Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 12-04-2012, n. 5756 Questioni di legittimità costituzionale Responsabilità amministrativa o contabile

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

1.- Con sentenza n. 144 del 13.4.2011 la terza sezione giurisdizionale d’appello della Corte dei conti ha rigettato i gravami avverso la sentenza della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il Lazio n. 414 del 2009 proposti da D.L. F., M.G., Mu.Pi.Ca., R. E.G., B.A., P.D. ed B. A..

Con tale decisione – emessa dopo che la Corte di cassazione (n. 5668/1997), adita in sede di regolamento dal P., aveva affermato la giurisdizione del giudice contabile in ordine alla domanda di risarcimento del danno all’immagine dello Stato proposta nei confronti del medesimo – il P. era stato condannato a tale titolo al pagamento di Euro 5.164.569,00 e gli altri convenuti, anche nei confronti dei quali erano state proposte analoghe domande, al pagamento delle seguenti somme: Euro 5.164.569,00 il D.L., Euro 2.582.284,50 il M., Euro 258.228,50 il Bo., Euro 516.456,90 il R., Euro 516.456,90 il Mu., Euro 2.582.284,50 il B., oltre agli accessori ed alle spese.

Le richieste di risarcimento traevano origine da sentenze penali definitive emesse per i reati di corruzione o concussione ascritti ai convenuti che, negli anni 1982-1992, nelle posizioni rispettivamente rivestite nell’ambito della pubblica amministrazione, avevano percepito somme da numerose case farmaceutiche, producendo un danno erariale derivato dalla ingiustificata lievitazione della complessiva spesa farmaceutica, determinata dalla violazione degli obblighi di servizio a ciascuno riferibili e da illecite interferenze nei procedimenti amministrativi di determinazione e revisione dei prezzi dei farmaci in sede CIP e della loro registrazione e/o classificazione nel prontuario terapeutico.

2.- Avverso la sentenza ricorrono autonomamente per cassazione, negando la giurisdizione della Corte dei conti, P.D. ed B.A., che articolano ognuno un unico motivo, D. L.F. e R.G. sulla base ciascuno di due motivi, Bo.An. con tre motivi, Mu.Pi.Ca. con quattro e M.G. affidandosi a cinque motivi di ricorso.

Resiste con controricorsi il Procuratore generale presso la Corte dei conti.

I ricorrenti hanno depositato memorie illustrative.

Motivi della decisione

1.- I ricorsi vanno riuniti in quanto proposti avverso la stessa sentenza.

Il ricorso di D.L.F. (r.q.n. 9592/2011).

2.- La giurisdizione della Corte dei conti è negata con due motivi.

2.1.- Col primo è denunciata la violazione per mancata applicazione dell’art. 68 Cost., comma 1 e della L. n. 140 del 2003, art. 3:

omettendo di trasmettere senza ritardo copia degli atti alla Camera dei deputati di cui il ricorrente faceva parte all’epoca dei fatti, la Corte dei conti aveva invaso la sfera riservata dal legislatore al Parlamento, incappando in eccesso di potere giurisdizionale.

Vi si sostiene che, per quanto possa essere astrattamente condivisibile l’affermazione della Corte dei conti che la garanzia non si estende alle funzioni di ministro o di sottosegretario, non dì meno la legge impone al giudice innanzi al quale l’applicabilità dell’art. 68 Cost., comma 1, sia eccepita, di rimettere gli atti alla Camera di appartenenza dell’eccipiente, alla quale è riconosciuto in via esclusiva il potere di valutare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’immunità parlamentare.

2.2.- A tanto il controcorrente Procuratore Generale presso la Corte dei Conti muove obiezioni così sintetizzabili.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 46 del 2008 ampiamente richiamata dal ricorrente, dopo aver affermato (al paragrafo 3 del "Considerato in diritto") che l’art. 68 Cost., nel testo originario ed in quello in parte mutato dalla L. cost. n. 3 del 1993, "esclude ogni forma di responsabilità giurìdica dei parlamentari per le opinioni espresse ed i voti dati nell’esercizio delle funzioni", ha chiarito che la L. n. 140 del 2003, art. 3 "non estende l’ambito applicativo della prerogativa dell’insindacabilità ad ipotesi di responsabilità diverse ed ulteriori rispetto a quelle previste dall’art. 68 Cost., comma 1" (come in quel giudizio erroneamente sostenuto dal rimettente, che per questo aveva posto la questione di costituzionalità). Deve dunque trattarsi dì opinioni espresse o di voti dati dal parlamentare (nell’esercizio delle funzioni).

