Cass. civ. Sez. VI, Sent., 13-04-2012, n. 5920 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

che B.D., con ricorso del 25 febbraio 2011, ha impugnato per cassazione – deducendo tre motivi di censura, illustrati con memoria -, nei confronti del Ministro dell’economia e delle finanze, il decreto della Corte d’Appello di Firenze depositato in data 14 gennaio 2010, con il quale la Corte d’appello, pronunciando sul ricorso del B. – volto ad ottenere l’equa riparazione dei danni non patrimoniali ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 1 -, in contraddittorio con il Ministro dell’economia e delle finanze – il quale, costituitosi nel giudizio, ha concluso per l’inammissibilità o l’infondatezza del ricorso -, ha dichiarato improcedibile la domanda;

che il Ministro dell’economia e delle finanze, benchè ritualmente intimato, non si è costituito nè ha svolto attività difensiva;

che, in particolare, la domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale – richiesto nella misura di Euro 6.630,00 per l’irragionevole durata del processo presupposto – proposta con ricorso del 5 giugno 2009, era fondata sui seguenti fatti: a) il B., militare dipendente dal Ministero della difesa ed asseritamente titolare del diritto al trattamento economico di missione, aveva proposto – con ricorso del 1 dicembre 2000 – la relativa domanda dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio; b) il Tribunale adito aveva deciso la causa con sentenza di rigetto del 7 aprile 2008;

che la Corte d’Appello di Firenze, con il suddetto decreto impugnato, ha dichiarato improponibile il ricorso, osservando che i ricorrenti non avevano presentato l’istanza di fissazione dell’udienza di discussione e che il D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 133 del 2008, può trovare applicazione nell’ipotesi, quale quella in esame, in cui il processo nell’ambito del quale si è verificata la violazione che ha fatto sorgere il diritto all’equa riparazione sia ancora pendente.

Motivi della decisione

che, con i motivi di censura, vengono denunciate dal ricorrente come illegittime, anche sotto il profilo dei vizi di motivazione: a) l’omessa considerazione che il ricorrente – contrariamente a quanto affermato con il decreto impugnato – aveva presentato istanza di prelievo; b) l’omesso esercizio del potere di acquisizione d’ufficio degli atti del processo presupposto, ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 5 nonostante l’espressa richiesta di acquisizione formulata dal ricorrente; c) l’affermata erronea interpretazione del predetto D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2; d) l’affermata insussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’indennizzo;

che il ricorso merita accoglimento;

che la censura sub a) è fondata;

che, infatti, secondo il costante orientamento di questa Corte, in tema di equa riparazione, per la violazione del termine ragionevole di durata del processo, ove la parte si sia avvalsa della facoltà – prevista della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 3, comma 5 – di richiedere alla corte d’appello di disporre l’acquisizione degli atti del processo presupposto, il giudice non può addebitare alla mancata produzione documentale, da parte dell’istante, di quegli atti la causa del mancato accertamento della addotta violazione della ragionevole durata del processo, in quanto la parte ha un onere di allegazione e di dimostrazione, che però riguarda la sua posizione nel processo, la data iniziale di questo, la data della sua definizione e gli eventuali gradi in cui si è articolato, mentre (in coerenza con il modello procedimentale, di cui agli artt. 737 cod. proc. civ., e segg. prescelto dal legislatore) spetta al giudice – sulla base dei dati suddetti, di quelli eventualmente addotti dalla parte resistente e di quelli acquisiti dagli atti del processo presupposto – verificare, in concreto e con riguardo alla singola fattispecie, se vi sia stata violazione del termine ragionevole di durata, tenuto anche conto che nel modello processuale della L. n. 89 del 2001 sussiste un potere d’iniziativa del giudice, che gli impedisce di rigettare la domanda per eventuali carenze probatorie superabili con l’esercizio di tale potere (cfr., ex plurimis, l’ordinanza n. 16367 del 2011, nonchè le sentenze nn. 16836 del 2010 e 9381 del 2011);

