Cass. civ. Sez. VI, Sent., 13-04-2012, n. 5923 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

che S.R., con ricorso del 18 maggio 2011, ha impugnato per cassazione – deducendo un unico motivo di censura -, nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro dell’economia e delle finanze, il decreto della Corte d’Appello di Roma depositato in data 22 giugno 2010, con il quale la Corte d’appello, pronunciando sul ricorso del S. – volto ad ottenere l’equa riparazione dei danni non patrimoniali ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 1 -, in contraddittorio con il Presidente del Consiglio dei Ministri – il quale, costituitosi nel giudizio, ha concluso per l’inammissibilità o l’infondatezza del ricorso -, ha rigettato il ricorso;

che resiste, con controricorso, il Ministro dell’economia e delle finanze;

che, in particolare, la domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale – richiesto nella misura di Euro 48.000,00 per l’irragionevole durata del processo presupposto – proposta con ricorso del 19 giugno 2007, era fondata sui seguenti fatti: a) il S. aveva promosso dinanzi alla Corte dei conti – con ricorso del 1 luglio 1961 – giudizio per il riconoscimento del diritto alla pensione privilegiata; b) la Corte adita aveva deciso la causa con sentenza del 27 settembre 2006;

che la Corte d’Appello di Roma, con il suddetto decreto impugnato, ha respinto la domanda, in quanto il S. – rimasto inerte per circa quaranta anni – ha depositato istanza di fissazione dell’udienza di discussione, ai sensi della L. n. 205 del 2000, art. 9, comma 2, soltanto in data 26 giugno 2005, a seguito della relativa comunicazione della Corte dei conti del 10 maggio 2005, mostrando in tal modo, con detta inerzia, il suo completo disinteresse per la causa e così la totale insussistenza di patimento o sofferenza per l’irragionevole durata del processo presupposto.

Motivi della decisione

che, con il motivo di censura, viene denunciata come illegittima l’applicazione dell’istituto dell’istanza di fissazione dell’udienza di discussione, nel senso che l’omessa presentazione di tale istanza prima della comunicazione di cui alla L. n. 205 del 2000, art. 9, comma 2, comporta l’insussistenza dei presupposti per ottenere il diritto all’indennizzo;

che, preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto e notificato al Presidente del Consiglio dei Ministri, in quanto il giudizio di merito, introdotto con ricorso depositato il 19 giugno 2007 e definito con il decreto depositato il 22 giugno 2010, si è svolto legittimamente nel contraddittorio con il Ministro dell’Economia e delle finanze, posto che nei giudizi di equa riparazione per violazione del termine ragionevole, la L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 1224, che ha modificato la L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 3 attribuendo al Ministro dell’economia e delle finanze la legittimazione residuale spettante in precedenza alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, si applica appunto ai giudizi nella fase di merito introdotti successivamente all’entrata in vigore di detta modifica (stessa L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 1225), come nella specie, e non a quelli iniziati prima (cfr., ex plurimis, l’ordinanza n. 21352 del 2009);

che la circostanza che il ricorso introduttivo del presente giudizio sia stato proposto a non molta distanza dall’entrata in vigore della predetta modifica legislativa giustifica l’integrale compensazione delle spese del presente grado del giudizio;

che il ricorso proposto nei confronti del Ministro dell’economia e delle finanze merita accoglimento, nei limiti di seguito precisati;

che questa Corte ha già più volte affermato il principio secondo cui, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che una tale decorrenza del termine ragionevole di durata della causa possa subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza di prelievo od alla ritardata presentazione di essa, secondo cui l’innovazione, introdotta dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54, comma 2, convertito in legge con modificazioni dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, art. 1, comma 1 (per il quale la domanda non è proponibile se nel giudizio davanti al giudice amministrativo, in cui si assume essersi verificata la violazione, non sia stata presentata l’istanza di prelievo ai sensi del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 51), non può incidere sugli atti anteriormente compiuti, i cui effetti, in mancanza di una disciplina transitoria o di esplicite previsioni contrarie, restano regolati, secondo il fondamentale principio tempus regit actum, dalla norma sotto il cui imperio siano stati posti in essere, e secondo cui – tuttavia – la mancata o ritardata presentazione dell’istanza di prelievo può incidere, entro i limiti dell’equità, sulla determinazione dell’entità dell’indennizzo, con riferimento all’art. 2056 cod. civ., richiamato dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 28507 del 2005, pronunciata a sezioni unite, 24901 del 2008, 14753 del 2010);

