Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 27-09-2011) 25-10-2011, n. 38717

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Lecce, con provvedimento in data 11 giugno 2010, ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello proposto da C.T. avverso la sentenza del Tribunale di Lecce – Sez. Dist. Di Galatina – del 22.02.2010, con la quale l’imputato era stato condannato alla pena di Euro 600,00 di ammenda, oltre alla sospensione della patente di guida per la durata di mesi sei, per il reato (acc. il (OMISSIS)) di guida in stato di ebbrezza di cui all’art. 186, comma 2, addebitato al C. in base a dati sintomatici rilevati dai verbalizzanti all’atto del controllo (l’imputato era stato assolto dal primo giudice in ordine al reato di cui all’art. 186, comma 7, contestato relativamente al rifiuto di sottoporsi all’accertamento tecnico per la determinazione del tasso alcolemico presente nell’organismo, perchè depenalizzato in base alla L. n. 160 del 2007); la Corte territoriale ha rilevato la inappellabilità della sentenza in quanto di condanna alla sola pena pecuniaria dell’ammenda, ed ha ritenuto insussistenti le condizioni per qualificare il gravame come ricorso ai sensi dell’art. 568 c.p., comma 5, trattandosi di impugnazione fondata esclusivamente su motivi di merito. Avverso detto provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato, a mezzo del difensore, denunciando violazione di legge sul rilievo che con l’impugnazione erano state dedotte anche censure in punto di diritto (con particolare riferimento alle sanzioni amministrative accessorie) e che comunque la Corte territoriale avrebbe in ogni caso dovuto qualificare l’impugnazione come ricorso per Cassazione, e disporre la trasmissione degli atti alla Corte di Cassazione.

Motivi della decisione

La tesi del ricorrente, secondo cui la Corte di merito avrebbe errato nel dichiarare l’inammissibilità del gravame rilevando l’insussistenza dei presupposti per qualificare l’impugnazione come ricorso, è certamente esatta. Nella concreta fattispecie, alla Corte d’appello era stata devoluta la cognizione di un gravame relativo a sentenza di condanna alla sola pena dell’ammenda. Orbene, correttamente la Corte stessa ha rilevato l’inappellabilità dell’impugnazione (ai sensi dell’art. 593). Ma ha poi errato laddove ha dichiarato inammissibile l’impugnazione stessa, ritenendo insussistenti i presupposti per la qualificazione del gravame come ricorso, muovendo dal rilievo che lo stesso fosse basato esclusivamente su motivi di merito non deducibili in Cassazione.

Le Sezioni Unite, dopo un primo intervento (SS.UU., 26.11.1997, n. 16, Nexhi, RV. 209336), hanno avuto poi modo di affrontare ancora una volta la questione relativa ai presupposti per l’applicabilità dell’art. 568 c.p.p., comma 5, e, precisando ulteriormente quanto precedentemente affermato, si sono così espresse: il giudice che ha ricevuto l’atto deve limitarsi, a norma dell’art. 568 c.p.p., comma 5, a verificare l’oggettiva impugnabilità del provvedimento, nonchè resistenza di una "voluntas impugnationis", consistente nell’intento di sottoporre l’atto impugnato a sindacato giurisdizionale, e quindi trasmettere gli atti, non necessariamente previa adozione di un provvedimento giurisdizionale, al giudice competente (Sez. Un., 31 ottobre 2001, n. 45371, Bonaventura); esclusivamente a quest’ultimo giudice, teoricamente competente a conoscere della impugnazione e al quale gli atti debbono essere trasmessi, è attribuito il potere di procedere alla esatta qualificazione del mezzo di gravame e a delibarne la ammissibilità e la fondatezza, essendo l’unico limite alla operatività dell’art. 568 c.p.p., comma 5 costituito dalla inoppugnabilità del provvedimento, conseguendone che solo in tale caso può essere consentito al giudice, avanti al quale l’impugnazione sia stata presentata, di dichiararne la inammissibilità (Sez. un., 31 ottobre 2001, n. 45372, De Palma). In applicazione del più recente indirizzo interpretativo seguito dalle Sezioni Unte di questa Corte, l’impugnato provvedimento di inammissibilità dell’appello deve essere dunque annullato senza rinvio, e l’impugnazione, correttamente qualificata come ricorso, deve essere decisa in questa sede.

Tutto ciò premesso, rileva preliminarmente il Collegio che la violazione per la quale è stato condannato il C. è stata accertata sulla base di dati sintomatici quali rilevati dal verbalizzante all’atto del controllo, e dal verbalizzante stesso riferiti nel dibattimento di primo grado, come si rileva dalla sentenza del Tribunale ("alito vinoso, difficoltà nell’esprimersi, linguaggio scorretto"). Orbene, talune precisazioni e considerazioni si impongono. Il D.L. 3 agosto 2007, n. 117, art. 5 ha – come è noto – riscritto il D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 186, trasformando in illecito amministrativo il rifiuto di sottoporsi all’accertamento, ma non abolendo, neppure in parte, la fattispecie di guida in stato di ebbrezza ed inasprendone anzi l’apparato sanzionatorio. In particolare, le pene principali sono state differenziate in base alla gravità della violazione: prima fascia: ammenda da Euro 500 a Euro 2000 e arresto fino ad un mese se il tasso alcolemico accertato è superiore a 0,5 grammi per litro e non superiore a 0,8 (la previsione dell’arresto è stata, poi, soppressa dalla Legge Conversione 2 ottobre 2007, n. 160);

seconda fascia: ammenda da Euro 800 a Euro 3.200 ed arresto fino a tre mesi (elevato a sei mesi dal D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 4, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, convertito dalla L. 24 luglio 2008, n. 125) se il tasso alcolemico accertato è superiore a 0,8 grammi per litro e non superiore a 1,5. terza fascia:

ammenda da Euro 1.500 a Euro 6.000 ed arresto fino a sei mesi (ora da tre mesi ad un anno per effetto dell’intervento dei provvedimenti legislativi da ultimo citati) se il tasso alcolemico accertato è superiore a 1,5 grammi per litro. Nella vigenza del precedente assetto normativo, questa Corte aveva più volte avuto modo di affermare (cfr. Cass. S.U. 27 settembre 1995, Cirigliano, RV 203634;

