Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 16-04-2012, n. 5961 Pensioni, stipendi e salari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 10.3.2010, la Corte di Appello di Roma, in accoglimento del gravame dei dipendenti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ed in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava il diritto dei predetti alla equiparazione del trattamento stipendiale goduto a quello attribuito al personale del soppresso ruolo ad esaurimento – Ispettori generali, con decorrenza dal 16.2.1999 e condannava il Ministero al pagamento, in favore degli appellanti, delle differenze retributive maturate.

Osservava la Corte territoriale che, ai fini del rivendicato eguale trattamento economico rilevava l’identità della declaratoria delle mansioni previste per la categoria del personale della ex 9^ qualifica e per la categoria del personale del soppresso ruolo ad esaurimento, e che non assumeva significatività la descrizione delle mansioni svolte, pacificamente appartenenti alla ex 9^ qualifica funzionale, ora posizione economica C3.

Rilevava che non sussistevano nella ipotesi considerata ragioni obiettive che giustificassero la corresponsione di trattamenti economici differenziati, dovendo applicarsi il principio di parità di trattamento previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 (già D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 49), specificazione del principio di uguaglianza e di quello di buon andamento dell’attività della P. A. Quanto meno dall’entrata in vigore del CCNL 16.2.1999, tale uguale trattamento era giustificato dal fatto che il personale inquadrato nella 9^ qualifica funzionale, come gli appellanti, e quello già appartenente ai ruoli ad esaurimento erano confluiti nella medesima posizione C3, che comprende coloro che possiedono elevate conoscenze, capacità ed esperienza consolidate, ai quali sono affidati la direzione e controllo di unità organiche con assunzione diretta di responsabilità e risultati e cura delle relazioni esterne, con assunzione temporanea di funzioni dirigenziali in assenza del dirigente titolare e direzione e coordinamento di attività di vari settori e strutture di livello dirigenziale.

Era, pertanto, venuta meno la ragione giustificatrice della conservazione del trattamento economico di maggior favore nel momento in cui erano state ridisegnate sia le qualifiche che i trattamenti economici spettanti.

Per la cassazione di tale decisione ricorre il Ministero, con due motivi, illustrati con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Resistono, con distinti controricorsi, i dipendenti rappresentati e difesi dall’avv. Mosca e quelli rappresentati dall’avv. Fassari, indicati in epigrafe, che hanno illustrato le proprie difese con memoria.

Resistono, altresì, D.G.G. e Ma.Li..

Motivi della decisione

Va, preliminarmente, disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dai controricorrenti difesi dall’avv. Fassari, sul rilievo della tardività della notifica dell’impugnazione nei loro confronti, avvenuta in data 11.6.2010, e quindi ben oltre il termine di sessanta giorni dalla notifica della decisione di appello al Ministero, effettuata, su istanza dell’avv. Mosca, il 29.3.2010.

Ed invero, in tema di impugnazioni, il principio per il quale, nel processo con pluralità di parti, stante l’unitarietà del termine per l’impugnazione, la notifica della sentenza eseguita ad istanza di una sola delle parti segna, nei confronti della stessa e della parte destinatala della notificazione, l’inizio del termine per la proposizione dell’impugnazione contro tutte le altre parti, trova applicazione soltanto quando si tratti di cause inscindibili o tra loro dipendenti, ovvero nel caso in cui la controversia concerna un unico rapporto sostanziale o processuale, e non anche quando si versi nella distinta ipotesi di plurime cause che f avrebbero potuto essere trattate separatamente e, solo per motivi contingenti, sono state trattate in un solo processo, per le quali, in applicazione del combinato disposto degli artt. 326 e 332 cod. proc. civ., è esclusa la necessità del litisconsorzio. Ricorrendo questa eventualità, poichè all’interesse di ciascuna parte corrisponde un interesse autonomo di impugnazione, il termine per impugnare non è più unitario, ma decorre dalla data delle singole notificazioni a ciascuno dei titolari dei diversi rapporti definiti con l’unica sentenza, mentre per le parti tra le quali non c’è stata notificazione si applica la norma di cui all’art. 327 cod. proc. civ., che prevede l’impugnabilità entro l’anno dal deposito della sentenza (cfr. Cass. 20.1.2007 n. 1825 ed, in senso conforme, Cass. 4.2.2010 n. 1557).

Nel caso considerato, in conformità a tale principio, deve ritenersi operante il termine annuale di impugnazione nei confronti dei controricorrenti che non hanno proceduto alla notifica della sentenza.

