Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 30-09-2011) 26-10-2011, n. 38822 Sentenza di non luogo a procedere

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 1 giugno 2010, il G.U.P. del Tribunale di Roma ha dichiarato il non luogo a procedere perchè il fatto non sussiste nei confronti di P.S. e di A.C. per il reato di cui al capo s) della rubrica ( D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, commi 1, 2 e 3: partecipazione ad un’associazione criminosa intesa allo spaccio di stupefacenti, facente capo a L.L. ed a sua moglie L.P.V., con il ruolo di esecutori degli ordini ad essi impartiti circa l’acquisto dello stupefacente e la successiva distribuzione ai singoli consumatori; con la recidiva per entrambi e con l’aggravante di essere alcuni dei compartecipi dediti all’uso di sostanze stupefacenti).

2.Il G.U.P. di Roma ha ritenuto che, nei confronti del P., gli elementi di prova fossero insufficienti, mentre, nei confronti dell’ A., gli elementi di prova fossero inidonei a sostenere l’accusa in giudizio, in quanto, con riferimento ad essi, l’ipotizzata associazione non poteva ritenersi manifestatasi nel mondo esterno in modo tale da dar vita ad un’entità autonoma ed indipendente, atteso che, con riferimento ai tre elementi costitutivi di un’associazione criminosa (vincolo associativo stabile;

indeterminatezza del programma criminoso; esistenza di una struttura organizzativa sia pur rudimentale), era indispensabile accertare l’esistenza di una struttura organizzativa permanente, finalizzata alla realizzazione del programma criminoso, solo in tal modo essendo possibile dedurre l’esistenza del vincolo associativo nonchè l’indeterminatezza del programma criminoso.

Secondo il G.U.P. inoltre la ravvisabilità di un’associazione criminosa dedita al narcotraffico non presupponeva necessariamente che esistesse una struttura gerarchica o piramidale con specifici ruoli direttivi, pur essendo la struttura sociale familiare compatibile con una sua strutturazione come associazione a delinquere.

Sulla base di tale considerazioni il G.U.P. ha ritenuto che il L. fosse sicuramente consumatore di stupefacenti e spacciatore;

tuttavia nei suoi confronti difettava la prova certa che fosse a capo di un’associazione stabilmente strutturata ed operante nel tempo, atteso che i presunti gregari erano legati in maniera occasionale alle sue attività, siccome spinti dall’impellente necessità di procurarsi di volta in volta modesti quantitativi di stupefacenti ed il gruppo familiare del L., pur strutturato come una famiglia dedita irreversibilmente al crimine o comunque all’illecito, non poteva essere ritenuto come composta da associati consapevoli del reciproco vincolo associativo e tesi a realizzare il comune programma criminoso.

Certamente le attività del L. e di sua moglie erano state costanti e reiterate nel tempo; il che tuttavia non era sufficiente a far ritenere sussistente l’associazione criminosa ipotizzata dall’accusa; ed in tale quadro ha ritenuto che gli indizi addotti dal PM nei confronti dell’ A., il quale aveva indubbiamente solidi legami con il L. e che quindi doveva essere giudicato alla stessa stregua di quest’ultimo non potevano andare oltre il capoverso dell’art. 530 c.p.p..

La posizione del P. era stata poi ritenuta più defilata e contrassegnata dall’occasionalità dei rapporti.

3. Avverso detta sentenza il P.M. del Tribunale di Roma ha proposto appello innanzi alla Corte d’Appello di Roma, chiedendo che, in riforma della sentenza del G.U.P., venisse emanato il decreto che dispone il giudizio nei confronti di P.S. e di A. C. in ordine al reato di cui al capo s) della rubrica (partecipazione ad un’associazione criminosa dedita al commercio di sostanze stupefacenti).

4. La Corte d’Appello, con ordinanza del 2 dicembre 2010, ha trasmesso per competenza gli atti a questa Corte.

5. Il P.M. ricorrente ha ritenuto che, contrariamente a quanto sostenuto dal G.U.P., nei confronti di entrambi gli imputati era stata raggiunta la prova circa la sussistenza del reato associativo ad essi contestato, atteso che, secondo la giurisprudenza di legittimità, per la configurabilità dell’associazione criminosa di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, non era necessaria l’esistenza di un’articolata e complessa organizzazione, connotata da una struttura gerarchica con specifici ruoli direttivi e dotata di disponibilità finanziarie e strumentali, essendo sufficiente anche una predisposizione elementare di mezzi ed un’organizzazione minima;

e sotto il profilo probatorio la ricerca dei tratti organizzativi era essenzialmente diretta a provare, attraverso tale dato sintomatico, l’esistenza di un accordo indeterminato a commettere i delitti propri dell’associazione criminosa ipotizzata.