che anche le censure sub b-d) sono fondate;

che questa Corte ha già più volte affermato i principi secondo cui, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che una tale decorrenza del termine ragionevole di durata della causa possa subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza di prelievo od alla ritardata presentazione di essa, secondo cui l’innovazione, introdotta dal D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, convertito in legge con modificazioni dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, art. 1, comma 1 (per il quale la domanda non è proponibile se nel giudizio davanti al giudice amministrativo, in cui si assume essersi verificata la violazione, non sia stata presentata l’istanza di prelievo ai sensi del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 51), non può incidere sugli atti anteriormente compiuti, i cui effetti, in mancanza di una disciplina transitoria o di esplicite previsioni contrarie, restano regolati, secondo il fondamentale principio tempus regit actum, dalla norma sotto il cui imperio siano stati posti in essere, e secondo cui – tuttavia – la mancata o ritardata presentazione dell’istanza di prelievo può incidere, entro i limiti dell’equità, sulla determinazione dell’entità dell’indennizzo, con riferimento all’art. 2056 cod. civ., richiamato dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 28507 del 2005, pronunciata a sezioni unite, 24901 e 28428 del del 2008, 14753 del 2010, nonchè l’ordinanza n. 5317 del 2011);

che, sempre in conformità con tale orientamento, è stato ulteriormente precisato che l’innovazione introdotta dal citato D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, è inapplicabile – in difetto di una disciplina transitoria o di esplicite previsioni contrarie ed in ossequio al principio tempus regit actum – a quei procedimenti di equa riparazione aventi ad oggetto un giudizio amministrativo introdotto prima dell’entrata in vigore della predetta normativa (cfr., ex plurimis, l’ordinanza n. 115 del 2011);

che tale orientamento giurisprudenziale ha ottenuto sostanziale avallo dalla Corte EDU (decisione 2 giugno 2009, Daddi contro Italia, specificamente sull’interpretazione del D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, in senso conforme alla CEDU), la quale inoltre, con due recenti decisioni (del 16 marzo 2010, Volta et autres contro Italia, e del 6 aprile 2010, Falco et autres contro Italia), ha ritenuto che potessero essere liquidate, a titolo di indennizzo per il danno non patrimoniale da eccessiva durata del processo, in relazione ai singoli casi ed alle loro peculiarità, somme complessive d’importo notevolmente inferiore a quella di mille/00 Euro annue normalmente liquidate, con valutazione di detto danno che consente al giudice italiano di procedere, in relazione alle particolarità della fattispecie, a liquidazioni dell’indennizzo più riduttive rispetto a quelle precedentemente ritenute congrue (cfr., ex plurimis, le i sentenze nn. 14753 del 2010 cit. e 1359 del 2011);

che, inoltre ed in particolare, questa Corte ha affermato il principio per il quale, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo, l’istituto della perenzione decennale dei ricorsi, introdotto dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 9 – nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche di cui al D.L. n. 112 del 2008, art. 54, convertito in legge dalla L. n. 133 del 2008, art. 1, comma 1 – non si traduce in una presunzione di disinteresse per la decisione di merito al decorrere di un tempo definito dopo che la domanda sia stata proposta, ma comporta soltanto la necessità che le parti siano messe in condizione, tramite apposito avviso, di soffermarsi sull’attualità dell’interesse alla decisione e di manifestarlo, con la conseguenza che la mancata presentazione dell’istanza di fissazione, rendendo esplicito l’attuale disinteresse per la decisione di merito, giustifica l’esclusione della sussistenza del danno per la protrazione ultradecennale del giudizio, ma non impedisce una valorizzazione dell’atteggiamento tenuto dalle parti nel periodo precedente, quale sintomo di un interesse per la decisione mano a mano decrescente, e quindi come base per una decrescente valutazione del danno e del relativo risarcimento (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 6619 del 2010 e 3271 del 2011);