Ora – in disparte il rilievo che il Parlamento aveva in precedenza autorizzato il giudice penale a proseguire il giudizio, valutando che i fatti materiali addebitati al D.L. non fossero coperti dalla garanzia di cui all’art. 68 Cost., comma 1 – la responsabilità amministrativa era nella specie correlata a fatti integranti i delitti di corruzione e concussione (commessi dal D.L. come membro del Governo), che sono ontologicamente diversi dall’espressione di un’opinione o di un voto, in quanto nel caso consistiti nella illecita percezione di denaro. Che poi, come afferma il ricorrente, tale denaro egli avesse ricevuto anche nella qualità di parlamentare per destinarlo al proprio partito politico è del tutto irrilevante, non essendo neppure dal medesimo sostenuto che sia stato anche soltanto prospettato che i fatti sui quali era fondata l’azione promossa dalla Corte dei conti fossero suscettibili di essere qualificati come "opinioni espresse o voti dati", solo in quanto tali oggetto del presidio di garanzia di cui all’art. 68 Cost., comma 1. E sarebbe stato necessario che lo fosse stato, giacchè la L. 20 giugno 2003, n. 140, art. 3, comma 4, laddove prevede che "se non ritiene di accogliere l’eccezione concernente l’applicabilità dell’art. 68 Cost., comma 1 " il giudice provvede senza ritardo a trasmettere gli atti alla Camera competente, riserva bensì al Parlamento la valutazione relativa all’applicabilità del presidio in parola, ma tanto nel presupposto che l’eccezione consenta di iscriverla nel possibile ambito applicativo dell’art. 68 Cost., comma 1: che consista cioè, non già nella semplice allegazione della qualità di parlamentare della parte e della sussistenza di una relazione di funzionalità tra la relativa attività ed i fatti di cui al procedimento pendente, ma quantomeno nella seria prospettazione che quel nesso funzionale concerna opinioni espresse e voti dati. Risulterebbe altrimenti inosservato il principio, espresso dalla Consulta con la sentenza sopra citata, che la L. n. 140 del 2003, art. 3 è finalizzato a rendere immediatamente e direttamente operativo sul piano processuale il disposto della norma costituzionale, ma non ad estenderne l’ambito applicativo, quale inequivocamente espresso dalla sua lettera e dalla sua ratio.

Al nesso funzionale tra "dichiarazioni rese" e funzione parlamentare svolta perchè possa operare la predetta prerogativa si riferiscono d’altronde, inequivocamente, anche Corte cost. n. 120/2004 (sub 3 del "Considerato in diritto", con dovizia di richiami anche della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo) nonchè, ex ceteris, Cass., sez. un., n. 4582/2006. 2.3.- La censura è inammissibile per la considerazione, di natura evidentemente assorbente, che la violazione dell’art. 68 Cost., non involge profili attinenti ai limiti esterni della giurisdizione, secondo quanto già affermato da queste Sezioni unite con sentenza n. 153 del 1999, cui s’è uniformata la giurisprudenza successiva.

La prerogativa dell’insindacabilità dei voti e delle opinioni dei parlamentari fissata nell’art. 68 della Costituzione (il cui secondo comma non attribuisce più alle Camere un potere autorizzativo condizionante l’esplicazione della funzione giurisdizionale) configura, sul piano sostanziale, una causa di esonero dalla responsabilità dell’autore delle dichiarazioni contestate, e correlativamente si traduce sul piano formale in una preclusione per l’autorità giudiziaria a superare la delibera parlamentare che riconosca l’attinenza delle dichiarazioni stesse all’esercizio della funzione, salva restando la sola possibilità di provocare, attraverso il conflitto fra poteri, il controllo della Corte Costituzionale sulla 11 correttezza" di detta delibera. Ciò sta a significare che non ci si trova di fronte ad una garanzia di natura esclusivamente processuale intesa come sottrazione assoluta alla giurisdizione, quanto invece e piuttosto ad una causa personale di esclusione della responsabilità, il cui accertamento non concerne pertanto una questione di ripartizione della giurisdizione fra giudici di diversi ordini o di individuazione dei confini della medesima in relazione all’esercizio di potestà amministrative, ma una questione di limiti interni della giurisdizione ordinaria.

In termini analoghi s’era già espressa la Corte costituzionale con sentenza n. 265/1997, escludendo che l’autorità giudiziaria, di fronte ad una questione di sindacabilità dell’opinione espressa da un parlamentare, sia carente di giurisdizione in mancanza di una previa deliberazione della Camera di appartenenza del parlamentare in ordine alla valutazione se la fattispecie concreta rientri o meno nell’ipotesi di cui all’art. 68 Cost.. Una tale prospettazione – si osservò in quell’occasione – condurrebbe infatti a ricostruire impropriamente il sistema nei termini di una sorta di "pregiudizialità parlamentare" che si imporrebbe in tutti i giudizi in cui si controverta di ipotetiche responsabilità di un membro delle Camere suscettibili di essere ricondotte ad una sua manifestazione di opinione, collegabile all’esplicazione de mandato;

e in definitiva a configurare nuovamente una specie di "autorizzazione a procedere" della Camera di appartenenza, in assenza della quale non potrebbe essere esercitata la funzione giurisdizionale.

Più recentemente s’è ribadito che le norme processuali di cui alla L. n. 140 del 2003, art. 3 non reintroducono ipotesi di autorizzazione a procedere, ma delimitano entro brevi termini perentori l’esercizio delle diverse prerogative e dei differenziati poteri da parte dei diretti interessati, del giudice e della Camera di appartenenza (così Corte Cost. n. 46/2008; e vedi anche Corte Cost. n. 149/2007).

