Cass. pen. Sez. feriale, Sent., (ud. 12-09-2011) 25-10-2011, n. 38515 Poteri della Cassazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 18 gennaio 2010, il Gup di Milano ha dichiarato F.M., Fl.Mo., F.S., A. M., R.R., colpevoli del delitto di associazione a delinquere (capo 1), del delitto di corruzione, come loro ascritto ai capi 5 e 6, del delitto di truffa di cui al capo 7, come loro rispettivamente ascritti; per il medesimo capo 7 affermava la responsabilità anche di R.D., T.L., Z. M. ed inoltre dichiarava colpevole H.M., per il delitto di riciclaggio.

2. La vicenda era stata originata dall’iniziativa del Procuratore della Repubblica di (OMISSIS), M.G., che aveva ideato un sistema di affidamento a terne collegiali, composte da dottori commercialisti, di consulenze dirette ad accertare se le aziende del circondario avessero o meno commesso reati di tipo economico-finanziario; a tal fine veniva demandata ai C.T. una indagine avente ad oggetto la analisi degli indici economici patrimoniali della azienda, sul presupposto che gli esiti avessero una qualche rilevanza penale.

3. L’indagine, meramente esplorativa, diretta al controllo solo cartolare di dati dichiarati, veniva basata su un quesito standardizzato ed espletata dai commercialisti, mediante un software che si limitava a confrontare i parametri astratti con le cifre rilevate, sicchè in pochi casi di acclarata discordanza, si era proceduto alla iscrizione delle controllate nel registro degli indagati. Per lo più, invece, il procedimento penale non era stato avviato, ma si era immediatamente concluso con la liquidazione di una lauta parcella di Euro 36.000.00, il cui introito veniva decurtato di un 30 %, che i consulenti, in contante, riversavano a certo S. R., funzionario dell’Agenzie delle Entrate, che aveva provveduto a reperire i professionisti, organizzati per terne, a composizione fissa; il S., a sua volta, versava detta percentuale a V.D., amico personale del Procuratore M., con cui era condivisa, tant’è che il suddetto imputato per sua stessa ammissione aveva intascato oltre 1.500.000 Euro, che aveva affidato ad un suo amico, H.M., perchè venisse trasferita in Marocco ed ivi reinvestita.

4. In base alle delineate modalità, avevano operato distinte terne di consulenti fra loro collegate dal 1997 al 2005, che per quello che interessa il presente processo, erano composte dal c.d. "gruppo Florio" formato a sua volta da due terne, aventi entrambe a capo l’imputato Mario, titolare dello studio professionale, ed in una il S. ed una dipendente dello studio, A.M., e nell’altra i figli Mo. e F.S., e Sa.

G., (quest’ultima giudicata separatamente); vi erano, inoltre, il gruppo Saliceti, con a capo costui, cui partecipavano G. A., Ma.Ni., G.D., Fa.

R., e il Gruppo Ragazzoni, facente capo al R., unitosi a R.D., T.L., Z.M.; operavano anche altri 3 gruppi, i cui componenti hanno fatto diverse scelte processuali.

5. La Corte di Appello di Milano, con la sentenza oggi impugnata, condivideva l’impianto della decisione di prime cure: rilevava che la decisione era basata su una esatta analisi di dati documentali e delle dichiarazioni rese dagli stessi imputati e affermava la correttezza della qualificazione giudica dei fatti. Dichiarata la prescrizione in ordine ai reati di truffa e corruzione per gli episodi anteriori al 16 luglio 2003, riduceva le pene, per gli imputati interessati dalla pronuncia, confermando nel resto la sentenza.

2. Ricorrono i condannati: per comodità espositiva e per evitare inutili ripetizioni, stante anche la identità di questioni poste, si procederà alla disamina dei ricorsi con riferimento al c.d. Gruppo.

3. I F.:

i tre imputati F. e la A. contestano, sotto il profilo del vizio logico, che la motivazione sia esaustiva in punto di dolo:

con ampia disamina, osservano che l’errore della Corte è focalizzato nell’aver desunto la esistenza del patto associativo dalla operatività del meccanismo truffaldino, venendo così ad adottare un ragionamento meramente tautologico. I due fratelli F. e la A., in particolare, mettono in evidenza di non aver avuto rapporti con il S. e gli altri c.d. gruppi, sicchè non conoscevano la articolazione del sodalizio e non potevano perciò manifestare valida cosciente adesione. Ribadiscono, inoltre, che, comunque, il gruppo, per espressa volontà del M., cessò di essere operativo dal luglio 2003, data in cui fu depositato l’ultimo elaborato tecnico; la sentenza di appello ha, con travisamento della prova ed illogica e contraddittoria valutazione delle stessa, affermato che, invece, il c.d. gruppo ha mantenuto la qualità di associato fino al 2006, nonostante sia pacifica, oltre alla manifestata volontà di non avere più incarichi, anche la circostanza che il M. ne prese atto e formò altre terne, che li sostituirono. Da quel momento la mancanza di apporti concreti impedirebbe la confìgurabilità del fatto associativo. Sul punto, inoltre, viene formulato specifico motivo per la mancata audizione di due testi, le cui dichiarazioni, lungi dall’essere superflue, avrebbero dimostrato tale distacco. Il chiesto confronto con il S., anch’esso negato, non aveva lo scopo di contraddire le sue precedenti ammissioni, ma quello di metterne in evidenza la ambiguità delle accuse. F.M., ancora, sostiene che non si è in presenza di un fenomeno associativo, ma di un concorso di persone nel reato. In ogni caso, non è dimostrata la sua qualifica di organizzatore e non viene data risposta a tutte le sue notazioni circa la trasparenza dei comportamenti tenuti dal gruppo, che ne dimostrerebbe la buona fede. Viene messo in luce, per quanto riguarda la contestazione di truffa, che le consulenze, affidate secondo procedura, erano del tutto legittime e che essi professionisti, alle loro prima esperienza giudiziaria, non solo non potevano avvedersi dell’artificiosità dei quesiti, come del resto non se ne erano accorti gli stessi sostituti della Procura di (OMISSIS), ma avevano svolto in effetti indagini impegnative; il fatto che il programma utilizzato fosse comune ad altri non avrebbe alcuna influenza, non essendovi prova di uno specifico accordo per usarlo, quale mezzo operativo in dotazione alla associazione, e la serialità degli incarichi sarebbe stata sopravvalutata. Quanto all’accordo corruttivo, essi erano solo consapevoli del ed ritorno del 30 % per le ed spese di incarico ed al più avevano la convinzione che la percentuale fosse il compenso dell’intermediario S., e non già destinata al Procuratore Capo. Tutti e quattro gli imputati contestano, inoltre, che sia per la associazione che per i singoli episodi di truffa le spontanee dichiarazioni del V., in quanto non vertenti sui fatti oggetto delle imputazioni in esame, possano valere ad interrompere la prescrizione, che secondo il regime ante Cirielli, più favorevole, si sarebbe già verificata.

Particolarmente approfondito è infine il tema della confisca, che non poteva essere estesa alle fattispecie coperte da prescrizione, nè a tutto il percepito, dovendosi detrarre il 30% passato ad altri quale tangente. Inoltre rilevano che la confisca per equivalente presuppone la esatta individuazione della quota personale di profitto.

4. Il gruppo Ragazzoni.

R.R., titolare dell’omonimo studio professionale, ha ottenuto incarichi collegiali, cui a fatto fronte con terne composte oltre che da se stesso dal figlio D., dalla moglie T. L. da Z.M., odierni ricorrenti. a) Il R. propone temi che si riallacciano ai motivi di gravame ed ai quali non sarebbe stata data dalla Corte esaustiva risposta; deduce in linea generale che la motivazione è illogica, assiomatica e non terrebbe conto dei criteri valutativi indicati dall’art. 192 c.p.p.; in primo luogo, non sarebbe utilizzabile la prova costituita dalle dichiarazioni accusatorie del S., la cui chiamata è priva di valenza logica e di riscontri; contesta che la associazione sia ravvisabile nella ed serialità degli incarichi, essendo più corretta definizione di incarichi plurimi e, dunque, penalmente non rilevanti. Egli non poteva avere contezza del ruolo del Procuratore M., e quindi difetterebbe la consapevolezza della sussistenza di un accordo criminoso fra costui e i professionisti. Nè tantomeno le consulenze hanno carattere di inutilità, posto che nella assenza di una disciplina normativa che regoli gli affidamenti, egli non era in condizione certo di valutarne la anomalia, specie considerando che il quesito posto era quello ricorrente ed usuale per l’accertamento dei reati fiscali e/o societari.

Irrilevante sarebbe l’argomento della vigenza del condono fiscale, cui le società valutate avrebbero aderito, poichè il dato non era conoscibile dai consulenti e quindi essi non potevano valutare la inutilità, ai fini dell’azione penale, degli elaborati. Ne deriverebbe la insussistenza del reato associativo, per difetto di un programma, comune, per la illogicità stessa di una simile associazione, che rischiava di essere facilmente scoperta, dato il coinvolgimento di molte persone, per la non conoscenza, fra loro, dei concorrenti, per essere il M. l’unico fulcro decisionale, sicchè nei correi difettava del tutta coscienza di realizzare un programma condiviso.

