imposta e ritenuta d’acconto scomputabili dall’imposta stessa dovuta;

la brevità di intervallo tra le operazioni di acquisto e di cessione; la riscossione del dividendo subito dopo la prima o contestualmente alla seconda; la contestualità dell’incarico ad un intermediario per la vendita e il successivo riacquisto; la mancanza di apprezzabili ragioni non fiscali della transazione; la quasi esatta coincidenza tra l’importo del dividendo e la differenza tra prezzo di cessione e quello di riacquisto del titolo da parte del fondo; erano tutte circostanze che dimostravano l’esistenza di un collegamento tra i due negozi, dante luogo ad un procedimento negoziale atipico rivolto al conseguimento di un vantaggio economico definibile come "scambio di reddito a scopo di guadagno fiscale", effettuato con l’interposizione della società di capitali nella riscossione del dividendo destinato al fondo d’investimento, facendone conseguire l’importo a quest’ultimo a titolo di plusvalenza da negoziazione (e quindi senza ritenuta a titolo d’imposta), con una minusvalenza deducibile ai fini i.r.pe.g. – i.lo.r. per la società di capitali, nei cui confronti il dividendo, di pari importo, è di fatto esente per effetto del credito d’imposta, non è imponibile i.lo.r.; è, inoltre, recuperabile l’importo della ritenuta d’acconto subita;

si determinava, cosi, la traslazione di una parte del reddito (i dividendi) dal suo naturale titolare (i fondi d’investimento) ad un terzo (società di capitali), al fine di conseguire il vantaggio fiscale consistente nella più favorevole tassazione riservata agli enti diversi dai fondi d’investimento; il corretto regime tributario dell’operazione doveva essere individuato nell’applicazione dell’art. 6, comma 2, del t.u.i.r. (insostituibilità del reddito) e dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. N. 600/73 (interposizione di soggetti, quando, in base a presunzioni gravi, precise e concordanti gli stessi possono considerarsi come semplici esattori), La conseguenza è che l’importo deve essere considerato come utile da partecipazione, e non come plusvalenza da negoziazione.

Secondo la difesa erariale, la commissione tributaria regionale avrebbe dovuto ritenere sussistente, in fatto, una mera cessione, dal fondo alla Banchi Maison, del credito all’incasso del dividendo, e non una cessione della titolarità delle azioni. Una vera cessione avrebbe dovuto, infatti, essere incondizionata e a tempo indeterminato. Solo se la società avesse potuto liberamente decidere se tenere o rivendere i titoli e, in questo caso, a chi rivendere e a quale prezzo, si sarebbe potuto sostenere che la vendita era stata reale.

Avendo la stessa parte dichiarato che la finalità dell’operazioneera puramente fiscale, l’oggetto della negoziazione non era lo scambio puro e semplice delle azioni contro un dato prezzo. Le finalità di risparmio fiscale del meccanismo negoziale entravano nella struttura dello stesso, e non potevano essere relegate a meri motivi.

Secondo la difesa erariale vi era stata violazione degli articoli 1414 e 1415, non essendo stato voluto alcun trasferimento di proprietà o, quanto meno, essendo stata trasferita una situazione soggettiva diversa e minore della proprietà, ossia la mera legittimazione a riscuotere il dividendo, senza trasferire il possesso dei titoli. Del tutto irrilevante era la regolarità formale dei fissati bollati, circostanza evidenziata dai giudici di merito per affermare l’esistenza reale del trasferimento.

In entrambi i casi (simulazione assoluta o relativa) sarebbe statoviolato l’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600/73, la cui applicazione non poteva ritenersi limitata all’ipotesi di simulazione soggettiva.

La norma è di tale ampiezza da comprendere qualsiasi ipotesi di interposizione nella titolarità di situazioni soggettive fiscalmente rilevanti, e la sua portata innovativa consisterebbe nell’attribuire all’Amministrazione finanziaria il potere di disconoscere situazioni oggettive senza dover promuovere apposita azione di simulazione.

Il rilievo dato dalla commissione regionale all’art. 7 bis del d.l. n. 372 del 1992, convertito nella legge n, 429 del 1992, norma che ha introdotto nell’art. 14 del t.u.i.r. il comma 6 bis, escludendo l’applicabilità del credito d’imposta nei casi di acquisto di azioni da fondi d’investimento o SICAV quando sia stato già deliberato ildividendo non pare decisivo. Infatti, tale norma si riferisce ai casi in cui l’operazione è reale e non impedisce, per i periodi anteriori, se si fossero verificate ipotesi di trasferimenti simulati.