Erano pertanto sufficienti requisiti fattuali più limitati rispetto a quelli che connotavano la fattispecie associativa criminosa per così dire classica; e l’elemento organizzativo andava apprezzato entro i più ristretti termini chiariti dalla giurisprudenza di legittimità.

Secondo il P.M. ricorrente, su tali presupposti giuridici, le indagini avevano evidenziato l’esistenza di una struttura organizzativa stabile imperniata sulle figure di L.L., di sua moglie L.P.V. e della figlia C., all’epoca dei fatti minorenne, finalizzata allo spaccio di stupefacenti, tipo cocaina ed oggetto di un costante loro approvvigionamento e preparazione. Era stata dimostrata l’esistenza di una rete di fornitori, fra i quali C.G.; era stato dimostrato che il L. gestiva la successiva fase di spaccio al dettaglio dello stupefacente ed il P. e l’ A. risultavano aver operato in una posizione di subordinazione rispetto al L., per il quale lavoravano e dal quale erano stati spesso ricompensati anche con droga. Pur non essendosi trattato di un sodalizio imponente, era stata accertata la condotta illecita, la ripartizione dei ruoli, l’esistenza di una base logistica, la frequenza e la permanenza dei rapporti e degli accordi tra singoli partecipi, la sostanziale ripetizione di procedure operative consolidate, requisiti sufficienti per configurare la fattispecie associativa, ed al riguardo erano state indicate le numerose intercettazioni telefoniche che avevano provato i collegamenti di cui sopra; e detta attività di ricezione e spaccio della droga faceva capo all’abitazione del L., che era il luogo dove la droga fornita veniva custodita e dove i consumatori venivano frequentemente ricevuti per operare lo spaccio; era pertanto da ritenere sussistente quel substrato organizzativo sia pur minimo idoneo a configurare il delitto associativo, anche perchè dalle telefonate intercettate erano emersi sia l’accordo stabile a fini illeciti tra i membri della famiglia L., sia il ruolo svolto dal P. come di persona di fiducia, incaricata di prelevare la sostanza stupefacente, che egli doveva poi vendere ai propri clienti, dai luoghi sicuri dove era stata occultata.

Si trattava pertanto di una funzione stabile, originata da un accordo permanente finalizzato al perseguimento di obiettivi illeciti.

Il ruolo svolto dall’ A. era quello di persona di fiducia dei coniugi L., tanto da essere stato coinvolto nell’organizzazione di un pestaggio di un soggetto rimasto debitore del L. medesimo e l’ A. era stato altresì mandato dal L. a reperire la droga dai C. assieme al proprio figlio tredicenne; il che era indicativo del rapporto fiduciario esistente fra il L. e l’ A..

Pertanto sia il P. che l’ A. erano da ritenere partecipi dell’organizzazione criminosa, in considerazione del ruolo esecutivo da essi svolto, consistito nell’occultamento da parte loro della droga in luoghi sicuri, dai quali essi, per conto del L., la ritiravano per portarla a quest’ultimo, in tal modo avendo assunto uno specifico ruolo esecutivo, il cui svolgimento era funzionale rispetto alla realizzazione degli scopi criminosi della consorteria.

Pertanto sia il P. che l’ A. dovevano essere rinviati a giudizio per il reato ad essi ascritto.

Motivi della decisione

1. Il ricorso proposto dal P.M. di Roma è fondato.

2. Invero la sentenza di non luogo a procedere, anche dopo le modifiche dell’art. 425 c.p.p., introdotte con la L. 16 dicembre 1999, art. 23, comma 1, rimane prevalentemente una sentenza di natura processuale e non di merito, finalizzata cioè ad evitare la celebrazione di dibattimenti inutili e non intesa ad accertare se l’imputato sia colpevole od innocente.

Pertanto il legislatore ha conferito al G.I.P. il potere di adottare una sentenza di non luogo a procedere in tutte le ipotesi in cui gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque inidonei a sostenere l’accusa in giudizio, attribuendogli quindi, quale parametro di valutazione, l’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio.

