Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 18-10-2011) 27-10-2011, n. 38845 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte di appello di Bologna, con la sentenza in epigrafe, disponeva la consegna di L.B., cittadino ungherese, all’autorità giudiziaria della Repubblica di Ungheria, in relazione al mandato di arresto Europeo (MAE) emesso nei suoi confronti per il reato di ragion fattasi, previsto e punito dall’art. 273 c.p. ungherese, comma 1, contestatogli con provvedimento cautelare emesso in data 7 gennaio 2010 dal Tribunale Centrale di Pest, essendogli stato addebitato di avere usato violenza e minaccia nei confronti di T.K. per costringerlo a consegnargli 3.000 fiorini ungheresi da lui pretesi in relazione a un debito nei suoi confronti.

2. Osservava la Corte di appello che non sussistevano ragioni per negare la consegna, considerata la rilevanza del reato contestato anche per la legge italiana e tenuto conto degli indizi di colpevolezza rappresentati nel MAE, costituiti dalle dichiarazioni della persona offesa e dalla informativa sul fatto reso dalla polizia giudiziaria, presente all’aggressione.

Secondo la medesima Corte, non risultava d’altro canto che il L. risiedesse in Italia e quindi non poteva essere accolta la richiesta difensiva diretta a subordinare la consegna alla condizione per cui dopo la celebrazione del processo in Ungheria, il L. fosse rinviato in Italia per qui scontare la pena eventualmente inflittagli.

3. Ricorre per cassazione il L., con atto in data 7 maggio 2010, consegnato, in regime di arresti domiciliari, ai Carabinieri incaricati del controllo, e da lui personalmente sottoscritto, deducendo:

3.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in punto di sussistenza delle fonti indiziarie, dato che queste erano semplicemente nominate nella sentenza impugnata, senza che nel MAE se ne fosse data una indicazione contenutistica.

3.2. Inosservanza ed erronea applicazione della L. n. 69 del 2005, art. 17, comma 4, essendosi ritenuta irrituale una testimonianza che deponeva per la presenza del L. in Italia al momento dei fatti contestati.

3.3. Inosservanza ed erronea applicazione della L. n. 69 del 2005, art. 19, comma 1, lett. c), e vizio di motivazione in punto di mancata statuizione di riconsegna del L. in Italia dopo la celebrazione del processo a suo carico in Ungheria, considerato che, come risulta dalle indagini difensive, egli soggiornava in Italia dall’anno 2005, insieme alla moglie, bisognosa di cure, essendo dedito ad attività lavorativa.

Motivi della decisione

1. Ad avviso della Corte il ricorso è manifestamente fondato.

2. Quanto alle fonti indiziarie, nel MAE (punto "e") si fa riferimento alle dettagliate dichiarazioni rese dalla vittima alla polizia giudiziaria subito dopo il fatto (avvenuto il 18 aprile 2006 in Budapest), che davano conto dell’aggressione subita e della sottrazione di oggetti preziosi e di denaro da parte del L. e di un suo complice.

Tanto basta a ritenere soddisfatto l’onere di motivazione di cui alla L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 17, comma 4, dato che da essa si evince che l’autorità giudiziaria dello Stato emittente ha ritenuto il compendio indiziario indicato seriamente evocativo di un fatto- reato commesso dalla persona di cui si chiede la consegna (v, per tutte Sez. U, n. 4614 del 30/01/2007, Ramoci, Rv. 235348).

A fronte di tale risultanze, giustamente la Corte di appello ha ritenuto che non potevano essere prese in considerazione le dichiarazioni rilasciate al difensore da tale R.A., indicata "amante" del L., circa la presenza di quest’ultimo in Italia fra il 2005 e il 2006. 3. Correttamente è stato poi escluso dalla Corte di appello, ai fini di quanto previsto dalla L. n. 69 del 2005, art. 19, comma 1, lett. c), uno stato di radicamento in Italia del L., il quale, sulla base della stessa documentazione prodotta dalla difesa, non risultava avere qui una stabile residenza (dimorando in un albergo in Rimini) nè occupato in attività lavorativa o inserito in un consolidato ambito familiare e sociale.

4. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende che, in relazione alla natura delle questioni dedotte, si ritiene equo contenere nella misura di Euro trecento.

La Cancelleria provvedere agli adempimenti di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro trecento in favore della cassa delle ammende.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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