Ancora, la commissione tributaria regionale avrebbe erroneamente considerato come motivo irrilevante quello che era un oggettivo elemento causale, e cioè la finalità esclusivamente fiscale dell’operazione.

Vi era stata anche violazione dell’art. 6, comma 2, del t.u.i.r., essendosi ritenuta percettore del dividendo la società, laddove lo stesso era stato, invece, percepito dal fondo d’investimento. La Banchi Maison incassava il dividendo come semplice cessionaria del relativo credito, o come mandataria all’incasso. In proposito viene evidenziato che entrambe le compravendite erano state regolate in stanza di compensazione nello stesso giorno, per cui, in pratica, l’unico pagamento effettuato in concreto era stata la differenza tra prezzo del primo acquisto e prezzo della rivendita, pari al dividendo incassato.

Si deduce, ancora, violazione degli articoli 2727 e 2729 cod.civ., in quanto gli elementi addotti dall’ufficio, costituenti presunzioni gravi, precise e concordanti del carattere simulato dell’operazione, non erano stati contestati dalla società con adeguate controprove.

Le Amministrazioni ricorrenti lamentano, infine, che l’esclusione di una simulazione o di una interposizione fittizia sia stata affermata in modo apodittico, senza valutare gli elementi addotti dall’ufficio, col mero riferimento ad un elemento irrilevante, quale la regolarità formale dei fissati bollati.

2.2. Nel controricorso si deduce quanto segue: in via preliminare:

a) l’inammissibilità del ricorso dell’Agenzia delle Entrate perchè privo dell’indicazione della procura;

b) inammissibilità delle censure consistenti nell’affermata simulazione degli atti in contestazione, non prospettata nell’accertamento, nè nei precedenti gradi di giudizio;

nel merito:

a) l’amministrazione finanziaria non può riqualificare o ricostruire un negozio giuridico sulla base dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973, riferendosi tale norma soltanto all’interposizione soggettiva fittizia nella percezione di redditi, non esistendo, all’epoca, una disposizione generale antielusiva. Se l’amministrazione ravvisa una simulazione oggettiva, assoluta o relativa, di un negozio giuridico, dovrà necessariamente adire ilgiudice ordinario ai sensi dell’art. 1415, comma 2, cod. civ. Pertanto, non ha errato la commissione tributaria regionale non riconoscendo la simulazione dei negozi di compravendita dei titoli (simulazione peraltro non eccepita in appello), non conferendo la invocata norma tale potere qualificatorio;

b) l’ufficio stesso non aveva mai disconosciuto il reale compimento delle operazioni, pretendendo soltanto di assoggettare i negozi ad un regime ad esso più favorevole;

dove si interpretasse l’art. 37, comma 3, nel senso che esso si applicherebbe all’interposizione reale, occorrerebbe, in tal caso, oltre al negozio reale e palese di trasferimento, un negozio obbligatorio occulto, che attribuisce all’interponente una serie di diritti nei confronti dell’interposto (istruire quest’ultimo su ogni aspetto concernente la disposizione del bene e dei suoi frutti;

diritto di ottenere ad libitum il ritrasferimento). Ma l’esistenza di tale negozio occulto non è stata neppure allegata dalle parti. Solo successivamente, e cioè col comma 6 bis dell’art. 14 d.P.R. 917/86, introdotto dal d.l. 372/92, è stata negata la fruizione del credito d’imposta alle società che abbiano acquistato azioni da un fondo comune d’investimento;

d) non ricorre la denunciata violazione dell’art. 6, comma 2, del t.u.i.r, 917/86, integrato con l’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/73. Infatti, la Banchi Maison non è un sostituto d’imposta, per cui il regime fiscale avrebbe dovuto essere applicato al fondo d’investimento;

e) non può parlarsi di nullità dei negozi per illiceità della causa, trattandosi di contratti tipici di compravendita, per cui, al più, poteva prospettarsi l’illiceità dei motivi. Ma anche ammesso che l’unico motivo fosse un risparmio d’imposta, considerata l’inesistenza di una norma antielusiva generale, tale motivo non sarebbe, comunque, ravvisabile;

f) infine, quanto al denunciato vizio di omessa motivazione in relazione alle circostanze indiziarie indicate dall’ufficio, occorre considerare che le presunzioni offerte miravano solamente a dimostrare che l’operazione aveva consentito un legittimo risparmio d’imposta, e non che essa avesse posto in essere una simulazione negoziale volta a concretare un’evasione fiscale.

