Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-10-2011) 27-10-2011, n. 39108

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 24.1.2011 la Corte d’appello di Napoli confermava, nell’ambito di processo stralciato da altro più ampio celebrato nei confronti della pluralità dei presunti associati, il giudizio di penale responsabilità nei confronti di C.C. e L.G. ritenuti colpevoli entrambi del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. e C. anche di violazione dell’art. 629 cod. pen., aggravato L. n. 203 del 1991, ex art. 7. La Corte riformava la sentenza in punto pena nei confronti dei due imputati, con il riconoscimento della continuazione con altro reato per il quale i due avevano riportato condanna. Gli stessi venivano in sostanza ritenuti organici al clan camorristico denominato clan Mazzarella, ed in particolare ad una sua articolazione, operante sul territorio di (OMISSIS), guidata da A.F.; la sussistenza di tale consorteria -che agiva attraverso la forza intimidatrice ed il controllo del territorio anche a mezzo di efferati delitti contro la persona, aventi come scopo il controllo delle attività economiche, l’assicurazione dell’impunità agli affiliati, la garanzia della latitanza degli stessi, nonchè l’affermazione del controllo egemonico anche a mezzo di accordi con altre consorterie- veniva affermata alla luce delle dichiarazioni di collaboratori di giustizia; in particolare i due venivano ritenuti operativi nel settore delle attività estorsive. Agli stessi era stato infatti contestato di essere intervenuti presso P.U. e S.F., che si erano rivolti ai coniugi F.C. e M.R., trovandosi in difficoltà economiche nella gestione della loro attività commerciale, per ottenere un prestito di 20.000 Euro, che fu loro accordato al tasso del 6% mensile nella primavera 2004; risultava infatti che il C. si presentò agli usurati quale appartenente al clan Mazzarella ed il L. funse da spalleggiatore, per imporre l’immediata restituzione del debito. La corte evidenziava che il fatto per il L. era stato conclamato con sentenza passata in giudicato.

La corte territoriale rilevava poi come nei motivi di appello non era stata messa in discussione l’esistenza delle due compagini criminose, il clan Mazzarella da un lato e quello guidato da A. dall’altro, di derivazione dal primo e rilevava che della partecipazione del C. rivestiva attitudine dimostrativa il fatto che lo stesso partecipò a forzare la volontà dei debitori della M., presentandosi come appartenente al clan Mazzarella;

ancora di rilievo venivano ritenuti gli esiti di intercettazioni telefoniche, da cui si evinceva che il C. era pagato a settimana dall’associazione; infine significativa era reputata la partecipazione dello stesso ad altra estorsione, in danno dei fratelli M.. Tale quadro costituiva secondo la corte territoriale la prova della partecipazione e il riscontro alle dichiarazioni dei collaboratori che avevano annoverato il C. nel gruppo facente capo all’ A.. Per quanto riguarda il L. poi, veniva sottolineato che anch’egli partecipò all’azione per recuperare il credito della M., che anche su di lui gravavano indicazioni accusatorie desumibili dai colloqui intercettati da cui risultava che era stato risarcito per esser stato arrestato mentre operava per il gruppo.

2. Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso per Cassazione i due imputati.

2.1 C.C. ha dedotto in primis, inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, in riferimento all’art. 192 cod. proc. pen.: viene fatto rilevare che i collaboratori di giustizia nulla avrebbero propalato quanto alla specifica partecipazione dell’imputato alla compagine criminosa, gli offesi M.N. ed A. non ebbero a riconoscere il C., per cui viene lamentata una corretta valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e delle emergenze processuali. In secundis, viene dedotto vizio di illogicità della motivazione, non essendo stato chiarito quali siano le prove a carico dell’imputato, giustificative della condanna.

2.2 L.G. ha sviluppato quattro motivi. Con il primo deduce difetto di motivazione ed in particolare travisamento della prova, illogicità e contraddittorietà della motivazione: si contesta che sia stato ritenuto elemento probante l’intervenuta condanna del L. per l’estorsione in danno del P., laddove tale elemento avrebbe dovuto essere valutato unitamente ad altri elementi di prova. Non potevano essere valorizzati in tal senso gli esiti delle intercettazioni, visto che in un colloquio intercorso tra E.A. e A.F. emergeva che quest’ultimo non conosceva il L.; quand’anche si fosse disposto un risarcimento a favore di quest’ultimo, tale dato non avrebbe potuto svolgere forza dimostrativa dell’appartenenza all’associazione, attenendo il fatto risarcitorio ad un episodio specifico, quale la tentata estorsione in danno del P., che configurò un aiuto alla M., indicata dagli stessi giudici di merito estranea al contesto associativo. Nè da altri passi di intercettazione sarebbe dato desumere elementi accreditanti l’intraneità del L.. Con un secondo motivo viene dedotta erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 2 cod. pen., ed insufficiente ed illogicità della motivazione nella parte in cui è stata esclusa l’applicazione del regime sanzionatorio previsto dalla precedente formulazione dell’art. 416 bis cod. pen. (prima dell’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005): la difesa ribadisce che il L. fu arrestato il 6.5.2005 e con l’arresto cessò la permanenza del reato associativo, circostanza che risultava comprovata -secondo la difesa – dal fatto che il L. non aveva più offerto alcun contributo alla consorteria e che le conversazioni erano state intercettate fino al settembre del 2005, laddove la nuova legge entrò in vigore nel dicembre. Con un terzo motivo, viene contestato il difetto di motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze di cui all’art. 62 bis cod. pen., atteso che se mai ebbe a partecipare al sodalizio, il ruolo dell’imputato fu del tutto marginale e certamente meno grave rispetto a quella dei coimputati. Con un quarto motivo, viene dedotta mancanza di motivazione e violazione degli artt. 132 e 133 cod. pen., non avendo la corte indicato i criteri che ispirarono la scelta della misura della pena.