3.Ritiene il Collegio che, nella specie in esame, non erano palesemente insufficienti gli elementi per sostenere l’accusa in giudizio, avendo il PM ricorrente indicato come a carico degli odierni imputati sussistessero elementi che, sulla base della giurisprudenza di legittimità elaborata in materia, potevano consentire di ritenere entrambi partecipi di un’associazione criminosa intesa al commercio di sostanze stupefacenti (cfr., in termini, Cass. 4^, 14.3.08 n. 11335).

4. Va rilevato che l’appartenenza di un soggetto ad un’associazione criminosa richiede, oltre all’accertamento dell’esistenza in sè del sodalizio malavitoso, la verifica del ruolo in essa svolto dal soggetto e delle modalità delle azioni da lui eseguite, tali da evidenziare la sussistenza di un vincolo stabile tra il soggetto e l’associazione e che il ruolo svolto dal soggetto nell’ambito della compagine criminosa non sia occasionale, ma abbia i caratteri della stabilità e della ripetitività e sia protratto per un adeguato lasso temporale (cfr., in termini, Cass. 9.12.02 n. 2838; Cass. 3 16.10.08 n. 43822).

L’associazione a delinquere prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 costituisce una species rientrante nel più ampio genus costituito dall’associazione criminosa, quale delineata in via generale dall’art. 416 cod. pen, sì che anch’essa richiede, oltre alla presenza di almeno tre persone, la sussistenza di un vincolo continuativo, scaturente dalla consapevolezza che ha ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso, che si caratterizza, rispetto a quello delineato in via generale dall’art. 416 c.p., dall’essere esso finalizzato alla commissione di più delitti fra quelli previsti dall’art. 73 del citato D.P.R. e di fornire, con il proprio contributo fattuale, un valido apporto al perseguimento del programma criminoso anzidetto, per realizzare il quale è richiesta la predisposizione di una struttura, che può anche non essere particolarmente complessa ed essere solo rudimentale, purchè risulti in qualche modo identificabile; risulti caratterizzata dalla sussistenza di mezzi finanziari adeguati al perseguimento delle finalità illecite; risulti infine destinata ad operare per un apprezzabile arco temporale (cfr. Cass. 1, 22.9.06 n. 34043, rv.

234800).

5. Nella specie il G.U.P di Roma, pur avendo dato atto del solido apporto probatorio emerso nei confronti dei due imputati, costituito dalle numerose intercettazioni telefoniche, dalle quali era emersa la ripetitività dei comportamenti tenuti dagli odierni imputati alle dipendenze di L.L. e di sua moglie, provvedendo questi ultimi a reperire la droga presso vari fornitori e svolgendo i due imputati il ruolo di addetti alla distribuzione della sostanza stupefacente al minuto; pur avendo dato atto della consapevolezza degli odierni imputati di fare sistematicamente capo al L. per il reperimento della cocaina, per la quale il L. aveva reperito valide fonti di approvvigionamento (principalmente i fratelli C.), ha ritenuto che mancasse tuttavia il requisito di una stabile organizzazione, indispensabile per aversi l’associazione criminosa ipotizzata.

Trattasi tuttavia di determinazione che non emerge con evidenza dagli atti, nè appare desumibile in modo immediato dal materiale probatorio raccolto dalla pubblica accusa, non potendosi negare la sussistenza di un orientamento giurisprudenziale, secondo il quale l’associazione criminosa di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 possa ipotizzarsi anche in presenza di un’organizzazione rudimentale e non particolarmente strutturata, quale quella che pure potrebbe ravvisarsi nella specie in esame.

6. In tal modo il G.U.P di Roma ha finito per svolgere un ruolo ultroneo, rispetto a quello a lui affidato quale giudice dell’udienza preliminare dall’art. 425 c.p.p., di delibazione degli atti, onde escludere, con valutazione prognostica, la sostenibilità dell’accusa in giudizio, avendo egli impropriamente assunto la veste di giudice di merito ed avendo pertanto svolto un ruolo più propriamente riservato al Tribunale in sede dibattimentale ovvero a lui medesimo, qualora fosse stato richiesto di procedere col rito abbreviato (cfr.

Cass. Sez. 5 n. 15364 del 18/03/2010, dep. 21/04/2010, imp. Caradonna, Rv. 246874).

7.Da quanto sopra consegue l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio degli atti al G.I.P del Tribunale di Roma affinchè esamini nuovamente la richiesta di rinvio a giudizio proposta dal P.M. nei confronti di P.S. ed A.C., tenendo presenti i principi di diritto sopra evidenziati.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame al G.U.P. del Tribunale di Roma.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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