Motivi della decisione

3.1. L’esame dei motivi di ricorso comporta, anzitutto, un’esattaricostruzione dell’oggetto del giudizio, stante la necessità – evidenziata dalla società controricorrente – di verificare se le censure dell’Amministrazione finanziaria si siano mantenute nei limiti delle ragioni poste a base dell’accertamento e delle difese svolte dall’ufficio nel giudizio di merito. Dovendo verificarsi l’osservanza di regole in procedendo, e in particolare il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte (tra le ultime, sentenze n. 2148 e 13426 del 2004 e n. 375 del 2005) il giudice di legittimità può effettuare un diretto esame degli atti della causa necessari per la definizione dell’oggetto del giudizio, e in particolare, oltre alla sentenza di primo grado, degli atti difensivi delle parti e dell’accertamento (con gli atti ivi recepiti). Il che non implica un’adesione alla tesi della natura processuale (o preprocessuale) dell’accertamento, disattesa dalle Sezioni Unite della Corte nellasentenza 5 Ottobre 2004, n. 19864. Tale atto deve essere oggetto di diretto esame, non perchè abbia natura processuale, ma ai soli fini di verificare la denunciata inosservanza dell’art. 112 cod. proc. civ. Fermo restando che si tratta di un atto sostanziale, in quanto esprime nei confronti del contribuente, in modo autoritativo, la pretesa fiscale, lo stesso contiene una enunciazione della posizione processuale dell’Amministrazione finanziaria, la quale non può determinarsi in modo difforme da quanto espresso nell’accertamento.

1) Il processo verbale di constatazione.

In tale atto, richiamato nell’avviso di accertamento e già consegnato in copia al rappresentante della società, viene evidenziato che il trasferimento dei titoli alla società avevaconsentito di evitare il più gravoso regime fiscale previsto per i fondi comuni d’investimento dall’art. 9 della legge n. 77/83, così come sostituito dal d.l.vo 25 gennaio 1992, n. 83, il quale dispone che sugli utili azionari distribuiti da un fondo deve essere applicata una ritenuta a titolo d’imposta. Le finalità delle operazioni di compravendita titoli erano, pertanto, esclusivamente fiscali e si erano realizzate imputando al fondo una plusvalenza derivante dal differenziale tra prezzo di cessione e riacquisto del titolo, fiscalmente irrilevante ai sensi del citato art. 9, comma 1, invece che un dividendo soggetto a ritenuta a titolo d’imposta, e alla Banchi Maison un dividendo soggetto a ritenuta d’acconto e una perdita da negoziazione di titoli fiscalmente deducibile.

La Guardia di Finanza evidenziava la brevità dell’intervallo tra ledue operazioni, la riscossione del dividendo subito dopo la prima cessione e immediatamente prima della seconda, la mancanza di apprezzabili ragioni non fiscali dell’operazione, considerata, nel suo complesso, come un procedimento negoziale (non simulato), diretto ad interporre la Banchi Maison nella riscossione dei dividendi destinati al fondo. Richiamandosi la delibera del Se.C.I.T. n. 49 del 16 aprile 1993, venivano ritenuti applicabili gli articoli 6, comma 2, del t.u.i.r. e 37, comma 3, del d.P.R. n. 600/73. Quanto all’art. 7 bis, lett. a;, del d.l. 9 settembre 1992, n. 372, convertito nella legge 5 novembre 1992, n. 429, che modificava l’art. 14 del t.u.i.r. escludendo il credito d’imposta per i dividendi percepiti dagliacquirenti di azioni o quote di partecipazione in società, se detenuti da fondi mobiliari o da SICAV successivamente alla data di deliberazione, pur essendo tale norma applicabile solo ai dividendi percepiti dopo il 10 novembre 1992, la stessa non poteva considerarsi come una legittimazione implicita delle operazioni come quelle in contestazione, concluse prima di tale data. In conclusione, il risparmio netto d’imposta i.r.pe.g. ed i.lo.r. complessivamente conseguito per elementi negativi non deducibili ai fini di entrambi i tributi, e per indebiti detrazione del credito d’imposta e scomputo di ritenute d’acconto ai fini i.r.pe.g. era di lire 173.056. 760. 2) Le ragioni sostenute dalla Banchi Maison nel giudizio di merito.