All’interessato è del resto data la possibilità di sottoporre la questione dell’applicabilità dell’art. 68 Cost., comma 1, direttamente alla Camera di appartenenza (L. n. 140 del 2003, art. 3, comma 7), la cui deliberazione favorevole, secondo quanto stabilito dall’ottavo comma dello stesso art. 3, vincola il giudice all’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, sicchè il rispetto della prerogativa parlamentare è comunque garantito dal sistema, che rimette infine alla Corte costituzionale la soluzione dell’eventuale conflitto tra poteri dello Stato.

Deve conclusivamente affermarsi che il principio di recente enunciato da queste Sezioni unite con sentenza n. 16165 del 2011 – nel senso che, in tema di sindacabilità del difetto di giurisdizione delle sentenze della Corte dei Conti, è inammissibile il ricorso che si fondi su vizi processuali relativi a violazioni dei principi costituzionali del giusto processo, quali quelli che ledono il contraddittorio tra le parti o la loro parità di fronte al giudice o l’esercizio del diritto di difesa, trattandosi di violazioni endoprocessuali rilevabili in ogni tipo di giudizio, al pari di tutti gli altri errores in procedendo e non inerenti all’essenza della giurisdizione o allo sconfinamento dei limiti esterni di essa ma solo al modo in cui è stata esercitata – trova applicazione anche nel caso in cui si assuma la violazione delle disposizioni dettate dalla L. n. 140 del 2003, art. 3, in tema di attività connesse alla funzione dì parlamentare.

3.- Col secondo motivo la violazione dei limiti esterni della giurisdizione contabile e l’invasione da parte della Corte dei conti della sfera riservata al giudice ordinario è denunciata in relazione all’erronea applicazione della L. n. 20 del 1994, art. 1, comma 4, come autenticamente interpretato dalla L. n. 639 del 1996.

Si afferma che, poichè solo per i fatti successivi all’entrata in vigore della legge stessa la Corte dei conti è investita della potestas iudicandi anche in ordine al danno cagionato ad amministrazioni ed enti pubblici diversi da quelli di appartenenza, D.L.F. non avrebbe potuto essere chiamato a risarcire il danno prodotto non al Ministero della sanità, presso il quale svolgeva le funzioni di ministro, ma alle Regioni, competenti in materia di spesa farmaceutica, o al Ministero del tesoro, nel cui bilancio è iscritto il Fondo sanitario nazionale.

Nè l’obiezione sarebbe superabile con la semplicistica identificazione -operata dalla Corte dei conti – del soggetto danneggiato come "lo Stato inteso come intera collettività nazionale", giacchè la condizione di assoluta indeterminatezza del soggetto creditore mai potrebbe conciliarsi coi principi generali in materia di obbligazioni, per i quali il rapporto obbligatorio si instaura solo tra soggetti determinati o, quantomeno, determinabili.

3.1.- Il controricorrente Procuratore Generale presso la Corte dei Conti ha osservato che il concetto di "amministrazione distinta da quella di appartenenza" trova cittadinanza, ai fini della giurisdizione, quando il distinto rilievo soggettivo di un ente e la sua autonomia finanziaria, operativa e gestionale, escludano che la struttura organizzativa dell’ente stesso e il suo patrimonio possano essere considerati parte integrante dell’amministrazione di appartenenza (in termini, Cass. sez. un., sent. 12/11/2003, n. 17078). Ha dunque affermato che la distinzione è ravvisabile solo nella situazione connotata dalla presenza di due enti aventi autonoma personalità giuridica: circostanza che consente concettualmente di prefigurare una amministrazione diversa da quella di appartenenza. E ha concluso nel senso che nel caso dello Stato tale evenienza non è configurabile, neppure astrattamente, tenuto conto che il medesimo si pone quale unica realtà soggettiva, ancorchè suddivisa per materia in diverse articolazioni.

3.2.- La censura è infondata.

Il ricorrente D.L. è stato chiamato a rispondere, nella qualità di sottosegretario prima ed in quella di ministro poi, per il danno all’immagine arrecato alla pubblica amministrazione in relazione agli illeciti, accertati in sede penale, che avevano determinato un’ingiustificata lievitazione della complessiva spesa farmaceutica.

Non rileva dunque l’individuazione dei soggetti pubblici direttamente incisi dal danno propriamente patrimoniale (le regioni, cui fanno carico le spese farmaceutiche), ma quella del soggetto che abbia subito il pregiudizio consistito nella perdita di prestigio e di detrimento dell’immagine come conseguenza della minore fiducia ingenerata nella pubblica opinione dall’operato di soggetti pubblici (cfr,, ex multis, Cass., nn. 14832/2011, 4582/2006, 612/1999): e tale ente è senz’altro lo Sato, per essere il danno derivato dalla condotta di un esponente del Governo in quanto tale (che ha tratto profitto da atti comportanti un aumento della spesa pubblica in un settore dagli aspetti sociali rilevantissimi e costantemente gravato da pesanti deficit, non di rado produttivi di disfunzioni e pregiudizi al primario bene della salute).