Medesimo difetto di consapevolezza viene messo in evidenza per quanto riguarda il delitto di corruzione: al di là delle asserzioni del S., non vi sarebbe prova della destinazione al corrotto del ed ritorno ed è meramente tautologico derivare dalla entità dello stesso la consapevolezza che non si trattasse di un rimborso spese in nero per il procacciatore, ma un vero e proprio compenso del corrotto. E’ enunciata, ancora, la incompatibilità tra corruzione e truffa, giacchè la Corte non ha centrato il punto che le truffe sono state ideate e consentite dallo stesso corrotto e, quindi, non vi era necessità di dare denaro per avere l’incarico, ma anzi vi era l’accordo preventivo di spartire il provento del delitto ex art. 640 c.p.; la Corte non avrebbe motivato sulla insanabile contraddizione tra l’essere il M. partecipe di ogni singola truffa ed al tempo stesso corrotto per la detta condotta; la sua attività potrebbe, invece, rientrare in quella punita dall’art. 323 c.p..

Con altro motivo, il ricorrente nega la configurabilità della truffa, per la mancata indicazione degli artifici e raggiri che egli avrebbe compiuto, avendo egli al più di fronte ad un incarico legittimo soggiaciuto alla costrizione di pagare una percentuale. b) R.D., T.L. e Z.M. propongono distinti ricorsi che per la sovrapponibilità delle questioni poste possono essere esaminati congiuntamente. Innanzi tutto i ricorrenti insistono affinchè sia dichiarata la nullità della ordinanza che ha negato le riapertura dell’istruzione dibattimentale per l’espletamento di perizia al fine di verificare la reale utilità degli elaborati.

Con il secondo motivo, è denunciato l’evidente contrasto tra la motivazione e le emergenze probatorie, specie per quanto riguarda la valutazione del comportamento processuale degli imputati, valutati indistintamente, senza necessaria visione della loro peculiarità; le prove dichiarative non avrebbero riscontri individualizzanti, mentre la condanna è basata solo sulla inutilità oggettiva delle consulenze e sulla incidenza del condono fiscale; l’individuazione dei meccanismi truffaldini sono desunte dalle posizioni di altri coimputati, non presenti nel giudizio, difettando la prova della specifica consapevolezza degli stessi in capo a ciascuno degli odierni ricorrenti. Inoltre, essi non avevano alcuna disponibilità del conto ove erano versati i compensi e perciò è inconferente che la consapevolezza che lo scopo delle consulenze fosse solo quello della percezione di laute liquidazioni.

5. H.M..

Il ricorrente deduce il difetto di prova in ordine alla sua consapevolezza, non risultando da alcun elemento che egli fosse a conoscenza della natura illecita del denaro del M., che ha provveduta a riciclare, investendolo in (OMISSIS).

Al riguardo lamento che gli è stato inibito il diritto alla prova ed alla difesa, non essendo stata ammessa la richiesta di audizione dei coniugi M., nè in sede di ammissione all’abbreviato, che è stato accettato nella forma non condizionata, nè innanzi alla corte di merito, ove era stata avanzata domanda di riapertura dell’istruttoria.

Motivi della decisione

I ricorsi sono da dichiarare inammissibili, con le consequenziali statuizioni in tema di spese ed ammenda in favore della cassa.

Verranno esaminati congiuntamente, con le dovute differenziazioni, i ricorsi degli imputati F.M., Fl.Mo., F. S., A.M., R.R., R. D., T.L., Z.M., che presentano molti punti di contatto, e ciò al fine di evitare ripetizioni.

In punto di partecipazione personale ai fatti ed individuazione, in capo a ciascuno dei ricorrenti, della consapevolezza di compiere, mediante l’espletamento di inutili quanto ripetitive consulenze, una truffa organizzata, e di appartenere appunto al sodalizio che ne consentiva la realizzazione, con contestuale conferimento di un ed ritorno corruttivo a favore di che aveva ideato e promosso il meccanismo, ossia il M., è infatti da rilevare che tutti gli imputati, sia del gruppo ed F. che del gruppo R., sotto la veste della violazione di legge e della manifesta illogicità e mancanza di adeguata spiegazione, propongono una rivisitazione riduttiva – a loro favore – della vicenda, che impinge nei noti limiti del giudizio di legittimità. E’ pacifico, i che ai sensi del disposto dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicchè dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che detto testo è manifestamente carente di motivazione e/o di logica e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, degli atti processuali (Cass., Sez. un., 19 giugno 1996, De Francesco).

Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione da parte del ricorrente di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenuta più adeguata (Cass., Sez. un., 2 luglio 1997, Dessimone) (da ultimo, Cass., Sez. 17 febbraio 2003, parte civile Spinelli in proc. Vitella ed altro).

Non va del resto dimenticato che, nel momento del controllo della motivazione, la Corte di Cassazione non deve (nè può) stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una "plausibile opinabilità di apprezzamento". Ciò in quanto l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non consente al giudice di legittimità, come già evidenziato, una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perchè è estraneo al giudizio di Cassazione il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (da ultimo, Cass., Sez. 5^, 14 maggio 2003, Pomposi), ed essendo piuttosto consentito solo l’apprezzamento sulla logicità della motivazione, quale desumibile dalla lettura del testo del provvedimento impugnato.

In una tale prospettiva, la decisione gravata sfugge a qualsivoglia censura di illogicità, non palesandosi, in particolare, alcun passaggio ex se contraddittorio o alcun elemento di prova che si presenti slegato o non coordinato rispetto agli altri ovvero disancorato dal contesto complessivo. Cosicchè le doglianze del ricorrenti relative alla valutazione compiuta dai giudici di merito riguardo all’esistenza dell’elemento soggettivo non possono trovare accoglimento, perchè presupporrebbero una rinnovazione complessiva di tutto il materiale probatorio, qui non consentita.

Va al riguardo rilevato che mentre i ricorrenti ripropongono le stesse censure mosse in prime cure, non confrontandosi sostanzialmente con le risposte fornite dalla corte di appello, il giudice distrettuale ha operato una ponderata valutazione dei dati e li ha coordinati, mettendo in evidenza per quanto riguarda la complessiva vicenda:

a) la sicura esistenza del reato di truffa, caratterizzato dall’essere le consulenze del tutto ripetitive, " inutili" in quanto limitate ad acquisizioni di dati, facilmente leggibili e non riservati, quindi acquisibili con una normale attività investigativa, dai risultati pressocchè sovrapponibili, dato l’uso di un software comune, predisposto per elaborare risposte standardizzate, e soprattutto meramente esplorative, cioè non originate da alcuna notizia di reato. b) tali elementi, indicativi della artificiosità del quesito, cui i ct del PM erano chiamati a rispondere, con relazione scritta, trovavano nella modalità di espletamento dell’incarico, affidato a terna collegiale e con raddoppio del compenso, una conferma dell’indirizzo penalmente rilevante dato alla attività dei professionisti, i quali, come tali, erano ben consapevoli della facilità intrinseca del lavoro affidato e della sua parvenza di "difficoltà" creata artatamente con il quesito e la creazione delle terne; ne era riprova che alle stesse partecipavano soggetti non qualificati, perchè non laureati o non esperti, all’evidente fine di completare in senso solo numerico uno staff operativo altrimenti non giustificabile;

c) la sicura conoscenza del meccanismo truffaldino, oltre che dalle modalità, era ravvisabile in capo a tutti i soggetti, dalla loro conoscenza della esistenza di intermediari o procacciatori delle consulenze, di per sè significativi di un agire fuori degli schemi procedurali propri delle consulenze, dalla osservazione della estensione indiscriminata delle ricerche demandate a tutti i soggetti economici esistenti nel circondario, dalla esistenza, contestuale agli accertamenti, del provvedimento di condono fiscale, che di fatto annullava la ragione dell’indagine, sicchè, anche in relazione alla categoria professionale di appartenenza dei consulenti, era da escludere anche il dubbio sulla liceità del loro operato. d) Tutti gli imputati erano poi collegati fra loro dal vicolo associativo, dato che ciascuno conosceva dell’esistenza della organizzazione del lavoro in terne, suddivise fra vari studi professionali, ognuno di essi aveva accesso al medesimo comune software, che uniformava le consulenze e le facilitava, ciascuno era consapevole della esistenza di intermediari, il S. ed il V., e sopratutto della utilità economica derivante dalle inutili consulenze non solo per sè, ma anche per i mediatori ed il M., cui veniva versato il ed ritorno del 30%. In particolare, ha indicato, per le singole posizioni, i fatti, i comportamenti e le ammissioni provenienti dagli stessi imputati, che rendevano in fatto inoppugnabile la loro consapevolezza del patto corruttivo, la dazione del compenso, e la certezza che ciascuno aveva che mediante tale versamento si mantenesse in piedi la lucrosa organizzazione.