Gli articoli 37, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973 e 6, comma 2, del t.u.i.r. sono inapplicabili al caso di specie, in cui vi è stata un’operazione effettivamente intervenuta tra le parti. Le operazioni denominate dall’ufficio dividendi washing, in base alla disciplina vigente prima del 10 novembre 1992, non potevano considerarsi elusive. In particolare, la prima norma si riferisce, dal punto di vista civilistico, ad un’ipotesi d’interposizione fittizia, e non ad un procedimento negoziale d’interposizione reale, contemplando soltanto il caso in cui l’effettivo possessore del reddito sia un soggetto diverso da quello apparente 3.2. Devono essere preliminarmente esaminate le questioni d’inammissibilità dei ricorsi svolte nel controricorso.

Quanto al dedotto difetto di procura all’Avvocatura dello Stato per il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, la Corte ha ripetutamente affermato (S.U., 6633/03; Sez. Trib., 7329703, 7344/03, 21301/04) che, essendo le Agenzie fiscali subentrate, dal 1^ gennaio2001, ai dipartimenti delle entrate in forza del d.l.vo 30 luglio 1999, n. 300, e dell’art. 1 del d.m. 28 dicembre 2000, con conseguente successione nel processo già instaurato nei confronti dell’amministrazione finanziaria statale, la difesa di tali enti può essere assunta – salvo i casi di conflitto d’interesse – dall’Avvocatura dello stato ex art. 43 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, senza la necessità di speciale autorizzazione. Ne consegue, a fortiori, la non necessità della procura.

è del pari infondata la questione d’inammissibilità delle censure dell’Amministrazione (simulazione oggettiva, assoluta o relativa, ovvero soggettiva, dei contratti di acquisto e rivendita delle azioni). La regola enunciata dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo cui le ragioni poste a base dell’atto impositivo segnano i confini del giudizio tributario, che è un giudizio d’impugnazione dell’atto, sì che l’ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse e modificare nel corso del giudizio la motivazione dell’atto, non deve essere intesa in senso talmente rigido da escludere l’autonomo potere qualificatorio del giudice o l’esercizio, da parte dello stesso, di poteri cognitori ex officio.

Nella specie, non può ritenersi che la tesi della simulazione nelle sue diverse specie, sostenuta dall’Avvocatura, costituisca un tema d’indagine precluso dall’essersi la pretesa fiscale fondata su un procedimento negoziale, pur reale, indiretto, sulla base della tesi sostenuta nel processo verbale di constatazione.

Infatti, la qualificazione dei negozi collegati, nel loro complesso, come meccanismo elusivo e i precisi riferimenti al loro contenuto consentivano un’adeguata difesa del contribuente, come di fatto è avvenuto, anche sotto il profilo della simulazione, profilo il cui esame da parte della commissione regionale, esame che non è stato censurato nel controricorso. Nel contempo non era affatto preclusa una scelta del giudice tributario circa una corretta definizione giuridica del rapporto e l’esercizio della difesa delle parti in relazione ad ipotesi d’invalidità rilevabili d’ufficio. I poteri del giudice tributario non possono, infatti, essere più limitati di quelli esercitabili in qualunque processo d’impugnazione di atti autoritativi, quale quello amministrativo di legittimità. Deve, pertanto, considerarsi sufficiente la negazione, da parte dell’ufficio impositore, dell’efficacia o dell’esistenza del contratto, o della sua opponibilità all’Amministrazione finanziaria.

Del resto, il fatto che un negozio risulti posto in essere al solo scopo di realizzare un risparmio fiscale può essere utilizzato, in assenza di una clausola generale antielusiva, come indizio di simulazione oggettiva o soggettiva o, secondo la previsione dell’art. 11, lett. a) della direttiva fusioni, scissioni, conferimento di attivo, scambio di azioni (23 luglio 1990 n. 434 CEE), come presunzione di evasione o di frode.

3.3. Le censure svolte circa la validità degli atti impositivi impugnati e sulla debenza del tributo (motivi da 1 a 7) meritano accoglimento, anche se per ragioni giuridiche non del tutto coincidenti con quelle sostenute dalle Amministrazioni ricorrenti.