Ora, che un Ministro o un Sottosegretario siano in rapporto di servizio con lo Stato non è revocabile in dubbio (Cass., sez. un., n. 1170/2000). Ed è del tutto irrilevante che il danno patrimoniale sia stato arrecato all’una o all’altra branca della pubblica amministrazione statale, giacchè quello all’immagine comunque concerne l’unica entità soggettiva costituita dallo Stato-persona.

Il ricorso di M.G. (r.q.n. 10756/2011).

4.- La giurisdizione della Corte dei conti è negata con cinque motivi di ricorso.

4.1.- Col primo, per difetto della qualità di pubblico amministratore o di pubblico dipendente in capo al M., che per circa tre anni aveva svolto le funzioni di segretario particolare dell’allora Ministro della sanità D.L., con funzioni che il R.D.L. 10 luglio 1924, n. 1100, art. 5, individua puntualmente laddove recita che "i gabinetti e le segreterie particolari attendono alla corrispondenza privata, collaborano all’opera personale del Ministro, ma non possono intralciare l’azione normale degli Uffici amministrativi nè sostituirsi ad essi". In altro caso, inoltre, la Corte d’appello di Roma aveva escluso la qualifica di pubblico ufficiale del segretario di un ministro con sentenza confermata dalla Corte di Cassazione in sede penale.

Inoltre, il D.L. n. 78 del 2009, art. 17, comma 30 ter, come interpretato dalla Corte Cost. con sentenza n. 355 del 2010, va inteso nel senso che l’azione risarcitoria per danno all’immagine è ammessa solo in presenza di un reato ascrivibile alla categoria dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.

4.2.- Col secondo motivo, si sostiene che l’art. 17 sopra citato limita esplicitamente l’azione per danno all’immagine al caso del pubblico dipendente condannato con sentenza penale irrevocabile, mentre nei confronti del M. (che aveva talora incassato somme destinate al ministro senza nulla trattenere per sè) era stata pronunciata, in data 31.10.1995, sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p..

Con sentenza 10 luglio 2002, n. 394 la Corte costituzionale aveva chiarito che per i patteggiamenti anteriori al 2001 non trovano applicazione le disposizioni della L. n. 97 del 2001. 4.3.- Col terzo motivo il difetto assoluto di giurisdizione è subordinatamente prospettato in riferimento all’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea (nel testo in vigore dall’1.12.2009) e dell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ("se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima"), dal quale deriverebbe il dovere di disapplicazione del D.L. n. 78 del 2009, art. 17, comma 30 ter, e successive modificazioni in base al principio generale della retroattività della lex mitior, col quale confliggerebbe la disposizione in questione nella parte in cui limita l’applicazione della norma di favore ai casi in cui sia stata emanata sentenza non definitiva.

La Corte di cassazione è infine richiesta di interpello pregiudiziale della Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 del Trattato, ove ritenesse di non procedere direttamente alla disapplicazione della disposizione.

4.4.- Col quarto motivo è gradatamente prospettata l’illegittimità costituzionale del più volte citato D.L. n. 78 del 2009, art. 17, comma 30 ter, nella parte in cui dispone che gli atti posti in essere in violazione delle disposizioni del medesimo comma sono nulli "salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto", ponendo una limitazione priva di ragionevolezza, (per contrasto con l’art. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16.12.1966 e ratificato con L. n. 881 del 1977, art. 17, comma 30 ter), in riferimento all’art. 3 Cost. e art. 117 Cost., comma 1. 4.5.- Col quinto motivo, in via ancora più gradata, è da ultimo prospettata questione di legittimità costituzionale della L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 4, in combinato disposto con il R.D.L. n. 1100 del 1924, art. 5, "così come interpretato dal diritto vivente", in riferimento all’art. 28 Cost. e art. 103 Cost., comma 2.

Tanto, nell’ipotesi in cui la Corte di cassazione non intenda escludere che un segretario particolare di un ministro instauri una relazione funzionale (integrante un rapporto di servizio) con la pubblica amministrazione.

5.- I motivi possono essere congiuntamente esaminati per la connessione tra le questioni poste.

La circostanza che l’attività del segretario particolare di un ministro sia normativamente delimitata alla collaborazione all’opera personale del ministro stesso, col divieto di intralciare l’azione normale degli uffici amministrativi o di sostituirsi ad essi, non esclude affatto che tra il segretario e la pubblica amministrazione si instauri un rapporto di servizio, volta che l’opera personale del ministro è, appunto, quella svolta dal medesimo quale membro del Governo posto a vertice del ramo della pubblica amministrazione che fa capo al relativo dicastero, sicchè il suo segretario particolare è comunque inserito nell’apparato organico dell’ente pubblico ed esercita un’attività di collaborazione funzionalmente collegata alla realizzazione dei fini propri della pubblica amministrazione. Nè tanto contrasta in alcun modo con i principi costituzionali richiamati con l’ultimo motivo.