Tale iter argomentativo, che non presenta falle o salti logici, e che è basato su dati di fatto, emergenti dalla compiuta istruttoria dibattimentale, risponde adeguatamente agli indicati criteri di controllo della motivazione, giacchè coglie gli elementi centrali e decisivi delle fattispecie contestate, rispondendo peraltro a tutte le contrarie notazioni mosse dagli imputati. In particolare, è logico che abbia reputato la non decisività della tesi avanzata dal F. e dal R., sulla loro incompetenza in materia processuale, determinata da vaghezza delle procedure e confortata dalla mancanza di rilievi da parte dei sostituti della Procura di Pinerolo. Premesso che tale ultima osservazione è smentita dalla pronuncia di merito, risultando al contrario, che l’operato disinvolto ed eccentrico del capo della Procura era stato oggetto di attenzione sia da parte dei sottoposti che dei vertici della GGFF, normalmente soggetti preposti ai controlli fiscali, non è chi non veda come la buona fede dei consulenti è un dato personale, che non può essere certo desunto dalla insipienza di altri, come in pratica si sostiene nei ricorsi; nè il rilievo sui procedimenti e sulla discrezionalità degli incarichi attiene al tema in esame, posto che i dati centrali (ripetitività degli incarichi, eccessiva locupletazione, trasferimento di una quota per le tangenti) non restano scalfiti dal fatto che gli associati si siano insinuati, sfruttandola, in una delle possibilità del sistema investigativo, rimessa all’impulso dell’inquirente.

In particolare, poi, non possono trovare ingresso i motivi concernenti la inattendibilità del S., che ha reso ampia ammissione dei fatti ed ha chiarito tutti gli aspetti della vicenda, coinvolgendo i partecipanti; le argomentazioni, su cui si è diffuso R.R. implicano non già valutazioni in diritto sulla chiamata in correità, ma una rivisitazione dei fatti, peraltro prospettata in forma dubitativa, senza un reale confronto con le motivazioni adottate. La corte, al riguardo, oltre che riportarsi all’impianto motivazionale del primo giudice, che ha condiviso, ha sottolineato la assenza di elementi, da cui desumere la falsità delle accuse per astio o animosità e la pluralità di riscontri obbiettivi e logici al narrato del S., così soddisfacendo all’obbligo motivazionale su di essa gravante.

Nè le considerazioni sulla ampiezza della organizzazione, e quindi la inconciliabilità logica di un comportamento criminale così palese con la riservatezza necessaria ad evitare di essere scoperti, è argomento che possa introdursi innanzi questa corte, così come i susseguenti sviluppati dal R.D., dalla T. e dalla Z., in ordine al loro mancato maneggio del denaro, che non esclude i reati ascritti, non incidendo sulla condotta, ma sulle modalità di accredito dei compensi.

Non ha carattere di decisività la eventuale impossibilità per i consulenti di conoscere se le società controllate avessero in concreto o meno aderito al condono, poichè il punto centrato dalla corte riguarda la operatività oggettiva di una sanatoria, che per competenza professionale era o doveva essere conosciuta agli imputati e, quindi, ancor meno rendeva plausibile la loro tesi di un approccio alle consulenza in piena buona fede.

E’ appena il caso di rilevare, poi, che il ricorrente R. non ha motivo di dolersi per la mancata riapertura della istruzione dibattimentale, sollecitata al fine di accertare tramite perizia la utilità o meno delle consulenza affidate dal Procuratore M.. E1 consolidato principio di questa Corte ritenere che la mancata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio d’appello può costituire violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), solo nel caso di prove sopravvenute o scoperte dopo la sentenza di primo grado (art. 603 c.p.p., comma 2) (Sez. 5, del 8 maggio 2008, n. 34643, P.G. e De Carlo e altri, Rv. 240995), mentre l’error in procedendo è rilevante ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), e configurabile soltanto quando la prova richiesta e non ammessa, confrontata con le motivazioni addotte a sostegno della sentenza impugnata, risulti decisiva, cioè tale che, se esperita, avrebbe potuto determinare una decisione diversa; la valutazione in ordine alla decisività della prova deve essere compiuta accertando se i fatti indicati dalla parte nella relativa richiesta fossero tali da poter inficiare le argomentazioni poste a base del convincimento del giudice di merito (ex plurimis, Cass., Sez. 4, 14 marzo 2008, n. 23505, Di Dio, rv. 240839). Tanto basta per rilevare la inammissibilità della richiesta, che la corte ha ritenuto superflua in relazione alle acquisizioni, ed alle considerazioni svolte sulle stesse, senza dire che la perizia di per sè non è mezzo di prova e che è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, quando abbia bisogno di avvalersi di specifici accertamenti tecnici, nella specie esclusi di per sè nella richiesta, non indirizzata alla verifica di dati tecnici, quanto alla decisione sulla rilevanza penale o meno dei comportamenti adottati dagli imputati.