Si deve rilevare, innanzitutto, che il principio affermato dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte (si richiamano, fra le altre, proprio in materia di dividendi washing, le sentenze 3 aprile 2000, n. 3979; 3 settembre 2001, n. 11351; 7 marzo 2002, n. 3345), secondo cui, prima dell’introduzione, da parte dell’art. 7, comma 1, del d.l.vo 8 ottobre 1997, n. 358, del nuovo testo dell’art. 37 – bis D.P.R. n. 600/73, non esisteva una clausola generale antielusiva nell’ordinamento fiscale italiano, deve essere riveduto, alla luce di alcuni principi ricavabili dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia comunitaria sul concetto di abuso del diritto. La Corte ha, infatti, ripetutamente affermato, anche se in settori diversi da quello dell’imposizione fiscale, (si vedano le sentenze della Corte di Giustizia 11 ottobre 1577, 125/76, Cremer; 2 maggio 1996, C – 206/94, Palletta;, 3 marzo 1993, C – 8/92, General Milk Products; 12 maggio 1998, C – 367/96, Kefalas; 30 settembre 2003, C – 167/01, Diamantis) che i singoli non possono avvalersi abusivamente dellenorme comunitarie. Tale principio, applicato in diversi settori del diritto comunitario, è stato ritenuto operante dalla Corte di Lussemburgo anche nel campo doganale, nel senso che non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi tali agevolazioni. Nella sentenza 14 dicembre 2000 in causa C – 110/99, Emsland – Starke GmbH c. Hauptzollamt Hamburg – Jonas, La Corte ha ritenuto abusive le c.d. operazioni di esportazione "a U", nelle quali, al fine di usufruire della restituzione di dazi doganali per l’esportazione di prodotti agricoli, le merci vengono consegnate al destinatario estero e da questi immediatamente restituite, senza alcuna utilizzazione, all’esportatore.

Nondimeno, l’esistenza di una clausola generale antiabuso, così come definito nella citata sentenza, nell’intero campo dell’imposizione fiscale non è stato ancora affermata dalla giurisprudenzacomunitaria. è evidente, d’altra parte, che l’esistenza di un tale principio svolgerebbe un innegabile effetto d’irraggiamento sull’intero sistema impositivo, anche per tributi, come quelli diretti che, pur ricadendo nella competenza degli Stati membri, sono comunque soggetti, secondo una costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, ai principi fondamentali dell’ordinamento comunitario.

Per quanto riguarda le fonti comunitarie, le stesse, a volte si limitano a rimettere al legislatore nazionale o alle convenzioni internazionali la previsione di clausole anti abuso, altre volte ne contengono una diretta definizione.

Un esempio del primo caso è costituito dall’art. 1, par. 2, della direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE sul regime fiscale applicabile alle società madri e figlie di Stati membridiversi: "La presente direttiva non pregiudica l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali necessarie per evitare frodi o abusi".

Contiene, invece un’espressa definizione la già citata direttiva del Consiglio sul regime fiscale delle fusioni, il cui art. 11, lett. a;

consente agli Stati membri di negare o revocare i benefici previsti dalla direttiva quando risulti che l’operazione ha come scopo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscale, e che può costituire presunzione di frode o di evasione il fatto che l’operazione "non sia effettuata per valide ragioni economiche".

Nella sentenza del 17 luglio 1997 in causa C – 28/95, A. Leur – Bloem c. Inspecteur der Belastingdienst, Ondernemingen Amsterdam 2, la Corte di Giustizia ha affermato che l’adozione, da parte dello Stato membro, di una norma che consente sic et simpliciterall’Amministrazione finanziaria di disconoscere gli effetti di un’operazione di tal genere costituisce un mezzo sproporzionato per la persecuzione del fine della direttiva, in quanto l’operazione deve essere globalmente esaminata.

Pertanto, pur non essendo stata affermata in modo radicale, e valevole per tutti i settori dell’imposizione fiscale, l’esistenza di una regola che reprima – attraverso l’inopponibilità dell’atto all’Amministrazione finanziaria – il "c.d. abuso dei diritto, non pare contestabile l’emergenza di un principio tendenziale, che – in attesa di ulteriori specificazioni della giurisprudenza comunitaria – deve spingere l’interprete alla ricerca di appropriati mezzi all’interno dell’ordinamento nazionale per contrastare tale diffuso fenomeno.

3.4. Nella presente causa si è ampiamente dibattuto sulla portata dell’art. 37, terzo comma, del D.P.R. n. 600/73, e cioè se tale norma costituisca una clausola generale antielusiva, prescindente dal regime civilistico degli atti, ovvero contenga un mero rinvio a categorie civilistiche, quali la simulazione oggettiva, assoluta o relativa, e l’interposizione fittizia di persona. In mancanza di decisivi argomenti sistematici appare assai arduo individuare nell’art. 37, comma 3", del d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo all’epoca vigente, una clausola generale antielusiva o anti abuso. Il Collegio, pertanto, si uniforma al principio affermato dalla Corte nelle già citate sentenze.

Una via diversa da quelle sopra richiamate, indicata nel processo verbale di constatazione e condivisa dalla decisione impugnata, è quella dalla riqualificazione o ricostruzione dell’atto come negozio meramente obbligatorio (e quindi non idoneo alla costituzione di un diritto reale che legittima il titolare alla riscossione in proprio dei dividendi).

