Cass. civ. Sez. III, Sent., 18-04-2012, n. 6055 Prelazione e riscatto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- B.M.M.B., con atto notificato il 5/7 agosto 2003, citò in giudizio, dinanzi al Tribunale di Venezia, l’Istituto di Previdenza per il Settore Marittimo (I.P.SE.MA.) per sentire dichiarare il suo diritto di rendersi acquirente dell’immobile sito in (OMISSIS), meglio identificato in atti, di proprietà dell’Istituto, ai sensi del D.Lgs. 16 febbraio 1996, n. 104, art. 6, comma 2, lett. a) e dichiarare conseguentemente l’obbligo dell’Istituto di prestarsi alle relative formalità contrattuali; in difetto, pronunciare sentenza ex art. 2932 cod. civ.; accertare e dichiarare, comunque, l’illegittimità dei ritardi frapposti all’esercizio del diritto di opzione e condannarsi l’Istituto al risarcimento dei danni relativi; in via subordinata, in caso di compromissione del diritto di opzione o di aggravio di questo in conseguenza dei ritardi dell’Istituto, condannare quest’ultimo al risarcimento dei danni relativi.

Si costituì in giudizio l’I.P.SE.MA. e negò che l’attore rivestisse la qualità di conduttore, essendo il contratto scaduto nel 1998;

oppose comunque che l’alloggio doveva considerarsi di pregio, rientrando tra gli immobili indicati al D.Lgs. n. 104 del 1996, artt. 1 e 2, le cui dismissioni erano oramai disciplinate dal D.L. n. 351 del 2001, come convertito dalla L. n. 410 del 2001. In via riconvenzionale chiese la condanna dell’attore al risarcimento dei danni per occupazione illegittima.

2.- Il Tribunale di Venezia, con sentenza del 31 marzo 2006, rigettò sia le domande dell’attore che la domanda riconvenzionale dell’Istituto, condannando l’attore al pagamento delle spese di ATP e di CTU, oltre alla refusione al convenuto di H di quelle di lite, compensate per la rimanente quota.

3.- Proposto appello da parte di B.M. e costituitosi l’appellato per resistere al gravame, la Corte d’Appello di Venezia, con sentenza del 9 ottobre 2009 n. 1167, rigettò l’appello, confermando la prima decisione e condannando l’appellante al pagamento delle spese del grado.

4.- Avverso la sentenza della Corte d’Appello propone ricorso per cassazione B.M.M.B., a mezzo di tre motivi, illustrati da memoria.

Si difende con controricorso l’Istituto di Previdenza per il Settore Marittimo (I.P.SE.MA.).

Motivi della decisione

Preliminarmente, va detto dell’eccezione di inammissibilità e/o inesistenza del ricorso sollevata dal resistente per violazione del disposto dell’art. 125 cod. proc. civ., come modificato dal D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella L. 22 febbraio 2010, n. 24, il cui comma 1 prescrive che il ricorso deve essere sottoscritto "dal difensore che indica il proprio codice fiscale". Deduce il resistente che il ricorso di controparte è stato notificato il 30 gennaio 2010 dopo l’entrata in vigore della norma richiamata e che l’atto è privo dell’indicazione del codice fiscale del difensore che l’ha sottoscritto (avv. Roberto Pea), nonchè dell’altro difensore, che peraltro non l’ha sottoscritto (avv. Enrico Dante). Il resistente conclude chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile per violazione degli artt. 125 e 365 cod. proc. civ. od, in subordine, che il vizio denunciato sia equiparato a quello di mancata sottoscrizione del ricorso e quindi il ricorso sia dichiarato inesistente, in applicazione del principio sancito dall’art. 161 cod. proc. civ., riconosciuto estensibile a tutti gli atti processuali L’eccezione va disattesa.

La previsione contenuta nell’art. 125 cod. proc. civ., comma 1, come modificato dal D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, comma 8, lett. a), convertito, con modificazioni, nella L. 22 febbraio 2010, n. 24, pur prescrivendo un requisito formale degli atti ivi indicati, tra cui anche il ricorso, non lo prevede a pena di nullità nè esso può essere reputato un requisito indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto (cfr. Cass. n. 24717/11).

Deve, inoltre, escludersi che la sanzione per la sua omissione sia l’inammissibilità prevista dall’art. 365 cod. proc. civ., ovvero la nullità prevista dall’art. 161 cod. proc. civ., comma 2, norme dettate per la mancanza di sottoscrizione, e la prima specificamente per la mancanza di sottoscrizione da parte di un avvocato iscritto nell’apposito albo, munito di procura speciale.

Poichè si tratta di sanzioni processuali esse non possono trovare applicazione se non nei casi espressamente previsti. L’indicazione del codice fiscale è un requisito formale che si aggiunge a quello della sottoscrizione, ma non sostituisce quest’ultima, nè assolve alla funzione della corretta instaurazione del rapporto processuale e della riferibilità dell’atto al suo autore, che è riservata appunto alla sottoscrizione: la relativa omissione non può comportare le medesime conseguenze che l’ordinamento prevede per la mancanza di sottoscrizione.

Poichè la nullità non è comminata dalla legge, nè dall’art. 125 cod. proc. civ., nè dall’art. 161 cod. proc. civ., l’omissione dell’indicazione del codice fiscale non comporta la nullità del ricorso; analogamente deve concludersi, quanto all’inammissibilità, non essendo tale sanzione espressamente prevista, men che meno dall’art. 365 cod. proc. civ., invocato dal resistente.