Il D.L. n. 78 del 2009, art. 17, comma 30 ter (come successivamente modificato), nel porre limiti all’azione di risarcimento per danno all’immagine esercitabile dalle procure della Corte dei Conti (possibile nei soli casi e modi previsti dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 7) e nel sancire la nullità di qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni "di cui al presente comma", fa salvo il caso che sia stata "già pronunciata sentenza anche non definitiva" alla data di entrata in vigore della legge di conversione (n.d.e.: 3.10.2009, n. 141) del decreto legge (n. 103 del 2009).

E’ appunto questo il caso, giacchè la sentenza di primo grado fu pubblicata il 20.3.2009.

Il richiamo alla sentenza della Corte Costituzionale n. 394 del 2002 non è pertinente, in quanto con la predetta sentenza fu dichiarata l’illegittimità costituzionale della L. n. 97 del 2001, art. 10, comma 1, nella parte in cui dispone(va) l’applicabilità degli artt. 1 e 2 della stessa legge (concernenti gli effetti della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti nel giudizio disciplinare) ai patteggiamenti perfezionatisi anteriormente alla sua entrata in vigore.

Manifestamente infondate sono le ulteriori questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 30 ter, del D.L. più volte citato laddove viene esclusa l’applicabilità della disposizione più favorevole nei cast in cui – come quello in esame – sia stata già pronunciata sentenza non definitiva.

Va detto, per un verso, che l’art, 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea C83/389 il 30.3.2010) disciplina inequivocamente il giudizio penale, com’è reso evidente dall’esplicito riferimento al reato ed alla pena; per altro verso che, al di fuori dell’ambito penale, non è dato rinvenire, in caso di successione delle leggi nel tempo, un vincolo costituzionale nel senso dell’applicazione della legge posteriore più favorevole, rientrando nella discrezionalità del legislatore, nel rispetto del limite di ragionevolezza, modulare le proprie scelte secondo criteri di maggiore o minore rigore.

E la disposizione in esame (nell’escludere, quante volte sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva, la nullità degli atti processuali relativi alle azioni di risarcimento del danno all’immagine iniziate al di fuori dei casi e dei modi previsti dalla L. n. 97 del 2001, art. 7) ha limitato l’effetto retroattivo della lex mitior ancorandolo, con scelta discrezionale del legislatore non tacciabile di irragionevolezza in relazione alla forte portata innovativa della norma in una materia di estrema delicatezza quale la responsabilità erariale, al dato obiettivo costituito da un intervenuta pronuncia.

Il ricorso di Mu.Pi.Ca. (r.g.n. 10756/2011).

6.- La giurisdizione della Corte dei conti è negata con quattro motivi.

6.1.- Col primo, denunziando violazione dei criteri di attribuzione della giurisdizione alla Corte dei conti in materia di danno all’immagine e dell’art. 103 Cost., il ricorrente si duole che il giudice contabile abbia ritenuto che alla sentenza penale ex art. 444 c.p.p. non possa disconoscersi l’attitudine a definire il processo, così illegittimamente equiparandola ad una sentenza irrevocabile di condanna quanto all’accertamento del fatto (art. 651 c.p.). Al D.L. n. 78 del 2009, art. 17, comma 30 ter, convertito in L. n. 102 del 2009, che prevede che il P.M. contabile possa esercitare l’azione per i risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dalla L. n. 97 del 2001, art. 7 (che contempla il presupposto della sentenza penale irrevocabile di condanna e che è stato ritenuto costituzionalmente legittimo dalla Corte costituzionale con sentenza n. 355/2010) dovrebbe dunque riconoscersi, in sede ermeneutica, la valenza di un avvaloramento dell’esclusione del patteggiamento tra le ipotesi legittimanti l’esercizio dell’azione per responsabilità amministrativa.

6.2.- Col secondo motivo, è subordinatamente prospettata la giurisdizione dei giudice ordinario per l’ipotesi in cui la Corte di cassazione non condividesse le osservazioni svolte dalla Consulta con sentenza n. 355/ 2010. 6.3.- Col terzo gradatamente si nega, in relazione alla L. n. 20 del 1994, art. 1, che il ricorrente, quale "componente del C.I.P. Farmaci" nominato dal Ministro dell’industria, fosse soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti, giacchè i fatti furono commessi anteriormente all’estensione della stessa al caso di danni cagionati ad amministrazioni o enti diversi da quelli di appartenenza.

6.4.- Col quarto motivo, in via ulteriormente subordinata, si sostiene che presupposto dell’attribuzione della giurisdizione alla Corte dei conti è il dolo o la colpa grave dei soggetti che vi sono sottoposti e che, nella specie, essi non potevano dirsi accertati sulla base di una pronuncia di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p., sicchè risulterebbero violati gli artt. 24, 103 Cost., art. 111 Cost., comma 1, della L. n. 20 del 1994, art. 1 e del R.D. n. 1038 del 1933, art. 26. 7.- Tutti i motivi sono infondati.

7.1.- Il primo per l’assorbente ragione che – secondo quanto riconosciuto dallo stesso ricorrente – la fattispecie in esame si colloca in un momento anteriore all’entrata in vigore delle disposizioni limitative della giurisdizione della Corte dei conti.

L’assunto che le nuove disposizioni possano trovare diretta applicazione o quantomeno rappresentare un momento essenziale ai fini interpretativi di quelle precedenti si infrange contro la (già rilevata) portata fortemente innovativa delle nuove disposizioni.