3.5. La Corte ritiene che la ragione per cui i contratti di acquisto e di rivendita di azioni non possono svolgere effetti nei confronti del fisco lasciando, rendendo, quindi, applicabile il regime fiscale dei dividendi percepiti dai fondi comuni d’investimento, deve essere ravvisata in una specie d’invalidità ben più radicale, che non comporta alcuna nuova indagine di fatto, essendo coglibile nella stessa prospettazione delle parti, e che rende superflua qualsiasi indagine su ipotesi di simulazione oggettiva ovvero di interposizione fittizia o reale. Nè possono prospettarsi – in difetto di espresse previsioni normative – ipotesi di frode alla legge, nè di non meritevolezza del contratto ex art. 1322 cod. civ., trattandosi dicontratti tipici. Non può neppure parlarsi di motivo illecito invalidante, ricorrendo tale ipotesi solo quando i motivi integrino il perseguimento di finalità contrarie all’ordine pubblico o al buon costume o di altri scopi espressamente proibiti dalla legge.

Come ha esattamente rilevato la difesa dell’Amministrazione, attraverso i due contratti, prevedenti un acquisto e un trasferimento di azioni pressochè contestuali e previamente programmati, nessuna delle parti conseguiva alcun vantaggio economico.

Tale mancanza di ragione, che investe nella sua essenza lo scambio tra le prestazioni contrattuali attuato attraverso il collegamento negoziale, costituisce, a prescindere da una sua valenza come indizio di simulazione oggettiva o interposizione fittizia, un difetto dicausa, il quale da luogo, ai sensi degli articoli 1418, comma 2, e 1325, n. 2, cod. civ., a nullità dei contratti collegati (tipici) di acquisto e rivendita di azioni, in quanto dagli stessi non consegue per le parti alcun vantaggio economico, all’infuori del risparmio fiscale. Per parafrasare un’autorevole dottrina, le parti non possono trasferire beni soltanto per trasferirli e cioè senza perseguire uno scopo economico, che deve dare l’impronta giuridica alla volontà contrattuale.

Secondo la giurisprudenza della Corte (si vedano, in particolare, le sentenze n. 12401/92 e 5917/99), l’accertamento dell’esistenza dell’elemento causale – definito come scopo economico sociale – deve essere effettuato sul negozio o sui negozi collegati, nel loro complesso, e non con riferimento ai singoli negozi o alle singole prestazioni. Pertanto, per verificare l’esistenza della giustificazione socio – economica del negozio occorre valutare leattribuzioni patrimoniali conseguite dai due negozi nella loro reciproca connessione. Nella specie, quindi, l’esistenza della causa dei contratti collegati deve essere ricercata nell’intera operazione e non in ciascuna attribuzione patrimoniale separatamente considerata. La ricerca dell’elemento causale non può – come sostenuto dalla difesa dell’Amministrazione finanziaria – riguardare le conseguenze fiscali, che si ricollegano ope legis al negozio posto in essere, e che possono, al più, assurgere al livello di motivi.

Sembra opportuno, in proposito, richiamare il principio affermato dalla giurisprudenza della Corte (sentenze n. 6445/65; 6232/91;

6037/93; 13261/99), secondo cui sono mille le pattuizioni volte alla modifica di un regime fiscale.

Deve, inoltre, rilevarsi che la stessa difesa della controricorrente non ha allegato l’esistenza di concrete ragioni economiche, limitandosi a sostenere, sotto diversi profili, la liceità dell’operazione, pur se compiuta all’esclusivo fine di conseguire un risparmio d’imposta.

3.6. Trattandosi di situazione emergente dai fatti, così come ricostruiti dal giudice di merito senza alcuna contestazione delle parti, la nullità dei contratti può essere dichiarata d’ufficio – in via incidentale – anche nel giudizio di legittimità. Non può condividersi, infatti, l’assunto della controricorrente, secondo cui, per far dichiarare la nullità di un contratto, sia pure al fine di disconoscerne gli effetti fiscali, l’Amministrazione finanziaria dovrebbe instaurare apposito giudizio dinanzi al giudice civile.

Secondo una costante giurisprudenza della Corte (sentenze 29 aprile 2003, n. 6631; 23 maggio 2003, n. 8130; sul potere del giudice tributario di dichiarare incidentalmente la simulazione di un contratto, sentenza 5 agosto 2002, n. 11676) il potere diaccertamento incidentale del giudice tributario su questioni devolute ad altra giurisdizione (nella specie, quella di nullità di un contratto, attribuita al giudice ordinario), doveva essere esercitato anche prima dell’espressa previsione contenuta nell’art. 12, comma secondo, della legge 28 dicembre 2001, n. 448. Ciò in quanto tale norma deve essere considerata come meramente esplicativa di una regola generale esistente nell’ordinamento.

