Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 28-09-2011) 25-10-2011, n. 38480

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza 7/6/10 la Corte di Appello di Trieste confermava la sentenza 5/6/09 del Gup del Tribunale di Udine che in esito a giudizio abbreviato, con la continuazione e la diminuente del rito, condannava N.R. alla pena di anni 11 di reclusione per i reati pluriaggravati (commessi e accertati in Udine il 18/9/08) di tentato omicidio in danno della ex moglie B.E. (capo a), porto ingiustificato di uno scalpello (capo b) e illegale rientro nel territorio dello Stato dopo esserne stato espulso (capo c).

Confermate anche le statuizioni in favore della persona offesa costituitasi parte civile.

Secondo l’imputazione verificata dai giudici di merito (contestate le aggravanti della premeditazione, delle modalità particolarmente crudeli, del nesso teleologico, dello stato di clandestinità;

esclusi invece la recidiva ed il rapporto di coniugio in atto con la vittima, originariamente contestati) il N., di nazionalità albanese e già espulso dall’Italia con provvedimento eseguito il 21/12/07 e illegalmente rientratovi, dopo essersi appostato in ora notturna nei pressi del posto di lavoro dell’ex moglie armato di uno scalpello modificato nella lunghezza della lama (ridotta a 3,50 cm), all’arrivo della donna l’aveva aggredita, attingendola violentemente con almeno quindici colpi al dorso, al petto, al collo, al capo e al volto e continuando a infierire anche quando era ormai a terra indifesa. Il fatto, immediatamente segnalato dai presenti, avveniva all’interno del Centro di Salute Mentale di fraz. Sant’Osvaldo di Udine, presso il cui chiosco-bar la dorma lavorava, e l’aggressore veniva intercettato all’uscita da una volante della polizia, lo scalpello imbrattato di sangue e di capelli riposto nella tasca posteriore dei pantaloni. L’uomo ammetteva i fatti, chiarendo di avere accoltellato l’ex moglie – senza però aver voluto ucciderla – per motivi legati alla vendita della casa comune, alle controversie sulla figlia e alla proprietà di altra casa che avevano in Albania.

Quindi le sentenze di primo e di secondo grado.

Ricorreva per cassazione la difesa dell’imputato, deducendo: A) violazione di legge penale per la qualificazione del fatto come tentato omicidio (per la ritenuta idoneità e non equivocità degli atti e la negata desistenza, laddove la stessa lama era stata ridotta a 3,50 cm, erano state prese di mira parti del corpo non immediatamente vitali, il fatto era stato commesso alla presenza di più persone e l’ipotetico decesso era affidato a un improbabile dissanguamento); B) inesistenza delle aggravanti contestate (caducata ex tunc dalla Corte costituzionale, con la pronuncia n. 249/10, quella della clandestinità; impropriamente contestata quella del mezzo insidioso ex art. 577 c.p., comma 1, n. 2; compatibile solo con il dolo di lesioni, visto lo strumento usato, quella della crudeltà;

priva di fondamenti oggettivi quella della premeditazione e dedotta solo dal rientro illegale del N. in Italia, peraltro risalente nel tempo); C) mancata concessione delle attenuanti generiche; D) severità del trattamento sanzionatorio; E) violazione degli artt. 6 e 14 CEDU e art. 3 Cost. per non esservi stato un processo equo (da un giudice indipendente e imparziale, vista l’applicazione di un’aggravante incostituzionale e la severità della pena, basata anche sullo status di clandestinità dell’imputato). Chiedeva l’annullamento della sentenza.

All’udienza fissata per la discussione il PG concludeva per il rigetto del ricorso, la difesa per il suo accoglimento.

Il ricorso è fondato solo in ordine all’aggravante della clandestinità, la relativa pena andando pertanto espunta dalla condanna da questo stesso giudice (con annullamento, quindi, senza rinvio). Per il resto va rigettato. Infondati, infatti, i rimanenti motivi.

Infondato il motivo sub A). La volontà omicida emerge palese dalla dissennata e cieca furia aggressiva del N., che si è accanito su tutte le parti superiori del corpo della donna (dorso, petto, capo:

sedi note degli organi vitali) e segnatamente su quelle più vulnerabili del viso e del collo. Ciò ha fatto con l’uso anomalo di uno strumento di per sè di grande potenzialità lesiva come lo scalpello, la cui maneggevolezza e specifica offensività nei confronti di un corpo umano era accresciuta dalla riduzione appropriata della sua lunghezza. Il compimento dell’azione alla presenza di persone e l’interruzione di essa senza assicurarsi dell’esito denota solo l’indifferenza dell’uomo all’impunità e la placata convinzione di aver fatto quanto doveva. L’epilogo mortale fu evitato solo dall’immediato soccorso medico e dalla sottoposizione della donna a rianimazione e trasfusione di sangue.

Fondato in parte qua il motivo sub B) in ordine alla riconosciuta incostituzionalità dell’aggravante della clandestinità, per il resto esso è del tutto infondato: solo erroneo il richiamo contenuto nell’imputazione al n. 2 (l’aggravante del mezzo insidioso) anzi che al n. 3 (quella contestata ed applicata della premeditazione) dell’art. 577 c.p., comma 1; compatibile anche con il dolo omicida (le maggiori sofferenze infitte alla vittima per il mezzo usato) l’aggravante della crudeltà; desunta (oltre che dal tuttavia necessario rientro in Italia) soprattutto dalla causale e dal lungo ed accurato appostamento notturno, in uno con la preordinazione dei mezzi, l’aggravante della premeditazione.

Manifestamente infondati i rilievi sulla negata concessione delle attenuanti generiche e sulla misura della pena (motivi sub C e D), visti i puntuali richiami dei giudici di merito alle specifiche modalità e circostanze del fatto, alla personalità dell’imputato, ai suoi precedenti penali e giudiziari.

Manifestamente infondato, infine, il motivo sub E), la sentenza risultando emessa in base alla corretta e oggettiva valutazione del quadro probatorio senza alcun negativo pregiudizio nei confronti dell’imputato derivante dal suo stato di straniero irregolare: la contestata aggravante della clandestinità (solo poi riconosciuta incostituzionale) e il conseguente aumento di pena erano dovuti per legge. Estraneo il reato D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 13, comma 12 (di cui al capo c) alla recente rivisitazione giurisprudenziale del reato ex art. 14, comma 5-ter cui pure ha fatto cenno la difesa in sede di discussione orale. La sentenza va invece annullata, senza rinvio, in ordine al quantum di pena applicato per l’aggravante, da eliminare, della clandestinità: già fissata la pena base per il reato sub a) con espresso richiamo solo alle aggravanti di cui all’art. 577 c.p. (v. la sentenza di primo grado a pag. 17), l’aumento da eliminare per l’altro reato in continuazione (sub b) interessato dall’aggravante in parola è determinabile in mesi tre di reclusione, per una pena finale, considerata la diminuente del rito abbreviato, di anni dieci e mesi dieci di reclusione.

P.Q.M.

annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all’aggravante della clandestinità, che elimina; ridetermina la pena in anni dieci e mesi dieci di reclusione. Rigetta il ricorso nel resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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