1.- Con il primo motivo del ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 104 del 1996, artt. 1, 6 e 15, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5, nonchè della L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 109, e del D.L. n. 79 del 1997, art. 7, nel testo modificato dalla L. n. 488 del 1999, art. 2, comma 2, nonchè del D.L. n. 351 del 2001, art. 3, commi 10, 11 e 13 (come convertito con la L. n. 410 del 2001) in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5. Il ricorrente critica la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che l’esercizio del diritto di prelazione di cui al D.Lgs. n. 104 del 1996, art. 6 sia impedito dal carattere "di pregio" del bene in questione.

Il ricorrente sostiene che detta affermazione non ha alcun riscontro normativo, considerato il tenore dell’art. 1 dello stesso D.lgs. e considerato che l’immobile concesso in locazione all’esponente sarebbe invece una normale casa di civile abitazione di categoria A/2, unità isolata in edificio frazionato e in condominio, che non si potrebbe fare rientrare tra i beni menzionati dall’art. 1.

Aggiunge che, restando la categoria catastale l’unico parametro da considerare ai fini della sua valutazione, l’unità abitativa avrebbe dovuto essere inserita nei successivi piani di alienazione e assoggettata alla disciplina dell’art. 6, comma 3, soltanto se rimasta inoptata; che, trattandosi di unità residua in edificio parzialmente alienato (art. 6, comma 1), avrebbe dovuto essere inserita prioritariamente nei piani di alienazione; che i beni invece indicati nell’art. 1 sarebbero stati assoggettati ad altra e diversa disciplina, di cui al D.L. n. 79 del 1997, art. 7; che le successive modificazioni ed integrazioni di quest’ultima norma (relative alle dismissioni straordinarie), poi recepite dal D.L. n. 351 del 2001, sarebbero potute venire in considerazione solo per i beni rimasti inoptati o invenduti e inseriti in successivi piani di alienazione secondo quanto disposto dal D.L. n. 351, art. 3, comma 11, che però non avrebbe potuto riguardare il bene in questione, poichè l’Ente non aveva mai avviato le relative procedure.

1.1.- Il motivo non è meritevole di accoglimento e la sentenza impugnata è conforme a diritto, sebbene la motivazione debba essere precisata secondo quanto appresso.

Il quadro normativo di riferimento è dato:

dalla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 3, comma 27, che ha delegato il governo ad emanare uno o più decreti legislativi volti a regolamentare le dismissioni del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali pubblici, nonchè gli investimenti degli stessi in campo immobiliare, sulla base dei principi e criteri direttivi fissati dalla legge delega;

dal D.lgs. 16 febbraio 1996, n. 104, emanato in attuazione della delega, il cui art. 1 ricomprende nell’ambito soggettivo di applicazione anche l’I.P.SE.MA. ed il cui art. 2 ha previsto una ricognizione del patrimonio immobiliare da realizzarsi dagli enti previdenziali proprietari, seguendo criteri e parametri omogenei fissati dal Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, sulla base della quale gli stessi enti avrebbero dovuto determinare i programmi di cessione del patrimonio immobiliare, secondo quanto disposto dallo stesso art. 2, comma 3; ai sensi di quest’ultima norma, lett. b) , nei programmi di cessione si sarebbe dovuta prevedere, tra l’altro, l’alienazione dei beni, con riferimento ai conduttori degli stessi e in applicazione dei criteri di cui all’art. 6; ai sensi di questo art. 6, i piani di alienazione avrebbero dovuto essere predisposti tenendo conto dei criteri ivi fissati per l’inserimento dei singoli immobili da alienare; quindi, i piani di alienazione avrebbero dovuto essere attuati secondo quanto stabilito dal successivo art. 7;

dal D.L. 28 marzo 1997, n. 79, art. 7, convertito nella L. 28 maggio 1997, n. 140, poi parzialmente modificato dalla L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 59, comma 26, e integrato dalla L. 23 dicembre 1999, n. 448, art. 2, che ha previsto -in aggiunta al piano ordinario di dismissione di cui al citato D.Lgs. n. 104 del 1996, art. 6 – un programma straordinario di dismissione dei beni e diritti immobiliari degli enti previdenziali pubblici di cui all’art. 1 di tale ultimo decreto legislativo; della articolata disciplina introdotta da tale norma è sufficiente ricordare la previsione per la quale i beni oggetto del programma straordinario di dismissione avrebbero dovuto essere individuati dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro del Tesoro, sulla base delle indicazioni fornite allo scopo dai predetti enti e quindi venduti sulla base di uno schema tipo di contratto di acquisto ed a condizioni ed a soggetti dettagliatamente indicati nella legge; si aggiunse successivamente la previsione di ulteriori programmi di dismissione di beni e diritti immobiliari degli enti previdenziali pubblici, disciplinati dai commi 2 ter – 2 novies dell’art. 7 citato, così modificato dalla L. n. 488 del 1999;

dal D.L. 25 settembre 2001, n. 351, art. 3, convertito nella L. 23 novembre 2001, n. 410, che ha previsto: a) al comma 10, che i beni immobili degli enti previdenziali pubblici ricompresi nei programmi straordinari di dismissione che non erano stati aggiudicati alla data del 31 ottobre 2001, sarebbero stati alienati con le modalità di cui allo stesso decreto; b) al comma 11, che i beni immobili degli enti previdenziali pubblici diversi da quelli di cui al comma 10 e che non erano stati aggiudicati alla data del 31 ottobre 2001 (esclusi i beni immobili ad uso prevalentemente strumentale), sarebbero stati alienati con le modalità di cui allo stesso decreto; c) al comma 20, una disciplina transitoria, che ha fatto salve le procedure già in corso sulla base della precedente normativa, alle condizioni di cui si dirà appresso.