Venendo, poi, alla asserita impossibilità df configurare il concorso tra le truffe e la corruzione, non sono state apportati nei ricorsi argomenti che contrastino I’ esatto postulato, indicato dal giudice distrettuale, sulla impossibilità di assorbimento della corruzione nella truffa, secondo i principi del reato complesso e del concorso di norme.

E’ stato affermato, infatti, dalla giurisprudenza di questa corte, che è configurabile il concorso materiale tra il reato di corruzione ed il reato di truffa in danno dello Stato in quanto l’accordo corruttivo non può integrare l’induzione in errore nei confronti del pubblico ufficiale che partecipa all’accordo, ma può ben indurre in errore gli altri funzionari dell’ente pubblico ed in particolare gli organi di controllo. (in termini Sez. 1, Sentenza n. 10371 del 08/07/1995 Ud. (dep. 18/10/1995) Rv. 202738).

La Corte bene ha messo in evidenza tale punto scriminante, sottolineando che la condotta truffaldina è stata realizzata ai danni dell’ufficio pagatore dei compensi, mentre nella corruzione la volontà delle parti convergeva sull’accordo corruttivo, che consentiva l’innesco del meccanismo del delitto contro il patrimonio.

Parimenti, non ha fondamento la eccepita inconciliabilità del concorso tra la corruzione e la associazione; vale ribadire, come peraltro fatto dai giudici di merito, che anche nel caso di corruzione, è ipotizzatane l’esistenza del vincolo associativo di cui all’art. 416 c.p., tra corruttore e corrotto. Detto vincolo, peraltro, sortisce l’effetto di rafforzare il "pactum sceleris", nonchè la stessa struttura della organizzazione delinquenziale, attraverso un più stretto ed ancor più compromettente collegamento interpersonale. ( Sez. 2, Sentenza n. 6240 del 10/12/1999 Cc. (dep. 07/01/2000 ) e da ultimo Sez. 6, Sentenza n. 10032 del 03/02/2010 Rv.

215672 ). Il tema, peraltro solo cennato, dai ricorrenti si è risolto nella invocazione del concorso di persone nel reato, che per quanto sopra esposto in ordine alla consapevolezza dell’accordo delinquenziale ed alla ravvisabilità di un organismo indirizzato alla truffa ed alla corruzione, è del tutto inammissibile riconoscere, se non previa diversa valutazione degli elementi di fatto.

In ultimo è da esaminare il motivo, comune alle posizioni dei F. e della A., concernente la cessazione della loro attività criminosa, con la conseguente estinzione del delitto di associazione a delinquere per prescrizione e la erroneità consequenziale della disposta confisca.

E1 in primo luogo da escludere che il c.d. gruppo Florio sia stato coinvolto in fatti associativi successivamente al 2003 e fino al 2006, come ritenuto nella sentenza della corte. E1 incontestabile che costoro non fecero più parte delle persone incaricate di svolgere accertamenti a seguito di contrasti insorti tra il loro capogruppo ed il M., che comportò il subingresso nella associazione del gruppo Ragazzoni e da parte loro la esecuzione degli accertamenti in corso e la riscossione dei soli ultimi emolumenti, ad esso relativi;

la stessa corte ne da atto, tant’è che nella pronuncia esplicitamente afferma che il rapporto fini per volontà del Procuratore a causa di atteggiamenti personali e che l’ultimo versamento di compensi è avvenuto nel settembre 2003.