Cass. 4, 4 maggio 2004, Ciacci, RV 229966; Cass. 4, 9 giugno 2004, p.m. in proc. Massacesi, RV 229087) che lo stato di ebbrezza del conducente del veicolo poteva essere accertato e provato, ai fini della configurabilità della contravvenzione in esame, con qualsiasi mezzo, e non necessariamente, nè unicamente, mediante la strumentazione (il c.d. etilometro) e le procedure indicate nel menzionato D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495, art. 379.

In particolare, per il principio del libero convincimento, per l’assenza di prove legali e per la necessità che la prova non dipenda dalla discrezionale volontà della parte interessata, il giudice poteva dimostrare l’esistenza dello stato di ebbrezza sulla base delle circostanze sintomatiche, desumibili in particolare dallo stato del soggetto (alterazione della deambulazione, difficoltà di movimento, eloquio sconnesso, alito vinoso, ecc.) e dalla condotta di guida (che i verbalizzanti hanno il compito di indicare nella notizia di reato, ai sensi dell’art. 347 c.p.p.: v. citato art. 379, comma 3).

Con le modificazioni anzidette sono state dunque introdotte tre fasce contravvenzionali che, come questa Corte ha già, seppur incidentalmente, avuto modo di affermare (cfr. ad esempio Cass. 4, 16 settembre 2008, Vergori; Cass. 4, 11 aprile 2008, P.G. in proc. Scanziani, non massimate), integrano fattispecie autonome di reato, non ricorrendo alcun rapporto di specialità fra le tre disposizioni:

le ipotesi ivi contemplate – disposte, come si è visto, in ordine crescente di gravità modellata sul tasso alcolemico accertato – sono, invero, caratterizzate da reciproca alternatività, quindi da un rapporto di incompatibilità.

Ciò detto, non vi è motivo, tuttavia, di ritenere che il nuovo sistema sanzionatorio precluda oggi al giudice di poter dimostrare l’esistenza dello stato di ebbrezza sulla base delle circostanze sintomatiche riferite dai verbalizzanti. Le ragioni che legittimavano quell’orientamento interpretativo (principio del libero convincimento, assenza di prove legali e necessità che la prova non dipenda dalla discrezionale volontà della parte interessata) non sono, invero, venute meno. Il tasso alcolemico è elemento costitutivo di ognuna delle tre fattispecie e, come tale, è suscettibile di accertamento secondo le regole che governano il sistema delle prove.

Una volta ammesso che, in linea di principio, lo stato di ebbrezza può desumersi da elementi sintomatici, è agevolmente intuibile che, sul piano probatorio, la possibilità per il giudice di avvalersi, ai fini dell’affermazione della sussistenza dello stato di ebbrezza, delle sole circostanze sintomatiche riferite dagli agenti accertatori sarà il più delle volte logicamente da circoscriversi alla sola fattispecie meno grave. Fatte queste premesse sul piano sistematico ed ermeneutico, e passando all’esame della concreta fattispecie, mette conto sottolineare che la colpevolezza del C. è stata affermata sulla scorta delle circostanze sintomatiche dello stato di ebbrezza rilevate al momento del controllo. Di tal che, per le considerazioni dianzi esposte, ed in virtù del principio generale di cui all’alt 2 del codice penale in tema di successione delle leggi nel tempo, il fatto addebitato all’imputato deve essere ricondotto nell’ambito della ipotesi contravvenzionale di cui alla prima delle tre fasce sopra ricordate, vale a dire quella concernente il tasso alcolemico non superiore a 0,8, avuto riguardo al più favorevole trattamento sanzionatorio in conseguenza delle modifiche introdotte dalla legge del 2007, in mancanza di significativi, concreti ed univoci elementi fattuali per ritenere sussistente nell’organismo del C., al momento del controllo, un tasso alcolemico superiore a 0,8 g/L Con la recente novella di cui alla L. 29 luglio 2010, n. 120 la fattispecie di cui alla fascia a) del novellato art. 186 C.d.S., comma 2, è stata però depenalizzata, e sanzionata con il pagamento di una somma da Euro 500,00 ad Euro 2.000,00), quale illecito amministrativo. Deve quindi trovare applicazione, in relazione al "tempus commissi delicti" (14 dicembre 2006) ed in forza del principio di cui all’art. 2 c.p., la L. n. 210 del 2010 – entrata in vigore il 13 agosto 2010 – con la quale la violazione addebitata al C. è stata, appunto, depenalizzata.

In ordine all’addebito in argomento, l’impugnata sentenza del Tribunale di Lecce – Sez. Dist. di Galatina – deve essere pertanto annullata, senza rinvio, trattandosi di fatto non previsto dalla legge come reato.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato e, qualificata come ricorso l’impugnazione proposta avverso la sentenza del Tribunale di Lecce – Sez. Dist. di Galatina – in data 22.02.2010 nei confronti di C.T., annulla senza rinvio detta sentenza perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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