che tale orientamento giurisprudenziale ha ottenuto sostanziale avallo dalla Corte EDU (decisione 2 giugno 2009, Daddi contro Italia) la quale, con due recentissime decisioni (del 16 marzo 2010, Volta et autres contro Italia; 6 aprile 2010, Falco et autres contro Italia), ha ritenuto che potessero essere liquidate, a titolo di indennizzo per il danno non patrimoniale da eccessiva durata del processo, in relazione ai singoli casi ed alle loro peculiarità, somme complessive d’importo notevolmente inferiore a quella di mille/00 Euro annue normalmente liquidate, con valutazione di detto danno che consentono al giudice italiano di procedere, in relazione alle particolarità della fattispecie, a liquidazioni dell’indennizzo più riduttive rispetto a quelle precedentemente ritenute congrue (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 14753 del 2010 cit.);

che, inoltre ed in particolare, questa Corte ha affermato il principio per il quale, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo, l’istituto della perenzione decennale dei ricorsi, introdotto dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 9 – nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche di cui al D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54 convertito in legge dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, art. 1, comma 1 – non si traduce in una presunzione di disinteresse per la decisione di merito al decorrere di un tempo definito dopo che la domanda sia stata proposta, ma comporta soltanto la necessità che le parti siano messe in condizione, tramite apposito avviso, di soffermarsi sull’attualità dell’interesse alla decisione e di manifestarlo, con la conseguenza che la mancata presentazione dell’istanza di fissazione, rendendo esplicito l’attuale disinteresse per la decisione di merito, giustifica l’esclusione della sussistenza del danno per la protrazione ultradecennale del giudizio, ma non impedisce una valorizzazione dell’atteggiamento tenuto dalle parti nel periodo precedente, quale sintomo di un interesse per la decisione mano a mano decrescente, e quindi come base per una decrescente valutazione del danno e del relativo risarcimento (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 6619 del 2010 e 3271 del 2011) ;

che, ancora, è stato precisato che in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo, la proponibilità della relativa domanda avanti alla corte d’appello esige che nel giudizio presupposto, in cui si assume essersi verificata la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1 sia stata presentata l’istanza di prelievo, ai sensi del citato D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2 e secondo le modalità del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 51, comma 2, ancorchè tale atto e l’eventuale istanza di fissazione d’udienza ai sensi della L. n. 205 del 2000, art. 9, comma 2, siano privi della sottoscrizione personale della parte, mancando una specifica deroga al principio generale, applicabile al caso di specie, per il quale gli atti processuali di parte sono posti in essere direttamente dal difensore costituito con rituale procura, e nonostante la norma da ultimo citata preveda che la predetta istanza debba essere sottoscritta dalla parte personalmente, pena l’improcedibilità di quel giudizio, in quanto la violazione della norma in parola non può determinare anche effetti procedurali negativi sul diverso giudizio di equa riparazione promosso dalla parte avanti alla corte d’appello, cui non spetta stabilire se il giudizio presupposto dovesse essere dichiarato improcedibile (cfr. l’ordinanza n. 25832 del 2010);

che infine, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, costituendo l’ansia e la sofferenza per l’eccessiva durata del processo i riflessi psicologici del perdurare dell’incertezza in ordine alle posizioni in esso coinvolte, ciò ad eccezione dei casi in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, nei quali casi l’esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve essere provata puntualmente dall’Amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte – come nella specie – sia stata dichiarata manifestamente infondata (cfr., ex plurimis e tra le ultime, le sentenze nn. 9938 del 2010, 25595 del 2008, 21088 del 2005);