A fronte della chiara lettera della norma è infatti da escludere che possa esserne ampliato l’ambito applicativo in via ermeneutica, fino a ricomprendervi ipotesi chiaramente escluse dal legislatore.

7.2.- Il secondo motivo è infondato poichè va pienamente condivisa la conclusione della Corte Costituzionale (di cui alla sentenza n. 355/2010) secondo la quale, per il danno all’immagine di cui al più volte citato art. 17, comma 30 ter, sono escluse forme di concorrenza di altre giurisdizioni in relazione a fattispecie identiche o diverse da quelle contemplate dalla norma stessa.

7.3.- Il terzo motivo è infondato in quanto il componente del C.I.P. Farmaci, nominato dal Ministro, esercita un’attività riconducibile al potere funzionalmente attribuito all’amministrazione statale, sicchè senz’altro sussiste il suo rapporto di servizio con lo Stato.

7.4.- Anche il quarto motivo è infondato.

La Corte dei conti ha in sostanza ritenuto (pag. 89 della sentenza) che, dopo la novella legislativa introdotta dalla L. n. 97 del 2001, la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., pur non determinando un accertamento insuperabile di responsabilità nei giudizi civili ed amministrativi, costituisce non di meno indiscutibile elemento di prova per il giudice del merito e, seppur priva di qualsiasi efficacia automatica in ordine ai fatti accertati, implica tuttavia l’insussistenza di elementi atti a legittimare l’assoluzione dell’imputato e, quindi, ben può essere valutata dal giudice contabile al pari degli altri elementi di giudizio.

Al di là della correttezza di tali considerazioni va rilevato che, una volta escluso – come già s’è più sopra osservato – che il D.L. n. 78 del 2009, art. 17, comma 30 ter, possa trovare applicazione nei casi in cui, come nella specie, alla data di entrata in vigore della legge di conversione fosse stata pronunciata sentenza anche non definitiva dallo stesso giudice contabile, la contestazione relativa alle ragioni per le quali la Corte dei conti ha ritenuto provata la responsabilità amministrativa attengono ai limiti interni e non esterni della giurisdizione, concernendo le modalità del suo esercizio e non anche la sussistenza del potere del giudice contabile di pronunciarsi.

Il ricorso di R.G. (r.g.n. 10756/2011).

8.- Vi sono svolti due motivi.

8.1- Col primo- deducendosi violazione della L. n. 20 del 1994, art. 1, comma 4, come autenticamente interpretato dal D.L. n. 543 del 1996, art. 3, convertito in L. n. 639 del 1996, e del R.D. n. 1214 del 1934, art. 53 – anzitutto si nega che fosse configurabile un rapporto di servizio nei confronti di un professore universitario di ruolo (dipendente del Ministero dell’università) nominato, quale esperto in ambito infettivo ed immunologico, come componente delle commissioni "Prezzario materia prima" e "Prezzo farmaci", non contemplate da alcuna disposizione di legge e chiamate ad esprimere una mero parere consultivo al CIP, unico organismo abilitato a deliberare sul prezzo dei farmaci (ex L. n. 67 del 1988), fissato poi dal Ministero dell’industria.

Si sostiene che l’interpretazione effettuata dalla Corte dei conti nel senso che il rapporto di servizio va riguardato nei confronti dello Stato inteso in senso unitario e non nei confronti dell’amministrazione di appartenenza finisce con lo svuotare di contenuto la portata ed il significato sia del R.D. n. 1214 del 1934, art. 52 che, per i fatti anteriori alla legge del 1994, non contempla la giurisdizione della Corte dei conti per danni cagionati ad amministrazioni diverse da quella di appartenenza, sia della L. n. 20 del 1994 che si riferisce proprio alle singole, articolate amministrazioni dello Stato, e non già allo Stato comunità, o allo Stato collettività, o allo Stato unitariamente inteso.

La riparazione dell’immagine dello Stato unitariamente inteso si collega invece, essa si, all’interesse della collettività, e può essere fatta valere nel processo penale, mediante costituzione di parte civile (ovvero nei processo a civile) dal Presidente del Consiglio dei ministri che rappresenta la sintesi politica e di governo dello Stato comunità e l’unità delle amministrazioni.

L’immagine per la quale è data la giurisdizione della Corte dei conti concerne invece il discredito che abbia subito la singola p.a. presso la collettività, ma non il discredito di quest’ultima, come mostra di ritenere la Corte dei conti.

8.2.- Il motivo è infondato per l’assorbente ragione che il ricorrente, come componente delle commissioni di cui faceva parte, aveva comunque instaurato un rapporto di servizio anche con la specifica amministrazione dello Stato cui erano offerti i pareri consultivi, essendo sufficiente a configurare quel rapporto anche la relazione funzionale caratterizzata dall’inserimento del soggetto nell’iter procedimentale o nell’apparato organico dell’ente, tale da rendere il primo compartecipe dell’attività amministrativa del secondo.

