Cass. civ. Sez. VI, Sent., 19-04-2012, n. 6174 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

che U.C., con ricorso dell’11 marzo 2011, ha impugnato per cassazione – deducendo undici motivi di censura, illustrati con memoria -, nei confronti del Ministro della giustizia, il decreto della Corte d’Appello di Genova depositato in data 27 settembre 2010, con il quale la Corte d’appello, pronunciando sul ricorso della U. – volto ad ottenere l’equa riparazione dei danni non patrimoniali ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 1, -, in contraddittorio con il Ministro della giustizia – il quale ha concluso per l’inammissibilità o per l’infondatezza del ricorso -, ha condannato il resistente a pagare alla ricorrente la somma di Euro 6.000,00 oltre gli interessi dalla domanda, a titolo di equa riparazione, condannandolo altresì alle spese di ciascun giudizio liquidate in complessivi Euro 900,00;

che resiste, con controricorso, il Ministro della giustizia;

che, in particolare, la domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale – richiesto per l’irragionevole durata del processo presupposto – proposta con ricorso del 4 dicembre 2009, era fondata sui seguenti fatti: a) la U., creditrice della s.p.a. Capital, dichiarata fallita dal Tribunale di Lucca con sentenza del (OMISSIS), aveva presentato domanda di insinuazione al passivo in data febbraio 1992; b) la procedura fallimentare non si era ancora conclusa alla data di presentazione della domanda di equa riparazione;

che la Corte d’Appello di Genova, con il suddetto decreto impugnato, dopo aver determinato in diciotto anni circa la durata complessiva della procedura fallimentare in questione – ha affermato che: a) il tempo congruo di durata dello specifico procedimento fallimentare (normalmente indicato da questa Corte in anni tre) va incrementato del tempo congruo di durata (4 anni in relazione ad un giudizio di primo grado, 3 anni in relazione alla fase di appello, 2 anni in relazione alla fase di Cassazione) dei procedimenti dilatante la prima procedura per un totale complessivo, quindi, di anni dodici (3+4+3+2), avuto riguardo all’iter di giudizi civili coinvolgenti come parte la Curatela fallimentare (vedansi, nella relazione 29- 30.7.2008 del Curatore fallimentare i riferimenti, oltrechè ad un giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, ad un giudizio di opposizione L. Fall., ex art. 98 Proposto da alcuni creditori che percorreva il due gradi di merito e poi quello di legittimità); b) il danno non patrimoniale deve essere quantificato, in conformità con i parametri indicati dalla Corte EDU, in Euro 1.000,00 per ogni anno di irragionevole durata, e così in complessivi Euro 6.000,00;

che il Collegio, all’esito della odierna Camera di consiglio, ha deliberato di adottare la motivazione semplificata.

Motivi della decisione

che, con gli undici motivi di ricorso – i quali possono essere raggruppati per l’oggetto della censura -, i ricorrenti criticano il decreto impugnato, anche sotto il profilo del vizio di motivazione, sostenendo che: a) i criteri di determinazione della durata ragionevole della procedura fallimentare de qua, applicati nella specie, avrebbero comportato conclusioni radicalmente diverse e più contenute, tenuto conto che i processi che trovano origine in tale procedura sono, almeno in parte, estranei alla volontà del singolo creditore; b) la liquidazione delle spese di giudizio sarebbe stata effettuata con violazione dei minimi tariffar forensi e, comunque, in modo palesemente insufficiente rispetto al valore della causa;

che le censure sub a) del ricorso sono fondate alla luce della più recente giurisprudenza di questa Corte in ordine alla durata delle procedure fallimentari che, secondo lo standard ricavabile dalle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, non dovrebbe superare la durata complessiva di sette anni (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 22408 e 8047 del 2010), ciò in quanto, tenendo conto della peculiarità del procedimento fallimentare, il termine di tre anni, che può ritenersi normale in procedura di media complessità, è stato ritenuto elevabile fino a sette anni allorquando il procedimento si presenti particolarmente complesso (cfr. la sentenza n. 20549 del 2009), ipotesi questa che è ravvisabile in presenza di un numero particolarmente elevato dei creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi, ecc), della proliferazione di giudizi connessi alla procedura ma autonomi e quindi a loro volta di durata vincolata alla complessità del caso, della pluralità di procedure concorsuali interdipendenti;

che la giurisprudenza di questa Corte ha ulteriormente precisato che:

a) la complessità della procedura fallimentare, la cui durata sia stata condizionata da altro procedimento, è rilevante ai fini della liquidazione dell’indennizzo, in quanto al tempo ordinario della procedura fallimentare (tre anni) deve aggiungersi quello relativo all’altro procedimento (nella specie, è stato cassato il decreto impugnato, che aveva rigettato la domanda, ed è stato ritenuto, nel merito, che, in mancanza dell’acquisizione di specifici elementi di valutazione al riguardo, la durata di un procedimento fallimentare dovesse essere ragionevolmente contenuta in sette anni, tenuto conto del tempo occorso per il procedimento di insinuazione del fallimento al passivo di un altro fallimento, che ragionevolmente non poteva ritenersi superiore a tre anni, parzialmente sovrapponibili alla procedura concorsuale in senso stretto: ordinanza n. 5316 del 2011);

b) stabilendo la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 2, che, nell’accertare la violazione, il giudice deve considerare la complessità del caso attraverso un esame analitico e non con la mera enunciazione dei vari sub-procedimenti o di altre evenienze processuali, è necessario accertare analiticamente quale sia stato il tempo impiegato per portare a conclusione ciascuno dei detti sub- procedimenti, se – in considerazione della obiettiva difficoltà ed alla mole dei necessari incombenti – la durata di ciascun subprocedimento sia stata ragionevole o meno e, nella ipotesi di durata da ritenersi eccessiva, quanta parte sia imputabile al comportamento delle parti e quanta al comportamento del giudice o di altri organi della procedura o a disfunzioni dell’apparato giudiziario (cfr. la sentenza n. 950 del 2011);

che, nella specie, i Giudici a quibus, in violazione di tali principi ed adottando una motivazione chiaramente insufficiente e contraddittoria, hanno inammissibilmente aggiunto al termine ordinario di tre anni ben nove anni di durata ragionevole della procedura fallimentare de qua, riferendoli ad un processo di opposizione alla dichiarazione di fallimento (quindi non promosso dai creditori) e ad un processo di opposizione all’ammissione al passivo (senza precisare il soggetto che lo ha promosso) protrattisi per tre gradi di giudizio, senza considerare che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, siffatti processi debbono avere una durata ragionevole di sei anni complessivi (tre per il giudizio di primo grado, due per il giudizio di appello ed uno per il giudizio di legittimità), e non di nove anni, e senza motivare al riguardo;

che, pertanto, il decreto impugnato deve essere annullato in relazione alla censura accolta, restando assorbita la censura sub b);

che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2;

che il processo fallimentare presupposto de quo è durato circa diciassette anni e dieci mesi (dal febbraio 1992, data della domanda di insinuazione al passivo fallimentare, al 4 dicembre 2009, data di presentazione della domanda di equa riparazione), sicchè, detratti sette anni di ragionevole durata in base ai principi di diritto dianzi richiamati e qui ribaditi, esso ha avuto la durata irragionevole di circa dieci anni e dieci mesi;

che il consolidato orientamento di questa Corte è nel senso che, sussistendo il diritto all’equa riparazione per il danno non patrimoniale di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 e fermo restando il periodo di tre anni di ragionevole durata per il giudizio di primo grado (nella specie, sette anni), si considera equo, in linea di massima, l’indennizzo di Euro 750,00 per ciascuno dei primi tre anni di irragionevole durata e di Euro 1.000,00 per ciascuno dei successivi anni;

che, nella specie, sulla base di tali criteri e dei già richiamati principi di diritto, il diritto all’equa riparazione per il danno non patrimoniale di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, va equitativamente determinato nella somma di Euro 10.000,00 per i dieci anni e dieci mesi circa di irragionevole ritardo (Euro 750,00 annui, per i primi tre anni di irragionevole durata, ed Euro 1.000,00 per ciascuno degli sette anni successivi, oltre Euro 750,00 per i residui dieci mesi), oltre gli interessi a decorrere dalla proposizione della domanda di equa riparazione e fino al saldo;

che, conseguentemente, le spese processuali del giudizio a quo debbono essere nuovamente liquidate – sulla base delle tabelle A, par. 4, e B, par. 1, allegate al D.M. giustizia 8 aprile 2004, n. 127, relative ai procedimenti contenziosi – in complessivi Euro 1.140,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, Euro 600,00 per diritti ed Euro 490,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. Andrea Massa, dichiaratosene antistatario;

che le spese del presente grado di giudizio compensate per la metà, in ragione dell’accoglimento solo parziale del ricorso – seguono la residua soccombenza e vengono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo la causa nel merito, condanna il Ministro della giustizia al pagamento, in favore del ricorrente, della somma di Euro 10.000,00, oltre gli interessi dalla domanda, condannandolo altresì al rimborso, in favore della parte ricorrente, delle spese del giudizio, che determina, per il giudizio di merito, in complessivi Euro 1.140,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, Euro 600,00 per diritti ed Euro 490,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. Andrea Massa, dichiaratosene antistatario, e, per il giudizio di legittimità, nella metà dell’intero, intero liquidato in complessivi Euro 965,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. Giunio Massa, dichiaratosene antistatario.

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