Ora è da respingere che il rapporto associativo si sia prolungato tra tutti gli imputati oltre la detta data, posto che l’elemento costitutivo della associazione, che deve sostenere l’animus dei partecipanti per qualificarne la condotta, è la volontà di attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori dell’effettiva commissione dei singoli reati programmati, Nel caso dei F. e della A. si è invece in presenza di un atto contrario, un recesso accettato, peraltro, dagli altri consorti, che ha spezzato la affectio societatis e determinato per loro la cessazione della condotta partecipativa. Ciò posto, tuttavia non possono certo trarne le conseguenze invocate dai ricorrenti;

infatti, il termine prescrizionale, che è da individuare in quello previsto dagli artt. 157 e 161 c.p., nella nuova formulazione, più favorevole, introdotta dalla L. n. 251 del 2005, in forza della norma transitoria di cui all’art. 10, comma 3, nella lettura datane dalla corte costituzionale, è pari per F.M., cui, per la ritenuta aggravante, si applica la pena prevista dal comma dell’art. 416 c.p., ad anni sette, da prorogare di un quarto, per un totale di anni 8 mesi otto. Ciò importa che il reato si può estinguere solo a far data dal maggio 2012 (settembre 2003 data di inizio del decorso della prescrizione).

Per gli altri due F.S. e Mo., e la A., cui è stata contestata la sola partecipazione, punita nel massimo con sei anni di reclusione, à sensi dell’art. 416 c.p., comma 2, il termine massimo è di sette anni e mesi e la estinzione è avvenuta nel marzo del 2011, dopo la pronuncia della sentenza di appello.

Non ha invero alcun pregio la tesi, sostenuta anche in questa sede e rigettata in appello, che non fossero intervenuti validi atti interruttivi prima della iscrizione nel registro degli indagati avvenuta nel 2009, quando la prescrizione si era già verificata l’anno precedente. La Corte, con ampia motivazione, ha fatto rilevare che il 19 novembre 2005 il coimputato V.D. aveva reso ampie ammissioni sugli odierni fatti di reato, e che, contrariamente a quanto sostenuto dalla allora appellante, le sue propalazioni non erano affatto limitate ad una vicenda non collegata al sistema organizzato delle consulenze, cui anzi costui aveva fatto ampio riferimento.

La contestazione, su cui è centrata la doglianza anche in questa sede, verte appunto sulla non ravvisabilità di un legame tra il fatto narrato dal coimputato, concernente dei favoritismi per l’acquisto di una vettura da parte del M., alla intera vicenda, ma tale asserzione trova smentita nel verbale dell’esame del V., che la A. ha allegato al ricorso, in virtù del principio dell’auto sufficienza dell’impugnazione. In esso, infatti, il V. fa specifico riferimento alle consulenze ed in particolare, come già messo in rilievo dai giudici di merito, alla necessità, sentita dal M., di appurare dagli altri compartecipi, una volta che la vicenda era finita sui quotidiani ed erano state avviate le indagini, quale fosse l’origine della inchiesta, e delle conseguenti riunioni avvenute tra i protagonisti del malaffare. La logica deduzione che i giudici di merito ne hanno tratto, e cioè che oggetto dell’interrogatorio sia state le contestazioni sulla attività svolte sotto forma di consulenza, e che dunque l’atto avesse valenza interruttiva non può che essere condivisa, in applicazione del principio che anche la presentazione spontanea ex art. 374 c.p.p., e le dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria equivalgono "ad ogni effetto" all’interrogatorio – dunque anche ai fini dell’interruzione della prescrizione – ex art. 374 c.p.p., comma 2, o quando vi sia stata una contestazione chiara e precisa del fatto addebitato, come nella specie avvenuto.

Anche ammettendo che F.M. non abbia avuto alcun ruolo di capo, come da costui invero genericamente contestato, ed in conseguenza che si debba fare applicazione di un termine inferiore, è in ogni caso da fare applicazione per tutti e quattro i ricorrenti del pacifico e costantemente riaffermato principio secondo cui la inammissibilità della impugnazione proposta non consente il maturarsi del termine prescrizionale ad esso successivo posto che non consente il valido formarsi del rapporto di impugnazione. (così in termini Cass. sez. 1^ n. 24688 del 2008, Sezjoni Unite N. 23428 del 2005 fra le tante).

E’ infine manifestamente infondato il motivo relativo alla confisca, che è stato proposto solo dai nominati ricorrenti.

Vale osservare che la corte ha dichiarato la prescrizione dei reati di corruzione e truffa, ed ha ridotto le pene ed ha esplicitamente confermato nel resto la sentenza, ivi comprendendo in tale ampia formula anche le statuizioni relative alla misura ablatoria.