9.- Col secondo motivo di ricorso, per l’ipotesi di non accoglimento del primo, è subordinatamente prospettata questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 78 del 2009, art. 17, comma 30 ter, in riferimento agli artt. 3, 24, 27 Cost. e art. 111 Cost., nella parte in cui esclude la nullità del procedimento dinanzi alla Corte dei conti per essere stata emessa sentenza non definitiva, in relazione alla mera occasionalità della circostanza.

9.1.- La questione è manifestamente infondata.

Della portata fortemente innovativa della disposizione s’è già detto. In realtà, la deroga ai principi generali sulla successione delle leggi nel tempo è se mai ravvisabile in relazione alla previsione che sono affetti da nullità gli atti istruttori e processuali posti in essere "in violazione" delle disposizioni di cui allo stesso comma contestualmente introdotto ("Le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e modi previsti dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 7"), volta che il principio tempus regit actum avrebbe altrimenti fatto salvi gli effetti degli atti precedentemente compiuti in osservanza delle previgenti disposizioni, invece colpiti anch’essi da nullità.

L’esclusione dell’effetto retroattivo in ordine alla nullità degli atti antecedenti nel caso "che sia stata già pronunciata sentenza non definitiva, non costituisce dunque una deroga in danno di chi fosse stato anche non definitivamente condannato, ma una limitazione della retroattività della norma processuale, che riconduce il caso alla regola generale. Tanto in base ad una scelta discrezionale de legislatore non irragionevole in relazione alla obiettiva diversità della situazione e non preclusa da alcuna disposizione costituzionale, vertendosi in un campo estraneo a quello penale.

Il ricorso di B.A. fr.q.n. 10756/2011).

10.- Il ricorrente, presidente della Commissione Prezzi Farmaci del CIP sino al febbraio 1993, articola un unico motivo, col quale denuncia violazione dei criteri di riparto della giurisdizione della Corte dei conti in materia di danno non patrimoniale all’immagine, posti dall’art. 103 Cost. e dalla L. n. 20 del 1994, art. 1.

Sostiene che con la sentenza impugnata la Corte dei conti ha frainteso il senso della decisione delle Sezioni unite n. 5668 del 1997, sul regolamento preventivo di giurisdizione richiesto da P.D.. Con tale sentenza era stata bensì riconosciuta la giurisdizione della Corte dei conti anche per i danni all’immagine dello Stato, ma ciò limitatamente ai danni erariali in relazione alle spese necessarie per ripristinare il bene giuridico leso, "dovendosi, invece, per gli aspetti inerenti ai profili puramente non patrimoniali del c.d. danno all’immagine, ritenere confermata l’ordinaria sussistenza della giurisdizione civile" (così il ricorso, a pagina 6).

10.1.- La censura è infondata.

A parte l’insussistente fraintendimento cui i ricorrente fa cenno (con la citata sentenza n. 5668/1997 non è stata punto affermata la giurisdizione del giudice ordinario per un preteso, distinto aspetto del danno all’immagine dello Stato), egli sostanzialmente assume che il risarcimento del danno all’immagine in sè, in quanto lesivo di interessi inerenti alla persona giuridica non connotati da rilevanza economica, rientrerebbe invece nella giurisdizione ordinaria, con la conseguenza che, essendosi la Corte dei conti pronunciata unicamente sulla sussistenza di un danno all’immagine a carattere non patrimoniale, avrebbe travalicato i limiti esterni della giurisdizione.

Con sentenza n. 355 del 2010 la Corte costituzionale – nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale del D.L. n. 78 del 2009, art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, sollevate da numerose sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 54, 77, 81, 97, 103 Cost. e art. 113 Cost. – ha chiarito, in linea con quanto affermato dalla Cassazione con la stessa sentenza n. 26792 del 2008, che, per quanto attiene specificamente alla responsabilità per violazione dell’immagine dell’ente pubblico, "il relativo danno, in ragione della natura della situazione giuridica lesa, ha valenza non patrimoniale e trova la sua fonte di disciplina nell’art. 2059 cod. civ.. D’altra parte, i riferimento, contenuto nella giurisprudenza della Corte dei conti, alla patrimonialità del danno stesso, in ragione della spesa necessaria per il ripristino dell’immagine dell’ente pubblico, deve essere inteso come attinente alla quantificazione monetaria del pregiudizio subito e non alla individuazione della natura giuridica di esso" (paragrafo 13 della motivazione).

La stessa sentenza ha inoltre radicalmente escluso – con affermazione che queste Sezioni unite pienamente condividono – che, per il danno all’immagine della pubblica amministrazione, il legislatore "abbia inteso prevedere una limitazione della giurisdizione contabile a favore di altra giurisdizione" (paragrafo 5.2. della motivazione).

Il ricorso di P.D. fr.q.n. 10756/2010).

11.- Anche qui, con l’unico motivo del ricorso, sono denunciate "violazione dei criteri di riparto della giurisdizione della Corte dei conti in materia di danno non patrimoniale all’immagine;

violazione dell’art. 103 Cost., nonchè della L. n. 20 del 1994, art. 1".

