Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 18-04-2012, n. 6028 Collocamento dei lavoratori agricoli

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Napoli, con la sentenza n. 5691/08, depositata l’8 ottobre 2008, rigettava l’appello proposto da F. V., F.S., F.A., I.A., I. G., D.N.V., L.P. e L. S., nei confronti di Ia.Ga. e Ia.Pa., in ordine alla sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, del 13 maggio – 23 agosto 2005, che aveva rigettato la domanda dagli stessi proposta.

I ricorrenti avevano adito il Tribunale per sentire accertare l’esistenza di rapporti di lavoro agricolo a tempo indeterminato con la conseguente condanna al pagamento di differenze retributive.

1.1. In particolare, la Corte d’Appello affermava che nessuno dei ricorrenti aveva raggiunto o superato il limite delle 180 giornate annue; non erano, dunque, emersi, nel giudizio, elementi capaci di fondare la domanda principale svolta dagli attuali appellanti, non essendo dimostrata la sussistenza del presupposto giuridico sulle quali tali domande si sarebbero fondate.

Nel settore del lavoro agricolo, infatti, assumeva il giudice d’appello, la regola è il rapporto di lavoro a tempo determinato, con conseguente onere del lavoratore di provare la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non applicandosi, ratione temporis, la L. n. 230 del 1962.

Pertanto qualora non ricorra l’ipotesi del superamento nell’anno di centottanta giornate di lavoro presso la stessa azienda, nel lavoro subordinato agricolo, dal solo dato fenomenico della continuità della prestazione, non può desumersi l’esistenza di un rapporto a tempo indeterminato, dovendosi a tal fine accertare, anche in via presuntiva, la sussistenza di un vincolo inteso ad assicurare alle parti stabilità della prestazione e della corrispettiva retribuzione.

2. Per la cassazione della suddetta sentenza, resa in secondo grado, ricorrono F.V., F.S., F.A., I. A., I.G., D.N.V., L.P. e L.S., prospettando due motivi di ricorso.

3. Resistono con controricorso Ia.Ga. e Ia.

P..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

1.2. La Corte d’appello, con riguardo alla possibilità per il lavoratore agricolo di fornire la prova della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, qualora non ricorra l’ipotesi del superamento nell’anno delle centottanta di lavoro presso la stessa azienda, pur avendo rilevato che il lavoratore, gravato dal relativo onere della prova, ha la possibilità di dimostrare che, nonostante il mancato superamento delle centottanta giornate di lavoro nell’anno, possa sussistere un vincolo inteso ad assicurare alle parti stabilità della prestazione e della corrispettiva retribuzione, e che ciò possa essere accertato anche in via presuntiva, ha, poi, ritenuto che nella fattispecie in esame poteva ritenersi acquisito che nessuno degli appellanti avesse mai raggiunto o superato il limite delle centottanta giornate annue, senza sufficientemente e logicamente motivare tale statuizione.

La Corte d’Appello non avrebbe dato rilievo a quanto dedotto dai ricorrenti in ordine al fatto che la mancata annotazione sui libretti di lavoro di versamenti che raggiungessero il suddetto limite sarebbe il frutto di una pratica volta ad evitare il configurarsi, almeno ictu ovuli, di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Dalla lettura di detti libretti di lavoro, infatti, si evince il dato rilevante che i ricorrenti hanno sempre e comunque lavorato (seppur mai superando formalmente il limite delle centottanta giornate nell’anno) alle dipendenze della famiglia Ia..

La Corte d’Appello, poi, ha illogicamente ritenuto sfornita di prova la domanda perchè, a seguito delle eccezioni sollevate dai resistenti, sarebbe emerso che, nel corso degli anni, parte dei fondi, sui quali avrebbero svolto la loro attività lavorativa i ricorrenti, sarebbe stata concessa in fitto o a mezzadria a terzi.

E’, inoltre, sfuggito di considerare alla Corte territoriale che il fatto che, nonostante parte dei fondi venissero nel corso degli anni alienati e/o ceduti in mezzadria od in fitto a terzi, tutti i ricorrenti continuassero a lavorare con rapporto di lavoro di tipo subordinato e continuativo con i resistenti ed il loro dante causa, si giustifica, in particolare, con la circostanza che, nel frattempo, il numero degli addetti all’azienda agricola decresceva.