3.7. Il Collegio è consapevole del precedente costituito dalla sentenza della Sezione n, 3345 del 7 marzo 2002, secondo cui il potere, previsto dall’art. 1421 cod. civ., di declaratoria della nullità ex officio è limitato ai casi in cui sia l’attore a far valere il contratto come fonte del diritto azionato, laddove, nelcaso in cui la domanda sia diretta a far valere la nullità o l’annullabilità del negozio, il giudice non potrebbe rilevare ex officio una nullità, ovvero una nullità di tipo diverso dalla causa d’invalidità fatta valere. Secondo la citata sentenza, occorrerebbe ancora considerare che, nel processo tributario, l’impugnazione del contribuente instaura un rapporto processuale nel quale è l’Amministrazione finanziaria a rivestire il ruolo di attore, tanto è vero che ad essa incombe l’onere di provare i fatti costitutivi della propria pretesa. Pertanto, nel caso di specie, sarebbe l’amministrazione – attrice a far valere l’invalidità o inefficacia di un negozio, la cui piena validità ed efficacia, anche nei confronti del fisco, è sostenuta dal contribuente – convenuto. Con la conseguenza che il giudice non potrebbe dichiarare la nullità per ragioni diverse da quelle dedotte. A ciò si aggiunge che, in ogni caso, il carattere impugnatorio del processo tributario non consentel’esame di questioni non specificamente dedotte come vizi dell’atto impugnato.

Il Collegio non condivide tale impostazione. Per quanto attiene all’ultimo profilo, sembra che il richiamo alla struttura del processo tributario non sia pertinente in relazione alla cognizione in via incidentale su questioni devolute ad altra giurisdizione.

Inoltre, il potere del giudice – nei casi espressamente previsti dalla legge – di conoscere determinate questioni (quali la nullità di un negozio giuridico, ai sensi dell’art. 1421 cod. civ.) indipendentemente da una espressa domanda di parte non è escluso dal carattere impugnatorio del procedimento, come avviene nel giudizio di Cassazione o in quello amministrativo di legittimità.

Per quanto attiene al primo profilo, anche ove si volessero superare idubbi circa l’applicabilità dell’interpretazione dell’art. 1421 cod.civ. – enunciata dalla giurisprudenza in controversie insorte tra le parti del contratto – a casi in cui il dibattito sulla validità del negozio si svolge tra una parte contrattuale e un terzo, l’affermazione della giurisprudenza della Corte, secondo cui il processo tributario ha per oggetto un rapporto giuridico, non deve essere enfatizzata al punto di far dimenticare che esso resta sempre un processo di annullamento di un atto autoritativo che, se non rimosso, fissa in modo definitivo l’an e il quantum dell’obbligazione tributaria. Si tratta, come generalmente riconosciuto, di un classico esempio di azione costitutiva, il cui esercizio non comporta, per il ricorrente, l’assunzione della qualità di convenuto, anche se non si accoglie l’orientamento che ricollega l’esercizio dell’azionecostitutiva all’esistenza di un diritto potestativo sostanziale. La definizione del processo tributario come giudizio sul rapporto, sulla quale si fonda la regola sull’onere della prova dei fatti costitutivi e 1" attribuzione al giudice di poteri parzialmente satisfattori (quale la sostituzione di un’aliquota più favorevole di quella applicata nell’accertamento), estranei a un giudizio di annullamento classico, non può comportare una configurazione di tale giudizio secondo il modello dell’opposizione a decreto ingiuntivo (art. 645 cod. proc. civ.), nel quale si ha una trasformazione del rito speciale in rito ordinario di cognizione, che non costituisce un autonomo procedimento destinato a rimuovere il pregiudizio nascente dal procedimento d’ingiunzione.

Per quanto riguarda l’attribuzione dell’onere della prova dei fatticostitutivi della pretesa fiscale all’amministrazione, deve rilevarsi, inoltre, che tale regola ha una giustificazione storico – sistematica che prescinde dalla ricostruzione del giudizio come rapporto. Essa, infatti, è ritenuta applicabile in tutti i casi di giudizio d’impugnazione di atti autoritativi, per i quali i principi costituzionali non ammettono, in via generale, la c.d. presunzione di legittimità. Tale regola viene ritenuta applicabile nel processo tributario dalla giurisprudenza di questa Corte.