3. All’odierna udienza di discussione, è stata separata la posizione di M.R., imputata del reato di usura che era stata processata unitamente ai due imputati menzionati, per impedimento del suo difensore.

Motivi della decisione

Entrambi i ricorsi sono infondati e debbono essere rigettati.

La sentenza impugnata ha correttamente motivato la ritenuta appartenenza del C. alla compagine criminosa, sulla base di un solido e variegato apparato argomentativo basato non solo e non tanto sulle propalazioni dei cd. collaboratori di giustizia quanto sulle indicazioni fornite dal testimoniale ( P. e S.) sulla circostanza che egli C. ebbe a forzare la loro volontà, presentandosi come appartenente al clan Mazzarella, sui contributi rappresentativi dei fratelli M., titolari di un’impresa edile a loro volta vittime di estorsione, nonchè sulle conversazioni intercettate, dalle quali emergeva che lo stesso C. ebbe ad attribuirsi un ruolo non di secondo piano in ambito associativo ed ebbe ad ammettere di essere stipendiato dall’associazione con un compenso settimanale. Il compendio è stato correttamente valutato, senza tema di smentita, ad elevata attitudine dimostrativa dell’intraneità del C. nel gruppo criminale, nell’ambito del quale rivestiva un ruolo ben definito che era quello di intervenire pesantemente sugli estorti per convincerli al pagamento. Nessuna forzatura è quindi ravvisarle nell’iter argomentativo che non si presta ad alcuna censura.

Quanto al L., non poteva non essere valorizzato il dato che l’imputato risulta esser stato condannato con sentenza definitiva per l’estorsione in danno di P. e S., poichè il fatto storico, da ritenere certo, della sua intervenuta partecipazione alla azione che mirava a forzare la volontà dei debitori di M.R. non poteva affatto essere trascurato quanto al contesto nel quale l’intervento pressorio avvenne, denotante lo stretto collegamento del medesimo con personaggi di primo piano del gruppo associativo, in nome del quale intervenne.

Sulla portata del colloquio intercorso tra E.A. e A. F., la sentenza ha dato ampiamente ragione del fatto che lo stesso non possa rivestire la valenza che la difesa ha sollecitato ad attribuire, poichè in passi successivi era emerso che proprio il L. era stato indicato tra coloro che dovevano essere risarciti dall’associazione a causa del periodo di detenzione sofferta, il che non può che essere interpretato nel senso che il risarcimento era in stretta correlazione con il fatto che il menzionato aveva lavorato per l’associazione ed era stato arrestato nel compimento del mandato ricevuto dalla consorteria, che difficilmente si serve di soggetti occasionalmente reclutati, non testati nella loro affidabilità.

Il secondo motivo è ai limiti dell’ammissibilità, poichè la corte territoriale ha dato conto del fatto che non poteva essere applicata la disciplina sanzionatoria prevista fino al 2005, per la semplice ragione che la contestazione mossa ha avuto riguardo a condotta perdurante che andava ritenuta chiusa solo con la pronuncia della sentenza di primo grado: è stato poi correttamente sottolineato che l’inserimento del L. tra le persone alle quali il gruppo assicurava assistenza legale e stipendio anche in permanenza di detenzione, integrava la prova per ritenere che detta condizione non aveva scisso il legame associativo, con il che l’arresto intervenuto in epoca precedente la riforma dell’art. 416 bis cod. pen., non poteva avere alcuna ricaduta nel senso richiesto dalla difesa. Detta motivazione assolutamente ineccepibile è stata del tutto trascurata dalla difesa che ha riprodotto in sede di legittimità le stesse doglianze avanzate in secondo grado.

Quanto al terzo e quarto motivo, va ricordato che la corte ha sottolineato i tratti della personalità dell’imputato, incline alla violenza e a questo dato di fatto ha ancorato il diniego delle circostante attenuanti generiche: non è quindi apprezzabile alcun deficit motivazionale; la valutazione operata non può essere contestata nel merito nel presente scrutinio di legittimità. Stesso discorso deve essere fatto per la misura della sanzione, avendo la corte sottolineato il livello di gravità dei fatti ed il livello di partecipazione dell’imputato all’attività delittuosa contestata, correttamente giustificando in tal modo l’inflizione di pena non minima, ma comunque inferiore rispetto al C., riconosciuto personaggio di maggiore spessore, dando quindi prova di valutazione ponderata ed ampiamente argomentata.

Al rigetto dei ricorsi segue la condanna di entrambi gli imputati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti C.C. e L. G. al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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