1.2.- Orbene, nel caso di specie, non risulta affatto che l’Istituto di Previdenza per il Settore Marittimo abbia inserito l’immobile in contestazione in un programma di cessione predisposto ai sensi del D.Lgs. n. 104 del 1996, art. 2; nemmeno risulta che sia mai stato predisposto un programma di alienazione ai sensi dell’art. 6, comma 1, dello stesso decreto, che prevedesse l’alienazione appunto dell’unità abitativa occupata dall’odierno ricorrente: ciò, è tanto vero che quest’ultimo assume in ricorso (cfr. pag. 18) che essa sarebbe dovuta essere inserita prioritariamente nei piani di alienazione, con ciò presupponendo che un siffatto inserimento sia mancato; circostanza, che è confermata dalle deduzioni del ricorrente riguardo al mancato avvio da parte dell’Istituto della procedura di dismissione di cui al citato decreto legislativo, con riferimento appunto all’unità abitativa da lui condotta in locazione.

Quanto al D.L. n. 79 del 1997, art. 7, convertito con modificazioni nella L. n. 140 del 1997, l’ambito di applicazione della normativa non è quello, sostenuto in ricorso, relativo ad immobili non venduti ai sensi del Decreto n. 104 del 1996, art. 1, comma 3 (perchè oggetto di investimento di quote di riserve a garanzia degli obblighi di prestazione dell’ente); esso, invece, prevedeva il possibile inserimento di tutti gli immobili non venduti ai sensi del Decreto n. 104, in un programma straordinario di dismissione, nei limiti e secondo le modalità, cui sopra si è fatto cenno. L’immobile occupato dal B.M. non è stato compreso in un siffatto programma.

Piuttosto, l’unità abitativa per cui è controversia è stata presa in considerazione, ai fini del trasferimento alla società di cartolarizzazione all’uopo costituita, soltanto dopo l’emanazione del decreto legge n. 351 del 2001, convertito con modificazioni nella L. n. 410 del 2001.

L’art. 3, comma 11, di quest’ultimo, prevedeva, come detto, che i beni immobili degli enti previdenziali pubblici diversi da quelli ricompresi nei programmi straordinari di dismissione e che non fossero stati venduti alla data del 31 ottobre 2001, sarebbero stati alienati con le modalità previste appunto dal D.L. n. 351 del 2001, come convertito nella L. n. 410 del 2001.

Tale previsione risulta applicabile al caso di specie e, di fatto, è stata applicata.

In particolare, risulta dagli atti che in applicazione della normativa fissata dal D.L. n. 351 del 2001, art. 3 conv. nella L. n. 410 del 2001, sopra riassunta, dopo individuazione con decreto dirigenziale dell’Agenzia del Demanio, ed a seguito dell’emanazione del decreto ministeriale attuativo dell’art. 3 citato, l’immobile di (OMISSIS) di proprietà dell’I.P.SE.MA. in Venezia venne trasferito alla società di cartolarizzazione S.C.I.P. – Società cartolarizzazione immobili pubblici s.r.l., costituita ai sensi del citato D.L. n. 351, art. 2 e che il prezzo di vendita dell’unità immobiliare venne determinato ai sensi del comma 9 del menzionato art. 3; risulta altresì che il Ministro dell’Economia e delle Finanze con decreto ministeriale del 1 aprile 2003 incluse l’unità immobiliare in questione tra gli immobili di pregio ai sensi del comma 13 dello stesso art. 3.

Il ricorrente ha contestato e, come si dirà, ha chiesto la disapplicazione di tale ultimo decreto; ha rivendicato il proprio diritto di prelazione dell’immobile alle condizioni previste dal decreto legislativo n. 104 del 1996: ha insistito ritenendo l’art. 6 di tale normativa direttamente applicabile nei suoi confronti; quanto alla disciplina di cui al D.L. n. 351 del 2001, art. 3, comma 20, sopravvenuto prima dell’introduzione del presente giudizio (effettuata con atto di citazione del 5 agosto 2003), la sua applicazione non risulta direttamente invocata dal ricorrente, sebbene questi affermi in ricorso di avere manifestato – con lettera raccomandata della quale però non indica la data (che pure sarebbe stata rilevante solo se anteriore al 31 ottobre 2001, ai sensi del menzionato articolo di legge, ove ritenuto applicabile al caso di specie), ma riporta il contenuto (pagg. 5-6 del ricorso)- la sua volontà di acquistare l’unità abitativa avvalendosi del diritto di prelazione di cui al D.Lgs. n. 104 del 1996, art. 6, comma 5. 1.3.- Dati il quadro normativo di riferimento e la situazione in concreto delineata da ricorso e controricorso, si traggono le conclusioni di cui appresso.

Quanto all’invocata applicabilità diretta del D.Lgs. n. 104 del 1996, art. 6, il mancato avvio della procedura di dismissione prevista dal decreto legislativo, con riguardo all’unità immobiliare in contestazione, comporta che non sia mai sorto il diritto di prelazione di cui al comma 5 in capo al soggetto che lo conduceva in locazione, malgrado, in ipotesi, questo si sia trovato nelle condizioni per le quali l’avrebbe potuto esercitare, se detta procedura fosse stata avviata dall’ente previdenziale.