che, ancora, è stato precisato che in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo, la proponibilità della relativa domanda avanti alla corte d’appello esige che nel giudizio presupposto, in cui si assume essersi verificata la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1 sia stata presentata l’istanza di prelievo, ai sensi del citato D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, e secondo le modalità del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 51, comma 2 ancorchè tale atto e l’eventuale istanza di fissazione d’udienza ai sensi della L. n. 205 del 2000, art. 9, comma 2 siano privi della sottoscrizione personale della parte, mancando una specifica deroga al principio generale, per il quale gli atti processuali di parte sono posti in essere direttamente dal difensore costituito con rituale procura, e nonostante la norma da ultimo citata preveda che la predetta istanza debba essere sottoscritta dalla parte personalmente, pena l’improcedibilità di quel giudizio, in quanto la violazione della norma in parola non può determinare anche effetti procedurali negativi sul diverso giudizio di equa riparazione promosso dalla parte avanti alla corte d’appello, cui non spetta stabilire se il giudizio presupposto dovesse essere dichiarato improcedibile (cfr. l’ordinanza n. 25832 del 2010);

che infine, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, costituendo l’ansia e la sofferenza per l’eccessiva durata del processo i riflessi psicologici del perdurare dell’incertezza in ordine alle posizioni in esso coinvolte, ciò ad eccezione dei casi in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, nei quali casi l’esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve essere provata puntualmente dall’Amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte – come nella specie – sia stata dichiarata manifestamente infondata (cfr., ex plurimis e tra le ultime, le sentenze nn. 9938 del 2010, 25595 del 2008, 21088 del 2005; cfr., altresì, le sentenze nn. 18780 del 2010 e 10500 del 2011);

che, nella specie, i Giudici a quibus, in violazione di tali principi, hanno sostanzialmente fondato la ratio decidendi di improponibilità del ricorso sia omettendo di esercitare i poteri di ufficio di cui all’artalla L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 5 sia sulla base dell’erroneo presupposto dell’efficacia retroattiva del D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2;

che, pertanto, il decreto impugnato deve essere annullato in relazione alle censure accolte;

che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2;

che il processo presupposto de quo ha avuto una durata complessiva di sette anni e quattro mesi circa (dal 1 dicembre 2000, data del ricorso introduttivo del processo presupposto, al 7 aprile 2008, data del deposito della sentenza del T.a.r.);

che questa Corte, sussistendo il diritto all’equa riparazione per il danno non patrimoniale di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 e fermo restando il periodo di tre anni di ragionevole durata per il giudizio di primo grado, di due anni per il giudizio d’appello, di un anno per il giudizio di legittimità e di un ulteriore anno per la fase di rinvio, considera equo, in linea di massima, l’indennizzo di Euro 750r00 per ciascuno dei primi tre anni di irragionevole durata e di Euro 1.000,00 per ciascuno dei successivi anni;

che, nella specie, sulla base dei criteri adottati da questa Corte e dianzi richiamati il diritto all’equa riparazione per il danno non patrimoniale di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 va determinato in Euro 3.500,00 per i quattro anni e quattro mesi circa di irragionevole durata in favore del ricorrente, oltre gli interessi a decorrere dalla proposizione della domanda di equa riparazione e fino al saldo;

che, conseguentemente, le spese processuali del giudizio a quo debbono essere nuovamente liquidate – sulla base delle tabelle A, par. 4, e B, par. 1, allegate al D.M. giustizia 8 aprile 2004, n. 127, relative ai procedimenti contenziosi, in complessivi Euro 1.150,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, Euro 380,00 per diritti ed Euro 720,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge;

che le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo la causa nel merito, condanna il Ministro dell’economia e delle finanze al pagamento, in favore del ricorrente, della somma di Euro 3.500,00, oltre gli interessi dalla domanda, condannandolo altresì al rimborso, in favore della parte ricorrente, delle spese del giudizio, che determina, per il giudizio di merito, in complessivi Euro 1.150,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, Euro 380,00 per diritti ed Euro 720,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge, e, per il giudizio di legittimità, in complessivi Euro 800,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge.

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