In definitiva, la regola sull’onere della prova non è conseguenza dell’assunzione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, della qualità di attore nel processo tributario, come del resto avviene per l’amministrazione resistente nel processo ammnistrativo di legittimità.

Per quanto attiene, in generale, al potere del giudice, anche di legittimità, di rilevare autonomamente una causa di nullità, talepotere è condizionato dall’esercizio di un’azione tendente a far valere una pretesa derivante dal contratto, senza che possa svolgere alcun rilievo il fatto che la controparte faccia valere una causa di nullità. Secondo una consolidata giurisprudenza della Corte, trattandosi, non di eccezione in senso stretto, ma di mera difesa, pur essendosi instaurato un dibattito sulla causa di nullità dedotta, il giudice può sempre rilevare, anche d’ufficio, ipotesi diverse di nullità. Il Collegio richiama le sentenze n. 498, 2644, 13628 del 2001; n. 10440 e 12482 del 2002; n. 2637 del 2003. 3.8. In conclusione, la richiamata regola, di formazione pretoria, sui limiti della rilevazione d’ufficio della nullità deve essere adattata ad una corretta individuazione della parte attrice, a prescindere dal fatto che nel rapporto devoluto alla cognizione del giudice tributario il soggetto passivo sia il contribuente. Infatti, potrebbero ipotizzarsi casi in cui sia quest’ultimo a far valere lavalidità di un contratto, non per chiedere la tutela del diritto da esso nascente, ma perchè sia affermata l’esistenza di un suo obbligo, ad esempio ai fini della ricostruzione dell’imponibile dell’imposta di successione.

Si deve, ancora, rilevare che, pur segnando l’atto impugnato i limiti esterni entro i quali può svolgersi un contenzioso, lo stesso atto non diviene oggetto del processo, che deve essere necessariamente introdotto con ricorso, e i cui causa petendi e petitum devono identificarsi, rispettivamente, nella domanda e nei motivi di ricorso (art. 18 del d.l.vo n. 546/92). A prescindere dal regime dell’onere della prova, quindi, anche il processo tributario è retto dal principio dell’onere dell’affermazione, che grava sul ricorrente.

Tanto è vero che il giudice non può, in difetto di specifica contestazione, verificare l’esistenza di fatti, pur quando si tratti di fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria.

Nella specie deve, quindi, ritenersi, che, a sostegno della domanda giudiziale di annullamento dell’atto impositivo, la ricorrente abbia dedotto gli effetti dei contratti di acquisto e di rivendita di azioni. Quindi, la validità di tali contratti e la loro opponibilità all’Amministrazione finanziaria costituivano oggetto dell’attività assertoria del ricorrente.

La mancanza di causa nei contratti da luogo a nullità, sulla base della stessa prospettazione delle parti, per cui resta superflua ogni indagine circa una simulazione oggettiva – assoluta o relativa, ovvero soggettiva, o circa l’applicabilità dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973 alla ed, interposizione reale.

Ne consegue che, non potendo riconoscersi il diritto della Banchi Maison alla percezione del dividendo, la stessa non può che aver svolto il ruolo di una semplice incaricata alla riscossione, con la conseguenza che il regime fiscale applicabile era quello proprio del fondo comune d’investimento, per cui non competeva alla stessa società il credito d’imposta, nè l’esposizione di minusvalenze.

Per dare una completa ricostruzione giuridica dell’operazione dal punto di vista fiscale deve, infine, osservarsi che correttamente è stata ritenuta dall’ufficio la sottoposizione dei dividendi in contestazione al regime fiscale dei fondi comuni d’investimento, avendo la stessa società, come sopra spiegato, svolto un ruolo fattuale di mero intermediario, con la conseguenza che doveva essere negato il credito d’imposta, attribuito dall’art. 14, primo comma, del D.P.R. n. 917/86, e il diritto ad esporre minusvalenze.

3.9. L’accoglimento del ricorso comporta la cassazione della sentenza. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto in quanto, come si è rilevato, la nullità dei contratti per difetto di causa emerge dalla stessa prospettazione delle parti, la Corte, nell’esercizio del potere di decisione nel merito ad essa attribuito dall’art. 384, primo comma, cod. proc. civ., rigetta il ricorso introduttivo della società. Stante la complessità delle questioni e l’esistenza di divergenti interpretazioni giurisprudenziali, la Corte ritiene di dover compensare le spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della società Banchi Maison s.p.a.; compensa le spese dell’intero giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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