Ed, invero, il presupposto logico-giuridico della pretesa del ricorrente è che la sola emanazione del D.Lgs. n. 104 del 1996, abbia comportato per gli enti previdenziali previsti dall’art. 1, comma 1, tra cui l’I.P.SE.MA., un obbligo di provvedere alla dismissione del proprio patrimonio immobiliare, specificamente di tutti i beni immobili di loro proprietà che non rientrassero nelle esclusioni di cui ai commi 2 e 3 dello stesso art. 1. Tale assunto non è conforme a legge.

In proposito, giova richiamare l’orientamento interpretativo di questa Corte, secondo cui "il diritto di prelazione dei conduttori di immobili appartenenti ad enti previdenziali, riconosciuto dal D.Lgs. 16 febbraio 1996, n. 104, è esercitabile esclusivamente quando l’ente abbia validamente ed adeguatamente manifestato la specifica volontà di porre in vendita gli immobili, in attuazione del dettato normativo, attraverso una specifica proposta di alienazione, consistente in una determinazione negoziale dell’Ente di cedere l’immobile; ne consegue che non può configurarsi un obbligo di dismettere il patrimonio immobiliare di tali enti discendente direttamente dalla legge che si configuri come una peculiare offerta pubblica imposta dal legislatore, in quanto tale prospettazione si porrebbe in insanabile contrasto con la disciplina del procedimento di alienazione e stravolgerebbe la natura giuridica degli atti di dismissione, trasformandoli in anomale e sistematiche procedure ablative" (così, da ultimo, Cass. n. 21988/11, nonchè, nello stesso senso, ma con riferimento alla diversa disciplina delineata dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 109, Cass. n. 13560/08).

Ritiene il Collegio che il richiamato principio debba trovare applicazione nel caso di specie, sebbene s’impongano le precisazioni di cui appresso, necessarie al fine di coordinare il principio stesso con la disciplina transitoria introdotta dal già menzionato del D.L. n. 351 del 2001, art. 3, comma 20.

Va confermata l’interpretazione per la quale è da escludere che la previsione normativa delle procedure di dismissione e l’astratta idoneità di un immobile ad essere compreso nei piani di alienazione di cui all’art. 6 del decreto n. 104 fossero gli unici presupposti normativi per l’insorgenza del diritto di prelazione in capo ai conduttori, ai sensi del comma 5 dell’art. 6, malgrado si trovassero nelle condizioni astrattamente idonee al relativo esercizio. Questo, in tanto sarebbe potuto venire ad esistenza in quanto, in concreto, l’immobile rispetto al quale i conduttori avessero rivendicato il diritto di prelazione fosse stato compreso nei piani di alienazione e fosse stata manifestata la volontà di vendita da parte dell’ente proprietario. Argomentare diversamente significherebbe riconoscere ai conduttori un diritto di prelazione/opzione nascente direttamente dalla legge, vale a dire un diritto potestativo di acquistare gli immobili di proprietà dell’ente previdenziale alle condizioni di favore di cui al Decreto n. 104 del 1996, a prescindere da ogni determinazione dell’ente proprietario di inserire quegli immobili in un programma di cessione. Orbene, questo diritto, cosi come rivendicato dal ricorrente, deve essere escluso.

Il D.L. n. 104 del 1996, art. 6, comma 6, menzionava, infatti, l’opzione, ma non ne disciplinava il contenuto in collegamento col diritto di prelazione previsto nel comma 5; soltanto col decreto sulle cartolarizzazioni n. 351 del 2001 il diritto di opzione è stato disciplinato all’art. 3, comma 3, in collegamento col diritto di prelazione previsto dal comma 5 (secondo un meccanismo per il quale vi era una prima fase in cui veniva offerta la possibilità di esercizio del diritto di opzione ed una seconda fase in cui, a determinate condizioni, il conduttore avrebbe potuto esercitare la prelazione). Nel vigore del Decreto n. 104 del 1996, pertanto, si deve ritenere che fosse previsto soltanto un diritto di prelazione in favore dei conduttori; avendo però il legislatore fatto ricorso ad un istituto a natura indubitabilmente negoziale e, disciplinando il decreto la vendita isolata dei beni ai conduttori da parte degli enti previdenziali, si deve affermare, dando così continuità all’orientamento sopra espresso, che il diritto in tanto fosse esercitabile in quanto l’ente avesse manifestato la volontà di alienare l’unità abitativa locata. Nel sistema originario del decreto legislativo n. 104, quindi, l’insorgenza del diritto di prelazione era da ritenersi collegata ad una proposta di alienazione da parte dell’ente, che aveva a suo presupposto il compimento dell’attività di ricognizione e di programmazione di cui agli artt. 2 e 6 del decreto.

1.4.- Le norme del successivo decreto legge sulla c.d. cartolarizzazione n. 351 del 2001, convertito nella L. n. 410 del 2001, vanno lette ed interpretate tenendo conto del quadro normativo già esistente alla data della loro emanazione, come sopra delineato, e della situazione che, in forza di questo, si era venuta a determinare con riguardo ai diversi beni immobili di proprietà degli enti previdenziali contemplati dalla normativa preesistente. Ed invero, proprio in ragione del fatto che le dismissioni previste in via ordinaria (dal Decreto n. 104 del 1996) ed in via straordinaria (dal D.L. n. 79 del 1997, art. 7, convertito nella L. n. 140 del 1997 e successive modificazioni ed integrazioni) avevano avuto solo parziale attuazione, intervenne la disciplina di cui all’art. 3, comma 10 e 11, nonchè comma 20, del D.L. n. 351 del 2001 convertito nella L. n. 351 del 2001.