La decisione della Corte d’Appello è censurata anche con riguardo alla valutazione delle testimonianze.

La Corte d’Appello rilevava che gran parte dei testi escussi a richiesta degli attuali appellanti erano risultati legati da vincoli di parentela con la famiglia F. e con la famiglia I., e che ciò, pertanto, imponeva di valutare con estrema prudenza le deposizioni di P.R. (cognato dei figli di F. V. avendo sposato la terza sorella delle L.), di L.A. (fratello delle predette), di F.R. (figlio di F.V. e dunque cognato delle L.).

Ad avviso dei ricorrenti, questa premessa condivisibile portava a conclusioni contraddittorie, in quanto nulla, all’esito di un prudente vaglio delle dichiarazioni di detti testi, poteva far propendere per l’inattendibilità degli stessi.

1.3. Il motivo di impugnazione è stato, quindi, precisato, con riguardo al fatto che la Corte d’Appello riteneva che i ricorrenti non avessero dimostrato, e che, conseguentemente, non si sarebbe accertato, che tra gli stessi ed i resistenti fosse intercorso un rapporto di lavoro a carattere subordinato ed indeterminato in quanti i ricorrenti, neanche in via presuntiva, fornivano prova di aver lavorato per più di centottanta giornate nell’anno, e, dunque, prova della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

1.4. Il motivo è inammissibile. La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento e di dare adeguata contezza dell’iter logico argomentativo seguito per giungere ad una determinata conclusione. Ne consegue che il preteso vizio della motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della stessa, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti "decisivi" della controversia, ovvero quando esista insanabile contrasto fra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (ex multis, Cass. n. 1754 del 2007).

In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità – non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità il quale deve limitarsi a verificare se siano stati dal ricorrente denunciati specificamente – ed esistano effettivamente – vizi (quali, nel caso di specie, la carente, insufficiente o contraddittoria motivazione) che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di legittimità. Peraltro, come già affermato, il giudizio sull’attendibilità dei testi non impone al giudice di discutere e valutare ogni singolo elemento, o di confutare ogni deduzione difensiva, che devono ritenersi disattese per implicito (Cass., n. 6023 del 2009).

Nella specie, la censura si traduce nella richiesta di un riesame del merito della controversia, in particolare attraverso una nuova valutazione delle risultanze istruttorie, non ammissibile in sede di legittimità, tenuto conto, altresì, che le ricorrenti, riproducono le testimonianze non integralmente, ma per stralci nell’ambito e a sostegno della propria prospettazione difensiva.

Ed infatti, la Corte d’Appello, con congrua e logica motivazione ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui nel settore del lavoro agricolo la regola è il rapporto a tempo determinato – con conseguente onere a carico del lavoratore della prova della sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato – al quale non si applica la L. n. 230 del 1962 (cfr., Cass. n. 4523 del 2000), ritenendo, nella specie,che non erano emersi elementi capaci di fondare la domanda proposta dagli odierni resistenti.

Il giudice dell’appello, in primo luogo rileva la circostanza che i versamenti sui libretti di lavoro non raggiungano il limite di orario previsto, mettendo in evidenza che tale circostanza non era contestata, atteso che gli stessi appellanti, nell’ammetterla, sottolineano che essa sarebbe solo frutto di una pratica volta ad evitare il configurarsi, almeno ictu oculi, di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Tale affermazione viene ribadita nell’odierno ricorso, ma non inficia la congruenza del percorso motivazionale della Corte d’Appello, dal momento che, in contestazione, era proprio la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con onere della prova, contra anche le risultanze dei libretti di lavoro, a carico dei ricorrenti. La Corte d’Appello, nell’articolata motivazione pone in luce che le ricorrenti D.N.V., L.P. e L.S. avevano basato i propri conteggi sull’allegato svolgimento di 51 giornate annue, per cui solo per gli altri ricorrenti era stato allegato, che essi avrebbero superato la soglia delle 180 giornate, essendo i conteggi allegati sviluppati sul presupposto dello svolgimento di 200 giorni di lavoro per ciascun anno. A ciò si aggiunge che i ricorsi si basavano, esplicitamente, sulle circostanze di fatto, enunciate (lettera a, di ciascun atto introduttivo), in base alle quali le mansioni di bracciante agricolo sarebbero state svolte, da ognuno dei ricorrenti, sui vari fondi specificamente elencati e cioè Cacciagalli (120 moggia), Aorivola (6 moggia), Allodole (300 moggia), altro fondo in (OMISSIS) (10 moggia). A seguito delle eccezioni sollevate dai convenuti, era emerso, però, che l’intero fondo Allodole ovvero Lodole (che era quello di maggiore estensione rispetto a tutti gli altri, per una superficie indicata in ricorso di 300 moggia circa) era stato sempre concesso in mezzadria, ovvero in affitto a terzi, ed i ricorrenti nel corso del libero interrogatorio non avevano specificamente contestato le circostanze al riguardo opposte dai convenuti, ma avevano ammesso che nel corso degli anni alcuni fondi erano stati venduti e che sul fondo Allodole essi non erano più andati.