Va, altresì, ritenuta priva di fondamento giuridico l’ulteriore eccezione di improcedibilità del ricorso per l’omessa produzione del CCNL di comparto applicabile, essendo principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità quello alla cui stregua l’improcedibilità del ricorso per cassazione a norma dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non può conseguire al mancato deposito del contratto collettivo di diritto pubblico, ancorchè la decisione della controversia dipenda direttamente dall’esame e dall’interpretazione delle relative clausole, atteso che, in considerazione del peculiare procedimento formativo, del regime di pubblicità, della sottoposizione a controllo contabile della compatibilità economica dei costi previsti, l’esigenza di certezza e di conoscenza da parte del giudice era già assolta, in maniera autonoma, mediante la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 8, sì che la successiva previsione, introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, deve essere riferita ai contratti collettivi di diritto comune (cfr., tra le altre, Cass., s.u., 4.11.2009 n. 23329, Cass., s. u., 12.10.2009 n. 21558).

Anche l’ulteriore rilievo, formulato da alcuni dei controricorrenti, relativo alla mancata notifica di una copia del ricorso mancante di una pagina dell’originale, ed in forza del quale gli stessi hanno eccepito l’inammissibilità del ricorso, deve disattendersi, in ragione del carattere inessenziale, ai fini della comprensibilità complessiva dell’atto, della parte non notificata, contente una mera premessa, peraltro racchiusa nel precedente richiamo di normativa specificamente indicata, che non impedisce in alcun modo l’espletamento di corretta attività difensiva da parte dei soggetti destinatari dell’atto notificato.

Con il primo motivo, il Ministero denunzia violazione o falsa applicazione dell’art. 45, comma 2, del D.Lgs. (già D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 49), del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 3 (già del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 25, comma 4), nonchè degli artt. 3 e 36 Cost..

Dopo avere tratteggiato i passaggi fondamentali dell’introduzione, all’interno delle pubbliche amministrazioni, del profilo professionale dirigenziale e del trattamento riservato al personale con significativa anzianità appartenente a specifiche qualifiche, per il quale non sussistevano, per mancanza di posti disponibili, le condizioni per accedere alla dirigenza nel regime precedente a quello delle qualifiche funzionali introdotte dalla L. n. 312 del 1980 ed avere, quindi, descritto il contesto storico normativo in cui si collocava e trovava la sua ragione giustificatrice il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 25, comma 4, poi trasfuso nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 3, il ricorrente osserva che il precetto di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45, comma 2 mira senz’altro ad assicurare ai dipendenti la parità di trattamento contrattuale, ma all’interno del perimetro delineato e stabilito, peraltro inderogabilmente dai contratti collettivi. Rileva che, nel caso in esame, le differenziazioni stipendiali tra dipendenti di ex 9^ qualifica e di quelli dei ruoli ad esaurimento sono state stabilite a livello di contrattazione collettiva, cui, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, la P. A. non può che adeguarsi, senza possibilità di deroga, come confermato da pronuncia della Cassazione, a S.U. n. 21744/2009, che ha stabilito la inderogabilità delle norme di fonte contrattuale collettiva anche in melius, con nullità dell’atto derogatorio, per violazione di norma imperativa, nonchè per difetto assoluto di attribuzione.

Evidenzia che la ratio dell’art. 45 citato è quella di impedire all’Amministrazione di creare delle differenziazioni all’interno dei vari contratti in un tempo successivo alla stipula degli stessi mediante lo strumento della contrattazione collettiva, poichè, come stabilito dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, commi 2 e 3, la fonte della disciplina del rapporto di lavoro si rinviene unicamente nel contratto collettivo nazionale di comparto e integrativo posto in essere dalle parti sociali, contratto che, nel caso di specie, dispone esso stesso le censurate differenziazioni stipendiali, non avendo operato l’Amministrazione alcuna modifica o alterazione rispetto a quanto da esso disposto e previsto. La norma contiene il divieto di trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo, ma non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in quella sede. Tale possibilità, secondo la prospettazione del Ministero, non si pone neanche in contrasto con l’art. 36 Cost., atteso che i criteri di adeguatezza e proporzionalità delle retribuzione in esso contenuto vanno verificati esclusivamente in relazione al singolo rapporto di lavoro e che gli stessi non si applicano nel caso di un emolumento collegato a particolari caratteristiche della prestazione, ovvero a particolari qualità personali del dipendente, che non consente all’amministrazione, per la diversa genesi giuridica, nel quadro della disciplina negoziata, di ipotizzare un vincolo all’equiparazione dei due trattamenti seppure sulla base dell’asserita equivalenza di mansioni.