Così, i primi due comma disciplinarono la sorte dei beni non venduti alla data del 31 ottobre 2001 ed il terzo, pure riferibile ai beni non venduti entro tale data, dettò una norma di salvezza delle procedure già avviate sulla base della precedente disciplina, prevedendo che, anche se i beni che ne avevano formato oggetto erano rimasti invenduti, non sarebbero stati assoggettati alle disposizioni del D.L. n. 351 del 2001 (come previsto dai precedenti commi 10 e 11), purchè le unità immobiliari fossero state già definitivamente offerte in opzione entro il 26 settembre 2001 dall’ente proprietario ai conduttori ovvero questi ultimi, in assenza dell’offerta in opzione, avessero manifestato la volontà di acquisto entro il 31 ottobre 2001, a condizione, in quest’ultimo caso, che non si trattasse di unità di pregio ai sensi del comma 13.

La norma, a carattere indubbiamente transitorio, introdusse, quanto alla prima ipotesi, un’opzione legale, cioè un diritto di opzione che non era pattizio ma discendeva dalla legge (così come d’altronde quello previsto dall’art. 3, comma 3) e tuttavia questo operava alle condizioni, appunto, previste dalla legge stessa, avendo riguardo alla data di entrata in vigore del decreto legge sulla cartolarizzazione: in tanto la vendita restava disciplinata dal prezzo e dalle altre condizioni dell’offerta, in quanto vi era stata già un’offerta in opzione entro il 26 settembre 2001.

Il secondo inciso (come risultante alfine dopo la prima modifica apportata con il D.L. n. 269 del 2003, art. 26, comma 9, conv. nella L. n. 326 del 2003 e la seconda apportata con la L. n. 350 del 2003, art. 3, comma 134) si limitava a stabilire che, se invece l’offerta in opzione non vi fosse stata, era data ai conduttori la possibilità di avvalersi dei benefici della precedente normativa, se ed in quanto avessero manifestato la volontà di acquisto entro il 31 ottobre 2001, escluse tuttavia le unità immobiliari considerate di pregio ai sensi del comma 13 dello stesso art. 3. Quindi, tale norma non conferiva ai conduttori un incondizionato diritto di opzione e/o di prelazione, ma prevedeva che l’unità abitativa locata dovesse essere loro venduta, se ed in quanto oggetto di un programma di dismissione, al prezzo e alle condizioni determinati in base alla normativa vigente alla data della manifestazione di volontà di acquisto, purchè intervenuta entro il 31 ottobre 2001, con le modalità ivi previste, e non riferita ad immobili di pregio.

Non risultando, come detto, che l’unità abitativa per cui è causa fosse stata già oggetto di un piano di alienazione da parte di I.P.SE.MA. e quindi di una proposta di acquisto od offerta in opzione, di cui il S.M. si potesse avvalere per acquistare al prezzo determinato ai sensi del Decreto n. 104 del 1996, non può che venire in rilievo la norma transitoria, nella sua seconda parte;

questa, peraltro, come si dirà trattando del secondo e del terzo motivo di ricorso, è inapplicabile nel caso di specie, perchè l’unità immobiliare occupata dal ricorrente è stata individuata come immobile di pregio col già menzionato decreto ministeriale del 1 aprile 2003, adottato, prima dell’introduzione del presente giudizio, ai sensi del D.L. n. 351 del 2001, art. 3, comma 13.

Il primo motivo di ricorso va perciò rigettato.

2.- Col secondo motivo di ricorso sono dedotte le seguenti violazioni:

– violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 4;

-violazione e falsa applicazione della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 5, in relazione all’art. 360 n. 3 e 5;

-violazione dell’art. 210 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 4 e 5.

Osserva il ricorrente:

a) il giudice di primo grado non avrebbe esaminato la domanda di disapplicazione del D.M. 1 aprile 2003 dichiarativo del "pregio" dell’immobile ed il giudice di secondo grado, investito della questione, avrebbe, a propria volta, ritenuto di non dover o poter prendere in esame il provvedimento impugnato per stabilire la legittimità o meno dell’operato dell’amministrazione e dei presupposti e delle motivazioni che avevano portato alla promulgazione del decreto ed avrebbe, a sua volta, autonomamente ritenuto che l’immobile dovesse considerarsi in ogni caso "di pregio";

b) il D.M. 1 aprile 2003 avrebbe individuato -alla fine di un lungo elenco di interi edifici di proprietà di Enti previdenziali- "inspiegabilmente" come di pregio e di proprietà dell’Ipsema la porzione di edificio designata dal civico 2829, comprensiva "bensì dell’appartamento per cui è causa, ma anche degli uffici e degli ambulatori del Ministero della Sanità"; inoltre, sempre secondo il ricorrente, non sarebbero stati indicati in decreto i criteri seguiti per tale qualificazione e quanto all’appartamento -non certo "edificio" ma unità isolata- la sua situazione si sarebbe dovuta definire di completo "degrado", ovviabile solo con interventi assimilabili a quelli di risanamento e di ristrutturazione degli edifici come definiti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, ostativa pertanto ad una dichiarazione di pregio (ai sensi del D.L. n. 351 del 2001, art. 3, comma 13, come integrato dal D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 26), non essendo esso munito di agibilità igienico- sanitaria; inoltre, secondo il ricorrente, e tenuto conto di quanto detto anche sub a), il giudice di secondo grado, nel compiere autonomamente la valutazione sul "pregio" dell’appartamento, si sarebbe sostituito all’amministrazione in un accertamento di merito, così violando il menzionato art. 5 della L.A.C.;

c) il giudizio sul "pregio" dell’immobile, come svolto autonomamente dal giudice a quo e come motivato nella sentenza impugnata, non sarebbe immune da errori logici e giuridici.