che tali principi debbono essere applicati anche per le cause promosse dinanzi al Giudice delle pensioni, nel senso che la lesione del diritto alla definizione del processo nel termine ragionevole di cui all’art. 6, par. 1 della Convenzione va riscontrata, anche per le cause davanti al Giudice pensionistico, con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, mentre l’omissione od il ritardo nella presentazione dell’istanza di prelievo o di sollecitazione o di trattazione anticipata (pur quando prevista dalla prassi degli uffici giudiziari quale strumento acceleratorio, come non sarebbe stato possibile nel caso, ai sensi della L. n. 19 del 1994, art. 1, comma 4-bis, atteso che il ricorso avanti alla Corte dei conti risulta depositato nel 1961 e quindi prima della riforma di cui al D.L. n. 453 del 1993, convertito con modificazioni nella L. n. 19 del 1994, che riconosce il potere di fissazione soltanto e d’ufficio al presidente della sezione, ai sensi dell’art. 6, comma 3, nel mentre l’onere di instare per la prosecuzione spetta alla parte solo per i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge di conversione a pena di estinzione, ai sensi dell’art. 6, comma 1, così come previsto dalla L. n. 205 del 2000, art. 9, comma 3, per la perenzione dei ricorsi a pendenza ultradecennale), non implica il trasferimento sulla parte della responsabilità dello Stato per il superamento della scadenza ragionevole, nè il differimento della decorrenza del termine ragionevole di durata dalla data della proposizione della domanda, collocandosi la mancata presentazione di istanza acceleratoria sul terreno della valutazione della entità del patema d’animo sofferto a ragione del ritardo, e quindi della misura del ristoro da riconoscersi in termini di equa riparazione (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 1624 del 2011);

che, nella specie, i Giudici a quibus hanno sostanzialmente – ed erroneamente – fondato la ratio decidendi, in violazione di tutti i su richiamati principi ed adottando una motivazione chiaramente insufficiente, soltanto sulla inerzia della parte del giudizio presupposto, senza tener conto che il ricorrente ha presentato istanza di fissazione dell’udienza di discussione non appena ricevuta la relativa comunicazione e senza peraltro verificare la sussistenza dei presupposti della fattispecie di abuso del processo sulla base delle prove eventualmente dedotte dal Ministro resistente;

che, pertanto, il decreto impugnato deve essere annullato in relazione alla censura accolta;

che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2;

che il perìodo rilevante ai fini della determinazione dell’indennizzo per equa riparazione spettante al S., è nella specie, quello che intercorre tra il 1 agosto 1973 (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 14286 del 2006 e 15798 del 2010) ed il 27 settembre 2006 (deposito della sentenza della Corte dei conti), pari a complessivi trentatre anni e due mesi circa;

che, nella specie, sulla base dei criteri adottati da questa Corte e dianzi richiamati il diritto all’equa riparazione per il danno non patrimoniale di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 va determinato in Euro 16.600,00 per i trentatre anni e due mesi circa di irragionevole ritardo, oltre gli interessi a decorrere dalla proposizione della domanda di equa riparazione e fino al saldo;

che, conseguentemente, le spese processuali del giudizio a quo debbono essere nuovamente liquidate – sulla base delle tabelle A, paragrafo 4, e B, paragrafo 1, allegate al D.M. giustizia 8 aprile 2004, n. 127, relative ai procedimenti contenziosi – in complessivi Euro 1.850,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, Euro 600,00 per diritti ed Euro 1.200,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. G. Sante Assennato, dichiaratosene antistatario;

che le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri e compensa le relative spese.

Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo la causa nel merito, condanna il Ministro dell’economia e delle finanze al pagamento al ricorrente della somma di Euro 16.600,00, oltre gli interessi dalla domanda, condannandolo altresì al rimborso, in favore della parte ricorrente, delle spese del giudizio, che determina, per il giudizio di merito, in complessivi Euro 1.850,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, Euro 600,00 per diritti ed Euro 1.200,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. G. Sante Assennato, dichiaratosene antistatario, e, per il giudizio di legittimità, in complessivi Euro 900,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge, da distrarsi in favore dello stesso Assennato, dichiaratosene antistatario.

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