Inoltre , la Corte partenopea valutava con particolare prudenza le deposizioni dei testi in ragione dei non lontani vincoli di parentela e affinità degli stessi con la famiglia F. e con la famiglia I., rilevando anche come dette deposizioni non fornivano per il loro contenuto la prova delle effettive giornate lavorative svolte dai ricorrenti.

In ragione dell’articolata motivazione della sentenza in esame e tenuto conto delle argomentazioni contenute nel motivo di ricorso, quest’ultimo si traduce nella richiesta di un’inammissibile riesame, nel merito, dell’istruttoria svolta nel corso del giudizio.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 1406 c.c., e segg. ( art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

La Corte d’Appello, erroneamente, avrebbe ritenuto la domanda limitata al periodo successivo al 1991 per il semplice fatto che anche parte appellante, odierna ricorrente, avrebbe precisato che il giudizio di appello "proseguiva in ordine alla domanda proposta nei confronti dei soli Ia.Ga. e Ia.Pa.".

Pur essendo ciò vero, la Corte di merito avrebbe dovuto rilevare che subentrando gli appellati Ia.Pa. e I. F. nella gestione dell’azienda agricola paterna, vi sarebbe stata una cessione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato a carattere subordinato, stipulati dagli odierni ricorrenti con il dante causa degli appellati, a norma dell’art. 1406 c.c., in forza della quale, gli appellati Ia.Pa. e I. G. rispondevano delle obbligazioni assunte dal contraente cedente Ia.Fl..

Il quesito di diritto ha il seguente tenore: se, la sentenza impugnata abbia violato o falsamente applicato l’art. 1406 c.c., e segg., nella parte in cui non ha ritenuto essersi verificata una cessione dei contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulati dagli odierni ricorrenti con il dante causa degli appellati Ia.Pa. e Ia.Ga., nel momento in cui questi ultimi sono subentrati al loro dante causa Ia.

F. nella gestione e titolarità dell’azienda agricola di quest’ultimo Il motivo è inammissibile. Ed infatti i ricorrenti, a fronte della statuizione della Corte d’Appello di intervenuto giudicato sul punto, cercano di eludere lo stesso mediante l’inammissibile introduzione in questa fase, di un fatto nuovo, deducendo l’intervenuta cessione dei contratti, senza in alcun modo prospettare e documentare la introduzione di tale tema nei precedenti gradi di giudizio, con ciò violando il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione nel rispetto del quale si sarebbe dovuto attestare anche che le circostanze fattuali e gli atti documentali erano stati tempestivamente e ritualmente acquisiti al processo (cfr. sul suddetto principio, ex plurimis: Cass. 25 maggio 2007, n. 12239, secondo cui al fine di integrare il requisito della cosiddetta autosufficienza del motivo di ricorso per cassazione concernente – ai sensi del n. 5 ma anche ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. – la valutazione da parte del giudice di merito di prove documentali, risulta necessario non solo che tale contenuto sia riprodotto nel ricorso, ma anche che risulti indicata la sede processuale del giudizio di merito in cui la produzione era avvenuta e la sede in cui nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito e prodotti in sede di giudizio di legittimità essa è rinvenibile, cui adde negli stessi termini, più di recente: Cass. 19 febbraio 2009, n. 4056).

3. Il ricorso deve essere rigettato.

4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 40,00 per esborsi, Euro duemilacinquecento per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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