2.1.- Il motivo di ricorso non merita accoglimento con riguardo a nessuna delle tre violazioni denunciate, per le differenti ragioni di cui appresso.

Non sussiste il vizio di omessa pronuncia ex art. 112 cod. proc. civ., secondo quanto rilevato dal ricorrente e riportato sopra sub 2 lettera a), poichè il giudice d’appello si è espressamente pronunciato sull’istanza di disapplicazione del D.M. 1 aprile 2003:

ha riportato in sentenza sia il primo che il secondo motivo di gravame, relativi entrambi (il secondo, solo in parte) ad un preteso mancato esame da parte del primo giudice dell’istanza di disapplicazione; ha esaminato specificamente le censure sub a) b) e c) dell’esposizione del secondo motivo di appello (pag. 9-11 della sentenza), ritenendo le stesse come riferite ai vizi dedotti con riguardo all’atto amministrativo da disapplicare ed ha espressamente concluso evidenziando che l’esame delle censure aveva fatto "venir meno la dedotta ragione di disapplicazione del D.M. 1 aprile 2003 (fra l’altro non impugnato avanti il Giudice Amministrativo)".

Quindi, non di omessa pronuncia si tratta, ma di rigetto dell’istanza dell’appellante di disapplicazione del D.M. da ultimo citato, perchè ritenuto immune da vizi. Sotto questo profilo, il motivo di ricorso è infondato.

2.2. – Quanto al vizio di violazione dell’art. 5 della L.A.C., e specificamente alle censure riportate sopra sub 2 lettera b), il ricorso presenta evidenti carenze in punto di autosufficienza.

In primo luogo, non riporta, nemmeno per estratto, il contenuto del decreto ministeriale, del quale ha invocato la disapplicazione in sede di merito, così violando il disposto dell’art. 366 cod. proc. civ., comma 1, n. 6 e rendendo di fatto impossibile il controllo di questa Corte sul sindacato compiuto dal giudice di merito, se non altro con riguardo al dedotto vizio di mancanza di motivazione del provvedimento amministrativo.

In secondo luogo, poichè al fine della disapplicazione, in via incidentale, dell’atto amministrativo, il giudice ordinario può sindacare tutti i possibili vizi di legittimità del provvedimento – incompetenza, violazione di legge e eccesso di potere – ma non ha il potere di sostituire l’amministrazione negli accertamenti e nelle valutazioni di merito che sono di sua esclusiva competenza (cfr.

Cass. n. 332/02, n. 14728/06, tra le altre), il ricorrente avrebbe dovuto specificamente indicare i vizi dell’atto amministrativo del quale aveva chiesto la disapplicazione, e non soffermarsi sul merito della valutazione sul carattere di "pregio" dell’unità abitativa, riservata all’attività discrezionale della p.a..

Invece in ricorso sono solo genericamente indicati i vizi in forza dei quali sarebbe stata chiesta la disapplicazione del decreto ministeriale: essere stato "evidentemente emesso in situazione non prevista dalla legge" ed in ogni caso "perchè in alcun modo motivato" (pag. 21 del ricorso); tali vizi sembrano riconducibili alla violazione di legge, ma il primo potrebbe essere anche ricondotto alla carenza di potere. La genericità del ricorso sul punto induce a ritenere violato il principio dell’autosufficienza anche sotto questo profilo: in particolare, esso non riporta le censure mosse al provvedimento amministrativo così come il ricorrente le avrebbe proposte dinanzi al giudice di secondo grado, al fine di invocarne la disapplicazione.

Ancora, il motivo di ricorso, sempre con riferimento agli asseriti vizi del provvedimento amministrativo, manca di specificità, poichè non censura specificamente le ragioni della decisione impugnata.

Il giudice di secondo grado ha concluso per l’insussistenza della "dedotta ragione di disapplicazione del D.M. 1 aprile 2003" (pag. 11 della sentenza) poichè ha ritenuto che l’amministrazione non avesse disatteso alcuna norma di legge per la quale le sarebbe stato impedito di dichiarare di "pregio" singole unità immobiliari anzichè interi edifici, come sostenuto dal ricorrente; ha ritenuto, altresì, che fossero irrilevanti ai fini della qualificazione compiuta dalla p.a. -quindi che questa qualificazione non potesse essere reputata in violazione di legge (ex art. 5 L.A.C.), ed a prescindere dalla valutazione nel merito- la circostanza che nell’edificio di "(OMISSIS)" vi fossero unità immobiliari non di proprietà dell’I.P.SE.MA. ed ancora la circostanza che fosse ancora incerta l’individuazione delle parti comuni dello stesso edificio.

La statuizione di conformità a legge del D.M. 1 aprile 2003 e la relativa motivazione (che si svolge alle pagg. 10-11 della sentenza) non sono fatte oggetto di censure specifiche così come richiesto dall’art. 366 cod. proc. civ., n. 4.

