Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 13-10-2011) 27-10-2011, n. 38904 Riparazione per ingiusta detenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Reggio Calabria, con ordinanza resa all’udienza camerale del giorno 9.11.2010 rigettava l’istanza di riparazione presentata da D.R.F. per ingiusta detenzione in regime di custodia in carcere dal 4.11.1998 al 10.08.1999 e agli arresti domiciliari da tale data sino al 2.11.1999, perchè sospettato del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, reato da cui era stato assolto per non aver commesso il fatto con sentenza del 25.10.2000 emessa dal Tribunale di Palmi, confermata dalla Corte di Appello di Reggio Calabria con decisione dell’11.05.2007.

D.R.F., a mezzo del suo difensore, proponeva quindi ricorso per cassazione avverso l’ordinanza della Corte di appello di Messina e concludeva chiedendo di volerla annullare.

Il ricorrente censurava l’ordinanza impugnata per violazione ed erronea applicazione degli artt. 314 e 315 c.p.p. e per mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in particolare nella parte in cui la Corte di appello rimproverava in termini di colpa grave condotte insuscettibili di essere riguardate alla stregua di macroscopica negligenza e trascuratezza. Pertanto, ad avviso del ricorrente, non sussisterebbe la colpa grave, impeditiva del riconoscimento del diritto all’equa riparazione.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

Osserva la Corte che il diritto a equa riparazione per l’ingiusta detenzione, regolato dall’art. 314 c.p.p. e ss., trova fondamento nella condizione soggettiva della persona sottoposta a detenzione immeritata e in tal senso ingiusta. Il quadro sistematico di riferimento è un quadro di diritto civile ma non è quello dell’art. 2043 c.c. che appresta sanzioni contro chi produce per dolo o colpa un danno ingiusto ad altri. Il principio regolatore è piuttosto quello della riparazione legata ad eventi che producono il sorgere, quali conseguenze di principi di solidarietà e di giustizia distributiva, di responsabilità da atto lecito (la distinzione tra responsabilità per danno ingiusto ex art. 2043 c.c. e responsabilità per atto lecito è ben chiarita da Cass. SS.UU. civ. 11/6/2003 n. 9341). E’ ben fermo, in materia, l’assetto delle regole generalissime che disciplinano l’onere della prova civile ex art. 2697 c.c. posto che il procedimento relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione, quantunque si riferisca ad un rapporto obbligatorio di diritto pubblico e comporti perciò il rafforzamento dei poteri officiosi del giudice, è tuttavia ispirato ai principi del processo civile, con la conseguenza che l’istante ha l’onere di provare i fatti costitutivi della domanda, la custodia cautelare subita e la successiva assoluzione (Corte Cass. Sez. 4 sent. n. 23630 02/04/2004 – 20/05/2004), della quale è talora ritenuta irrilevante la formula (Cass. Sez. 4 12/4/2000 n. 2365) e talora rilevante, nel senso che indefettibile presupposto del sorgere del diritto sarebbe solo il proscioglimento con una delle formule di cui all’art. 314 c.p.p., comma 1. Peraltro il sorgere del diritto è condizionato alla esistenza di una condotta del richiedente che al tempo del processo in nulla abbia dato causa o concorso a dare causa a quella ingiusta detenzione. L’operazione intesa a cogliere tali condizioni deve scandagliare solo l’eventuale efficienza causale delle condotte dell’imputato che possano aver indotto, anche nel concorso dell’altrui errore, secondo una valutazione ragionevole e non congetturale il giudice a stabilire la misura della detenzione (Cass. SS.UU. 13/12/95 n. 43, Sez. 4 10/3/2000 n. 1705).

Il giudice, pertanto, deve fondare la sua decisione su fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni, esaminando la condotta del richiedente, sia prima e sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale conoscenza che quest’ultimo abbia avuto dell’attività di indagine, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stato il presupposto che ha ingenerato, ancorchè in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurazione come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto (cfr. Cass. Sezioni Unite, Sent. n.34559/2002; Cass., Sez.4, Sent. n.17552 del 2009).

Tanto premesso si osserva che la Corte di Appello di Reggio Calabria, con motivazione adeguata, ha enucleato,con congrua verifica degli accertati elementi di riferimento, la condotta del richiedente ostativa all’accoglimento dell’istanza di equa riparazione. In primo luogo ha evidenziato i rapporti di frequentazione intrattenuti dal ricorrente con soggetti coinvolti in fatti illeciti, in particolare con elementi di spicco del clan Albanese, persone con le quali egli risulta avere intrattenuto conversazioni aventi ad oggetto anche l’uso di armi ed ordigni esplosivi. I rapporti con tali persone erano giustificati dal ricorrente sulla base di un suo presunto ruolo di "confidente", cui egli asseriva di non essersi sottratto in ragione di una sua curiosità verso personaggi assurti a posizioni di "prestigio mafioso". Tali elementi, atteso il contesto dei fatti in contestazione e la natura del reato ascrittogli (associazione per delinquere di stampo mafioso), sono stati correttamente ritenuti altamente indicativi e riflettenti comportamenti obiettivamente sospetti ed imprudenti che, pertanto, ben potevano indurre gli inquirenti a concludere nel senso del coinvolgimento del D.R. nel sodalizio di stampo mafioso, ovvero nel ritenerlo dedito a traffici illeciti. La Corte territoriale pertanto ha fondato il proprio convincimento su elementi di fatto specifici e significativi e questo soddisfa l’obbligo di motivazione e rende quest’ultima immune dalle lamentate carenze e illogicità. Il ricorrente pertanto, tenendo una condotta gravemente colposa consistita nell’avere tenuto il comportamento di cui sopra, ha mantenuto un contegno che avvalorava le accuse mosse nei suoi confronti ed ha contribuito a determinare le condizioni per l’adozione ed il mantenimento del provvedimento restrittivo per il quale si chiede il riconoscimento del diritto alla riparazione.

Questo essendo il quadro accusatorio, il motivo proposto dall’odierno ricorrente non può essere accolto.

Il provvedimento impugnato, che definisce il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, supera quindi il vaglio di questa Corte che è limitato alla correttezza del procedimento logico giuridico con cui il Giudice è pervenuto ad accertare o negare i presupposti per l’ottenimento del beneficio indicato. Resta invece nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito, che è tenuto a motivare adeguatamente e logicamente il suo convincimento, la valutazione sull’esistenza e la gravita della colpa e sull’esistenza del dolo.

Il legislatore non ha infatti riconosciuto incondizionatamente il diritto all’equa riparazione, ma l’ha esplicitamente escluso allorquando il comportamento dell’indagato, come appunto nella fattispecie de qua, abbia indotto in errore il giudice circa l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza a suo carico.

Il ricorso deve essere pertanto rigettato e la ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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