Con il secondo motivo, il Ministero ascrive alla impugnata decisione la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3, la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 3, nonchè la violazione e falsa applicazione delle tabelle retributive A, B, D, D bis allegate al ccnl del Comparto Ministeri per il quadriennio 1998-2001. Si richiama al principio di sottrazione al sindacato giurisdizionale delle scelte della contrattazione collettiva nel settore pubblico in materia di inquadramenti, osservando che l’intenzione legislativa di conservare, in capo al personale R.A.E., una peculiare posizione, viene confermata con la previsione della L. n. 145 del 2002, art. 5 e che il CCNL Comparto Ministeri, che ha inquadrato gli appartenenti alla ex 9^ qualifica in area C, posizione economica C3, e che lo stesso inquadramento conferito al personale ex RAE ha garantito a questi ultimi la conservazione del proprio trattamento economico, salvaguardando un diritto quesito in virtù di precedenti disposizioni legislative che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 3, in specie anch’esso violato, ha espressamente e ancora attualmente voluto riconoscere.

La previsione del comma 3, art. 69 sarebbe stata, d’altronde, inutile (in quanto già scritto più generalmente nello stesso D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3 e nell’art. 45, comma 1 che prevedono che la definizione del trattamento economico compete alla contrattazione collettiva), se la stessa non dovesse intendersi nel preciso senso di orientare la contrattazione collettiva ad un peculiare riconoscimento economico nel rispetto di quella conservazione della qualifica ad personam che, in sede di riforma, si è inteso significativamente mantenere nonostante la soppressione.

Il ricorso è fondato.

La distinzione in termini stipendiali fra il personale appartenente a ruolo ad esaurimento e gli altri dipendenti della ex 9A qualifica funzionale, tutti ormai inseriti – come glia attuali controricorrenti – nell’area contrattuale "C" dai CCNL 12.2.99 e 12.6.03, lungi dal determinare una violazione di legge da parte della contrattazione collettiva, costituisce, anzi, attuazione della norma transitoria contenuta nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 3, in virtù della quale il personale delle qualifiche ad esaurimento di cui al D.P.R. 30 giugno 1972, n. 748, artt. 60 e 61 (e successive modificazioni ed integrazioni) e quello di cui alla L. 9 marzo 1989, n. 88, art. 15 i cui ruoli sono contestualmente soppressi a far data dal 21.2.93, conserva le qualifiche medesime "ad personam", con ciò rendendo evidente che tali qualifiche costituiscono una consapevole eccezione legislativa rispetto all’assetto ordinario, eccezione prevista dallo stesso testo (il D.Lgs. n. 165 del 2001) cui appartiene la norma (art. 45) che il Ministero ricorrente assume essere stata violata o falsamente applicata nella pronunzia impugnata.

Una doverosa interpretazione sistematica impedisce l’estensione – operata dalla Corte territoriale – del trattamento stipendiale corrispondente a tali qualifiche sopravvissute "ad personam", la quale comporterebbe, invero, come già in un caso analogo osservato da questa stessa Corte, lo svuotamento del contenuto precettivo della summenzionata previsione transitoria, "in un capovolgimento del normale rapporto tra norme transitorie e disposizioni a regime, con un conseguente (e inedito) allineamento (in termini di conseguenze sul piano retributivo) delle seconde alle prime" (cfr., in tali termini, Cass. 27.10.2011 n. 22437).

Sotto altro versante, questa S.C. ha già avuto, poi, modo di statuire più volte (cfr. Cass. 18.6.08 n. 16504; Cass. 19.6.08 n. 16676; Cass. 10.3.09 n. 5726; Cass. 12.3.09 n. 6027; Cass. Sez. Lav.

27.5.09 n. 12336 e, da ultimo Cass. 22437/2011 cit.), con orientamento cui va data continuità, che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 cpv. non vieta ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, ma solo quelli contrastanti con specifiche previsioni normative, restando escluse dal sindacato del giudice le scelte compiute in sede di contrattazione collettiva.

Ciò significa che il principio di parità di trattamento nell’ambito dei rapporti di lavoro pubblico, sancito dal D.Lgs. n. 165 del 2001, cit. art. 45, vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo, ma non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in quella sede. Neanche sarebbe ipotizzabile, poi, un contrasto della pattuizione collettiva con il principio di non discriminazione, tale aspetto essendo stato esaminato in termini di esclusione di ogni contrasto dalle pronunzie di questa Corte del 18.6.2008 n. 16504 e del 19.6.2008 n. 16676, che hanno espressamente escluso che il principio di non discriminazione abbia valenza di clausola aperta, idonea a vietare ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, rilevando sotto tale profilo, specifiche previsioni normative (tra le quali, quelle desumibili dalla L. n. 300 del 1970, art. 15) ed hanno affermato, in particolare, che il principio in questione vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti nel contratto collettivo, ma non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate nell’esercizio dell’autonomia collettiva.

Nè il principio di parità nei termini indicati nella sentenza della Corte del merito potrebbe essere affermato sulla base della pronunzia della Corte costituzionale n. 103/1989 (mera sentenza interpretativa di rigetto), che all’autonomia organizzativa non illimitata del datore di lavoro contrappone proprio il potere di classificazione professionale dei lavoratori demandato ai contratti collettivi, secondo scelte non sindacabili dal giudice, mancando il parametro di giudizio cui rapportare siffatta verifica.