Vengono diffusamente svolti, con ricchezza di citazioni giurisprudenziali (è citata, in aggiunta alle sentenze già menzionate, anche Cass., sez. un., n. 98/2000), argomenti analoghi a quelli di cui al ricorso B., in più rappresentandosi che le stesse sezioni riunite della Corte dei conti, con sentenza n. 16 del 1999 hanno riconosciuto, in relazione al danno da perdita di prestigio e di immagine dello Stato, che "se è indubbio che il bene leso ha natura immateriale, il risarcimento del danno erariale rientrante nella cognizione della Corte dei conti conserva la sua natura patrimoniale".

Con la sentenza impugnata la Corte dei conti ha invece ritenuto di liquidare il danno non patrimoniale, inteso come vulnus in sè all’immagine ed alla moralità della p.a., inequivocamente riconducendolo all’art. 2059 c.c. ed all’art. 97 Cost.. Così tra l’altro discostandosi proprio dalla sentenza n. 5667/1997 resa inter partes, che devolveva al giudice contabile solo la delibazione in ordine al danno patrimoniale sotto il profilo delle spese necessarie al ripristino del bene giuridico leso.

Difetta d’altronde nell’ordinamento una disposizione che affidi alla Corte dei conti la giurisdizione in materia di danno non patrimoniale subito dalla pubblica amministrazione, in ordine al risarcimento del quale la giurisdizione compete invece al giudice ordinario.

11.1.- La censura è infondata per le stesse ragioni esposte sopra (sub 10.1.).

Va solo soggiunto, con specifico riguardo alle argomentazione sviluppate in ricorso, che ogni problema relativo alla determinazione del danno all’immagine della pubblica amministrazione concerne le modalità di esercizio della giurisdizione e non i suoi limiti esterni; che, inoltre, è del tutto in linea col sistema che la responsabilità amministrativa presenti, rispetto alle altre forme di responsabilità previste dall’ordinamento, una particolare connotazione derivante dalla accentuazione dei profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori; che, ancora, il particolare atteggiarsi del danno non patrimoniale dell’ente pubblico "deve necessariamente tenere conto della peculiarità del soggetto tutelato e della conseguente diversità dell’oggetto di tutela, rappresentato dall’esigenza di assicurare il prestigio, la credibilità ed il corretto funzionamento degli uffici della pubblica amministrazione" (così, Corte cost., nn. 355/2010).

Il ricorso di Bo.An. (r.a.n. 17510/2011).

12.- Vi sono articolati tre motivi.

12.1.- Col primo motivo il ricorrente – componente all’epoca dei fatti della Commissione materie prime e membro del CIP Farmaci – denunzia violazione dei criteri di attribuzione della giurisdizione della Corte dei conti in materia di danno all’immagine, del D.L. n. 78 del 2009, come modificato dal D.L. n. 103 del 2009, convertito in legge con L. n. 141 del 2009, violazione dell’art. 103 Cost..

E’ prospettato il difetto assoluto di giurisdizione del giudice contabile alla (affermata) stregua dei principi enunciati dalla Consulta con sentenza n. 355/2010, per avere il Bo. patteggiato la pena ex art. 444 c.p.p.. Si sostiene che la sentenza emessa ai sensi della citata disposizione non è equiparabile a quella irrevocabile di condanna (alla quale soltanto la L. n. 97 del 2001, art. 7, conferisce rilievo) e che il D.L. n. 78 del 2009, art. 17, comma 30 ter, non può non avere effetto quantomeno ai fini dell’interpretazione della normativa previgente.

Gli ulteriori argomenti svolti sono analoghi a quelli sviluppati col primo motivo del ricorso Mu..

12.2.- Col secondo motivo vengono prospettati gli stessi vizi di cui all’omologo motivo del ricorso Mu..

12.3.- Col terzo motivo, la violazione dei criteri di attribuzione della giurisdizione in materia di danno all’immagine è prospettata in relazione all’art. 103 Cost. ed alla L. n. 20 del 1994, art. 1, dei quali si assume la violazione per non essere il Bo.

(professore universitario ordinario dell’Università La Sapienza di Roma) dipendente dell’amministrazione che aveva subito il supposto danno per fatti anteriori all’entrata in vigore della legge che contemplava anche il danno arrecato ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza.

Si pone anche in rilievo che nel fascicolo di primo grado era presente certificazione attestante che l’Università non aveva mai proposto, nè designato, nè autorizzato il prof. Bo. a far parte del CIP Farmaci; che di tale Commissione egli era stato componente su designazione del Ministro dell’industria, senza mai assumere alcuna decisione rilevante; e che, nella specie, anche l’evento dannoso era anteriore all’entrata in vigore della L. n. 20 del 1994, sicchè non poteva dirsi un collegamento diretto e funzionale fra il suo operato e le amministrazioni coinvolte.

12.4.- Tutti i motivi sono infondati per le ragioni già esposte (in particolare ai paragrafi 7.1, 7.2, 8,2).

Conclusioni.

13.- I ricorsi riuniti vanno conclusivamente respinti.

Non sussistono i presupposi per provvedere sulle spese.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE A SEZIONI UNITE riunisce i ricorsi e li rigetta.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 6 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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