In proposito, merita sottolineare che non risulta in alcun modo intaccata dai motivi di ricorso l’ulteriore ragione che, sia pure indirettamente, la Corte ha posto a fondamento del diniego di disapplicazione, vale a dire la correttezza del rilievo contenuto nel D.M. 1 aprile 2003 secondo il quale "la qualificazione ai fini della vendita i cui al presente decreto degli immobili quali immobili di pregio non è in alcun modo connessa ad altre classificazioni egli immobili effettuate in precedenza ad altri fini anche locativi".

Orbene, per superare tale ragione di applicazione dello stesso D.M. il ricorrente avrebbe dovuto contestare che quanto ivi affermato dalla p.a. fosse in contrasto con precise norme di legge regolanti l’individuazione degli immobili di pregio ai fini del D.L. n. 351 del 2001.

Invece, per un verso, il ricorrente si limita a richiamare le circolari del Ministero del Lavoro 6/4PS/30172 del 30.4.1997 e 6/4PS/30234 del 27.1.2000, senza indicare le ragioni della loro applicabilità al caso di specie e, soprattutto, senza prospettarle con riguardo alle ragioni della decisione. Ciò rileva soprattutto in considerazione del fatto che si tratta di circolari riferibili alla normativa pregressa e non al D.L. n. 351 del 2001: orbene, il D.M. 1 aprile 2003 è stato emanato, invece, in attuazione dell’art. 3, comma 13 del citato D.L.; ed anche la disciplina transitoria fissata dal comma 20 dello stesso art. 3 fa riferimento alla valutazione di "pregio" come risultante dal precedente comma 13 del medesimo articolo.

Per altro verso, a lungo il ricorso si sofferma sulle ragioni per le quali, tenuto conto dello stato di fatto e delle condizioni dell’immobile in contestazione, questo non avrebbe potuto essere qualificato come di pregio: si tratta di argomenti che spostano la censura dal profilo della legittimità del provvedimento amministrativo al profilo della correttezza della valutazione in esso contenuta; vale a dire che il ricorrente finisce per incorrere in quel medesimo errore di prospettiva che, come si dirà, imputa al giudice di merito.

In conclusione, il ricorso non riporta, nemmeno per estratto, il testo del provvedimento amministrativo della cui disapplicazione si tratta; non indica i vizi per i quali questo dovrebbe essere disapplicato dal giudice ordinario, in quanto non conforme a legge, ai sensi dell’art. 5 L.A.C, ed, in particolare, non indica in ricorso i vizi che il ricorrente- appellante avrebbe specificamente prospettato (per incompetenza, eccesso di potere e/o violazione di legge) al giudice di merito al fine di sollecitarne la disapplicazione nel caso concreto; non censura specificamente le ragioni per le quali la Corte d’Appello ha ritenuto di disattendere la domanda di disapplicazione.

Ne segue l’inammissibilità del profilo di censura con cui è denunziata la violazione della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 5 in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5. 2.3.- Corretta, ma irrilevante, è l’ulteriore censura mossa al giudice del merito, per la quale la Corte territoriale avrebbe finito per sostituire l’amministrazione nella valutazione di merito sul carattere di "pregio" dell’appartamento, che era di esclusiva pertinenza dell’amministrazione chiamata a pronunciarsi con decreto, D.L. n. 351 del 2001, ex art. art. 3, comma 13; nel sostituirsi all’amministrazione in tale giudizio, la Corte d’Appello avrebbe compiuto un’operazione preclusa al giudice ordinario dal disposto dell’art. 5 L.A.C..

In effetti, una volta constatato che il provvedimento che aveva dichiarato il pregio dell’immobile non potesse essere disapplicato, la Corte d’Appello non avrebbe dovuto ripetere, nel merito, il giudizio sul pregio dell’immobile; trattasi di delibazione non consentita (cfr. Cass. n. 332/02, n. 14728/06 cit. nonchè Cass. n. 11103/04, n. 15073/04). Peraltro, nel caso di specie, essa risulta compiuta nel presupposto, comunque, della legittimità del provvedimento amministrativo e, sostanzialmente, ad abundantiam, avendo la Corte per di più dichiarato di avvalersi dello stesso criterio di giudizio seguito dall’amministrazione, come risultante dal D.M. 1 aprile 2003.

Ne segue l’inammissibilità del terzo profilo di censura di cui al secondo motivo di ricorso, riguardante, per un verso, la violazione dell’art. 210 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 4 e 5 e, per altro verso, l’errore nel giudizio autonomamente espresso dalla Corte in merito al "pregio" dell’immobile. Ed invero, come detto, quest’ultimo non sarebbe spettato alla Corte. Quanto, invece, alla richiesta di acquisizione degli atti "a corredo" del provvedimento amministrativo, il relativo accoglimento era precluso proprio in ragione del fatto che questi sarebbero potuti servire tutt’al più per controllare la valutazione di merito compiuta dalla pubblica amministrazione, sulla quale il giudice ordinario non si sarebbe potuto comunque pronunciare.

3.- Col terzo motivo di ricorso sono dedotte violazione e falsa applicazione del D.L. n. 351 del 2001, art. 3, comma 13, convertito nella L. n. 410 del 2001, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5, nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 196 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 4 e 5.

Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che l’unità immobiliare in contestazione non si trovasse "in stato di degrado" e non fossero, rispetto alla stessa, "necessari interventi di restauro e di risanamento conservativo ovvero di ristrutturazione edilizia", tali da escludere il carattere di pregio ai sensi della D.L. n. 351 del 2001, art. 3, comma 13, convertito nella L. n. 410 del 2001, così come risultante dalla modifica apportata dal D.L. n. 269 del 2003, convertito nella L. n. 326 del 2003.