Quando, invero, la disparità trova titolo non nelle scelte in cui si estrinseca il potere direttivo del datore di lavoro (sia esso pubblico o privato), ma nelle pattuizioni dell’autonomia collettiva ed in queste non si riscontrano finalità illecite, bensì mere valutazioni comparative, non ricorre più il conflitto del lavoratore con l’altrui iniziativa economica (che era alla base della motivazione della cit. sent. n. 103/89 della Corte cost.), ma, semmai, con l’autonomia negoziale delle parti collettive.

In modo del tutto condivisibile è stato sottolineato che il principio di parità nasce storicamente non solo e non tanto dall’esigenza di recuperare uguaglianza o, meglio, esatta giustizia distributiva, quanto dalla necessità di regolare l’uso d’un potere privato all’interno d’una comunità organizzata. Questo bisogno si manifesta – cioè – per colmare il vuoto di "contraddittorio" ove manchi istituzionalmente la possibilità che il soggetto in posizione subalterna faccia valere le proprie ragioni contro le scelte discrezionali del soggetto in posizione preminente. Ma ciò non si verifica rispetto alla contrattazione collettiva, in cui le parti operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato (cfr. Cass. 22437/2011 cit.), sicchè il principio di parità anche su tale piano più generale risulta non correttamente applicato dalla sentenza qui impugnata.

Peraltro, deve anche convenirsi sulla considerazione, più volte effettuata, che la sede giurisdizionale non è di sicuro la più adatta ad incidere su discrasie che magari trovano la propria ragion d’essere nella storia delle relazioni sindacali in un dato settore merceologico o in un determinato comparto pubblico: ad es., clausole che prevedano forme di disparità potrebbero essere state convenute per sanare – a loro volta – disparità anteriori, oppure per salvaguardare livelli retributivi di personale assorbito a seguito di operazioni di mobilità interaziendale o, ancora, di lavoratori appartenente a ruoli ad esaurimento, come nel caso in oggetto. In siffatte evenienze il giudice dovrebbe procedere a un’anamnesi delle relazioni sindacali e delle vicende aziendali o di comparto pubblico tanto elaborata e a vasto raggio da essere difficilmente compatibile con i margini dell’accertamento giudiziario.

La evidenziata erroneità della interpretazione delle norme richiamate si manifesta anche con riguardo all’ulteriore previsione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 2 ( D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 2, commi da 1 a 3, come sostituiti prima dal D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 2 e, poi, dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 2), che al comma 3, prevede, tra l’altro, che "l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi …", individuando la fonte della disciplina del rapporto di lavoro pubblico nello strumento della contrattazione collettiva nazionale di comparto ed integrativa. L’interpretazione delle norme propugnata dal Ministero non si pone, poi, neanche in contrasto con l’art. 36 Cost., in quanto, come in modo condivisibile osservato dallo stesso ricorrente, il riferimento all’adeguatezza e proporzionalità delle retribuzione contenuto nella disposizione normativa richiamata allude esclusivamente al singolo rapporto di lavoro, a prescindere da ogni comparazione intersoggettiva e intercategoriale, senza considerare che i criteri sanciti da tale norma non si applicano nel caso di un emolumento collegato a particolari caratteristiche della prestazione, ovvero a particolari qualità personali del dipendente. La diversità strutturale delle qualifiche direttive ad esaurimento, agganciate, quanto al trattamento economico, al personale dirigenziale ed il diverso meccanismo retributivo legato, per i ruoli ad esaurimento, ad incrementi automatici collegati all’anzianità, giustificano la salvezza dei trattamenti economici già maturati e la diversa genesi giuridica impedisce all’amministrazione, nel quadro della disciplina negoziata, di ipotizzare un vincolo all’equiparazione dei due trattamenti seppure sulla base dell’asserita equivalenza di mansioni, non potendo neanche invocarsi il principio di uguaglianza in presenza di situazioni complessivamente disomogenee.

Il ricorso va, pertanto, accolto e di conseguenza la sentenza impugnata va cassata senza rinvio (ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, ultimo periodo), in relazione al detto accoglimento, in quanto la causa può essere decisa nel merito, sulla base del principio di diritto enunciato – senza che siano necessari all’uopo accertamenti di fatto – e, per l’effetto, vanno rigettate le domanda dei controricorrenti.

La peculiarità della questione trattata e la esistenza di orientamenti giurisprudenziali difformi tra i giudici dei due gradi di merito costituiscono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di lite dell’intero processo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la decisione impugnata e, decidendo nel merito, rigetta le domande dei contro ricorrenti proposte contro il Ministero. Compensa tra le parti le spese di lite dell’intero processo.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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