E’ di tutta evidenza che, nello specifico, detta "parziale"conferma, nei confronti dei F. e della A., esclusi i due delitti di cui sopra, ha comportato la applicazione della misura ordinaria ex art. 240 c.p., in relazione alla residua condanna per associazione a delinquere; detta pronuncia, sia pure espressa non felicemente in motivazione, mediante il richiamo alla detta norma ed ad un principio giurisprudenziale che non si attagliava strettamente alla fattispecie, ma che comunque manifestava la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del residuo potere ablativo, fa sì che da un lato il dictum diretto alla acquisizione dei beni degli imputati sia stato riaffermato e dall’altro che in concreto non sia stato oggetto di impugnazione, in quanto quest’ultima è stata focalizzata solo su quella conseguente ai due reati prescritti, senza considerare il rilevato ulteriore profilo della misura disposta in via ordinaria.

E’ manifestamente infondata, poi, la eccepita non confiscabilità di tutto l’intero importo delle parcelle liquidate dalla consulenza, per essere stata una percentuale delle stesse corrisposta al corrotto:

invero, il profitto dal reato, soggetto alla misura ablativa, comprende, come correttamente osservato dalle sentenze di merito, ciò che è immediata conseguenza economica dell’azione criminosa; la nozione di utile netto, oggetto di confisca, che la ricorrente A. invoca si riferisce, e logicamente non potrebbe essere altrimenti, al profitto conseguente alla corruzione, depurato dei costi di natura lecita, che eventualmente il corruttore abbia sopportato (si pensi ad esempio a quelli affrontati per la realizzazione di appalti e di opere, del tutto leciti, ma acquisiti grazie al patto corruttivo): la deduzione della ricorrente richiama la giurisprudenza di questa corte nel caso in cui la corruzione abbia consentito la acquisizione di contratti, appalti e commesse, la cui esecuzione è comunque lecita e quindi si impone ai fini della confisca la distinzione fra tra il profitto direttamente derivato dall’illecito penale dal corrispettivo conseguito per l’effettiva e corretta erogazione delle prestazioni svolte in favore della PA, le quali non possono considerarsi automaticamente illecite in ragione dell’illiceità della causa remota. Ma tale fattispecie è del tutto diversa da quella in esame, posto che per quanto fin qui detto in ordine al reato di truffa, la esecuzione della prestazione è di per sè attinta da illeceità.

Anche il ricorso di H.M. introduce questioni di fatto non sottoponibili al vaglio di questa corte.

Vale ribadire che l’elemento soggettivo del delitto di riciclaggio è integrato dal dolo generico che consiste nella coscienza e volontà di ostacolare l’accertamento della provenienza dei beni, del denaro e di altre utilità, senza alcun riferimento a scopi di profitto o di lucro.

Pertanto, del tutto correttamente i giudici d’appello hanno ritenuto sussistente il dolo, desumendo la consapevolezza circa la provenienza delittuosa del denaro dalle circostanze concrete dell’azione. In particolare, la sentenza impugnata ha ritenuto provata la consapevolezza dell’illecita provenienza sulla base di una serie di circostanze di fatto, che fra loro coordinate individuavano come la azione dell’imputato fosse del tutto centrata sulla necessità di sottrarre il denaro, illecitamente accumulato dal M., trasferendolo nello stato estero e facendone così perdere le tracce.

I giudici di merito hanno, con ampia motivazione che l’ H. non ha peraltro nemmeno specificatamente contestato, che costui avesse una amicizia con il procuratore, risalente nel tempo e collegata a reciproci favori, che ne costui conoscesse le abitudini disinvolte tenute nelle relazioni sociali ed economiche con terzi, contrarie ai doveri di riservatezza e trasparenza della sua funzione, che il trasferimento del denaro, per le sue modalità, fiduciarie, nonostante che la somma fosse elevata, era sintomatico di un poreventivo accordo per ottenere il riciclaggio della somma; ne ha desunto che l’imputato avesse piena conoscenza della provenienza illecita delittuosa del denaro, con una motivazione che, in quanto logica e coerente, non può essere contestata in sede di legittimità.

Nè può dolersi in questa sede il ricorrente della mancata riapertura della istruttoria dibattimentale; si tratta di una doglianza meramente ripetitiva di quella enunciata nel grado di appello, rispetto alla quale la corte ha dato una adeguata risposta.

Rammentato che il giudizio si era svolto con il rito abbreviato, la corte ha posto l’accento sulla non "necessarietà" dell’indagine sollecitata e tale enunciazione di esistenza di un quadro probatorio definito e non abbisognevole di integrazione è, in quanto frutto di una adeguata valutazione di merito, del tutto insindacabile nel giudizio di legittimità.

In conclusione, i ricorsi sono da dichiarare inammissibili e i ricorrenti sono da condannare al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro milite ciascuno a favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille ciascuno a favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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