Per questa parte, la sentenza ha condiviso il giudizio del consulente tecnico d’ufficio, che ha reputato congruo e condivisibile e del quale ha riportato in motivazione un ampio stralcio, aggiungendo ulteriori considerazioni, volte a corroborare, con apprezzamenti in fatto, la valutazione già espressa dal CTU. Giova precisare che quest’ultima valutazione era stata espressamente nel senso che non erano necessari interventi edilizi quali previsti dalla norma citata, avendo il consulente riscontrato la necessità piuttosto di "opere di straordinaria manutenzione così come definita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3 lett. b". In base a tale conclusione, che la Corte ha dichiarato di condividere, la sentenza conclude, in diritto, nel senso dell’inapplicabilità dell’eccezione di cui al menzionato art. 3, comma 13, del quale invece il ricorrente denuncia la violazione.

I motivi di censura sono inammissibili.

Va ribadito il principio per il quale rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre addirittura la rinnovazione delle indagini, con la nomina di altri consulenti, e l’esercizio di un tale potere (così come il mancato esercizio) non è censurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivato (cfr., da ultimo, Cass. n. 8355/07, 27247/08).

Orbene, in ricorso si ripetono le censure mosse all’accertamento tecnico preventivo ed alla consulenza tecnica d’ufficio con la memoria del 14 marzo 2006 davanti al primo giudice, che lo stesso ricorrente assume riproposte in sede d’appello; nè il Tribunale nè la Corte hanno ritenuto di accogliere le istanze di integrazione o di rinnovazione dell’attività peritale.

Dette istanze sono fondate sulla qualificazione, compiuta dal medesimo ricorrente, in termini di "vera e propria ristrutturazione edilizia e di risanamento conservativo" di tutta una serie di interventi edilizi, ivi indicati, e reputati necessari dallo stesso ricorrente.

Orbene, le circostanze di fatto riguardanti lo stato dell’immobile, che secondo il ricorrente non sarebbero state considerate dal consulente o sarebbero state malamente considerate dal giudice, appaiono riferibili (e di fatto finiscono per essere riferite in ricorso) alla valutazione dell’agibilità piuttosto che a quella della condizione di "degrado" rilevante ai fini del D.L. n. 351 del 2001, art. 3, comma 13. Invece il giudice a quo risulta avere svolto una valutazione ben più rispondente a tale dato normativo: questo richiama determinate tipologie di interventi edilizi, tecnicamente riconducibili a quelli previsti dal D.P.R. n. 380 del 2001 (cui CTU e giudice di merito si sono riferiti) e pertanto resta esclusa la rilevanza di interventi di altra natura, quali quelli la cui necessità ha sostenuto il ricorrente.

La sentenza adeguatamente motiva in punto di condivisione della conclusione raggiunta dal CTU e dell’irrilevanza di quegli elementi di fatto che, non considerati dal CTU, sarebbero stati da reputare invece come decisivi secondo la valutazione fattane dall’appellante.

Le argomentazioni svolte risultano, oltre che sufficientemente motivate, immuni dai vizi denunciati, non potendo la denuncia – per essere rilevante in sede di legittimità- consistere nella mera contrapposizione delle proprie ragioni a quelle enunciate in sentenza. Siffatta contrapposizione si traduce, nel caso di specie, nella riproposizione di questioni di fatto già esaminate dal giudice di merito e per di più valutate in termini del tutto coerenti con la normativa di riferimento, secondo quanto sopra esposto.

4.- Col quarto motivo di ricorso è denunciata violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 4, perchè il giudice non avrebbe considerato la domanda subordinata del conduttore di ottenere il risarcimento il del danno patito "nel caso in cui i ritardi frapposti dall’Ente convenuto avessero compromesso il diritto di opzione del conduttore o lo avessero reso più gravoso in forza di norme e/o situazioni sopravvenute".

Il motivo è infondato.

In primo luogo, è da escludere che la domanda dovesse essere espressamente considerata dalla Corte d’Appello perchè "consequenziale", nel senso dell’accoglimento, rispetto al decisum di merito.

Al contrario, il rigetto della domanda risarcitoria subordinata è da ritenersi "consequenziale", e quindi implicito, rispetto alle ragioni di rigetto della domanda principale.

Non è configurabile, nel caso di specie, il diritto di prelazione del conduttore, specificamente di B.M., ai sensi del D.Lgs. n. 104 del 1996, art. 6 nè in via di applicazione diretta, in ragione di quanto detto trattando del primo motivo, nè in forza della disposizione di cui all’art. 3, comma 20, di cui al D.L. n. 351 del 2001, convertito nella L. n. 410 del 2001, in ragione di quanto detto trattando dei motivi secondo e terzo; correlativamente, si deve escludere un obbligo a contrarre, ovvero a contrarre alle condizioni favorevoli pretese dal ricorrente, che sia sorto in capo all’ente previdenziale, a seguito dell’entrata in vigore dell’una e/o dell’altra delle richiamate normative. Ne consegue che la condotta dell’Istituto resistente, che non è addivenuto alla stipula del contratto di compravendita dell’immobile condotto in locazione dal B.M., non avrebbe potuto in alcun modo essere qualificata illecita.

Pertanto, sebbene la Corte d’Appello non abbia espressamente affrontato, al fine di rigettarla, la domanda subordinata, deve escludersi la sussistenza del vizio denunciato in ragione del principio per il quale ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (cfr., così da ultimo, Cass. n. 20311/11).

5.- Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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